Uno sguardo anticonformista sulla quotidiana miseria umana, attraverso storie che narrano di fame, bisogno primario dell’uomo, di un rapporto con il cibo negato, anzi trasfigurato e brutalizzato dal capitalismo nella sua fase neoliberista contemporanea. Piccole storie nella grande Storia, senza sconti per le tante ipocrisie nè per le facili illusioni ecologiste e pseudo-umanitariste. Sono questi i temi affrontati, con un misto di fascino e terrore, in“El Hambre”, ultimo libro dello scrittore argentino Martìn Caparròs.
di Renata Puleo
La fame, uno.
Ci ho ripensato leggendo l’ultimo libro dell’argentino Martín Caparrós El hambre, la fame, pubblicato nel 2015 in Spagna, ora disponibile nella traduzione italiana. Frutto di alcuni anni di lavoro in giro per il mondo, racconta il lato osceno del capitalismo, quello che fa commercio del primo dei bisogni umani, mangiare. Mangiare molto spesso solo per sopravvivere, non per vivere una vita che consenta l’espressione di altri bisogni e desideri. Lato osceno anche dell’aiuto umanitario, della carità offerta sotto vesti laiche dalle organizzazioni non governative, dagli stati che dedicano una parte (sempre più scarsa!) dei loro PIL agli affamati e, in forma religioso-soccorrevole, dalle diverse chiese.
Nel raccontare la fame, quella che si prova come stato permanente e non quella che si sente per naturale necessità quotidiana (“pasar” hambre, non é “tener” hambre), è di neoliberismo che parla il testo. Neoliberismo come volto odierno del capitalismo. Gli effetti concretamente oggettivi di un’ideologia sui corpi di intere popolazioni, ma anche gli effetti riscontrabili in ambiti apparentemente astratti, che non metabolizzano proteine e carboidrati, ma pensieri, conoscenze, saperi. Apparentemente, perché è il nesso mente-corpo, il legame fra pensieri e modalità del vivere ad essere sistemico, suggerisce Caparrós. L’ideologia neoliberista non abbina, compone, in una micidiale unità superiore, i due ambiti.
Inciso.
La scuola occupa un posto centrale come luogo di elaborazione della complessa strategia neoliberista. La riforma della scuola operata con l’emanazione della Legge 13 luglio 2015 n.107 costituisce una misura di accompagnamento sovrastrutturale ad un più vasto progetto di ingegneria sociale, la cui intenzione è disegnare un nuovo soggetto umano e dunque politico.
La crisi del 2007/2008 non ha ridotto in ginocchio il sistema-mondo idealmente unificato dopo la caduta del Muro, semmai lo ha rivitalizzato, mettendo in moto energie auto-generative, soprattutto di ordine culturale. Infatti, se il prefisso neo rimanda a una ridefinizione del capitalismo del libero mercato, nato ben prima delle teorizzazioni di Smith, la missione del nuovo mercato ha bisogno di un processo di naturalizzazione delle pratiche economiche. Per sostenere un’ideologia economica capace di modificare in profondità mentalità, aspirazioni, stili di vita, l’idea di uomo e di consorzio umano, bisogna mettere mano ai luoghi e alle forme della trasmissione culturale. I modelli di buona vita diffusi dai media agiscono in modo trasversale, implicito, quelli propri delle istituzioni deputate all’educazione e alla formazione lo fanno esplicitamente, direttamente operando sulle coscienze giovanili. Concetti come merito, meritocrazia, competenza in competizione, pari opportunità, velocità, ottimismo giovanilistico, ibridati dal gergo economico e sportivo, vengono diffusi attraverso l’informazione mediatica e costituiscono l’innervazione ideologica della nuova buona scuola.
Non so quanto sia diffusa fra i docenti e fra i responsabili della funzione genitoriale la consapevolezza del profondo legame tra la cornice neoliberista e il processo di riforma in atto nella scuola. L’analisi dei cambiamenti intervenuti in modo subdolo e contraddittorio dal 1999, il ruolo di perno dell’autonomia scolastica nella progressiva esplicitazione di questo disegno, tanto da essersi mantenuta intatta in tutte le legislature susseguitesi dalla sua emanazione, rimane spesso priva di rilievo. Tra l’altro, vige la convinzione che, malgrado tutto, i mutamenti in atto siano ancora governabili, che ci sia spazio per una sorta di indipendenza della scuola dalla deriva complessiva.
La fame, due.
Il libro di Martín Caparrós ha il merito – come ho detto - di affrontare in modo sistemico il problema dei 2.000 milioni di persone che soffrono di “insicurezza alimentare” (locuzione tranquillizzante rispetto a denutrizione), delle 10 che muoiono ogni 30 secondi. Non tralascia mai di ricordare che la fame di cibo provoca anemia del pensiero in chi la soffre e un profondo senso di impotenza-indifferenza in chi non la conosce se non come dato, insieme di dati. Ci rammenta come risulti addirittura funzionale al sistema economico-sociale che la produce, una sorta di malthusiano equilibrio fra risorse e popolazione, un modo per depotenziare le menti.
Il libro dello scrittore e saggista argentino proprio per la vastità e la profondità dell’analisi è un libro difficile, direi estenuante. Il fenomeno-fame è affrontato in cinque momenti, per altrettanti punti di vista su effetti e cause, con un angustiante viaggio nell’Altro Mondo (non terzo, non quarto, semplicemente “otro mundo”). Africa Nera, India, Bangladesh, Madagascar. Non sorprendentemente, l’Argentina e gli Stati Uniti, i cui poveri, con i white trash, la spazzatura bianca formatisi dopo la crisi economica, ammontano a 50 milioni di persone, il 16% dell’intera popolazione. Certo, dice Caparrós, morire di inedia in Sudan sembra diverso dal nutrirsi di scarti alimentari, di immondizia, a Buenos Aires, ma le cause di fondo restano le stesse, ben radicate nella ferocia dello sfruttamento neoliberista.
Caparrós non è un economista, è uno che racconta storie, storie dentro la Storia, come già faceva prima della dittatura e dell’esilio con lo scrittore desaparecido Rodolfo Walsh, per la rivista di sinistra Noticias. Il suo è un lavoro quanti-qualitativo, come dovrebbe essere ogni buona ricerca in ambito sociale, e per questo appare assai convincente. Sono le vicende personali di donne, di uomini, di bambini a tessere il testo. Soprattutto donne, perché anche la fame è di genere, colpisce di più la popolazione femminile, in culture dove questo dato sembra una nemesi, visto che le donne sono deputate alla preparazione del cibo in modo pressoché esclusivo. Negli intermezzi intitolati “Palabras de la Tribu” l’autore raccoglie, come il controcanto di un coro greco, le nostre viziate convinzioni su come va il mondo, i nostri pregiudizi, le nostre autodifese, la nostra profonda ignoranza e incapacità di capire in quale sistema-mondo viviamo, tutti, ma proprio tutti, non solo gli affamati, non solo i poveri.
Caparrós non risparmia i colpi bassi alla nostra ipocrisia, e alla sua: sono “un canalla” perché scrivo questo libro per confessarmi e assolvermi, sono una canaglia perché per scriverlo ho usato i fondi di una agenzia di aiuti alla cooperazione che lavora nel modo che critico, sostenendo il modello, mettendoci le pezze. Non risparmia neanche i guru della microeconomia e del microcredito, gli “ecololò” dell’ecologismo “suntuario”, i teorici alla Vandana Shiva che, in fondo, predicano un capitalismo laborioso e bonario.
Ma, si domanda Caparrós, se questi “hambrientos”, se i nuovi poveri americani e africani ad un certo punto decidessero che basta, che bisogna far saltare le leve del manovratore? Se il terrorismo, l’ISIS, fossero solo un assaggio di quello che potrebbe accadere? Ma, si risponde, l’Altro Mondo non è la Parigi del 1789, nemmeno la Vandea contadina, è l’altrove dalla speranza, e l’altro dall’utopia. La povertà estrema, la perdita della propria dignità di lavoratore e di cittadino, la fame come condizione perenne del corpo e della mente, oggi sembrano assumere il compito di strumenti per la rassegnazione, per l’autopunizione (se sono povero è colpa mia), per il fatalismo (così vuole Allah, così vuole “el Todopoderoso”, l’Onnipotente).
Caparrós è affascinato e terrorizzato dalla mole di dati che si possono raccogliere e analizzare sul fenomeno dell’impoverimento di milioni di persone. Numeri in tabelle, statistiche, rapporti la cui fonte è talvolta ufficiale, governativa, altre volte ufficiosa, di nicchia. Grandi numeri che si contraddicono, si smentiscono e smentiscono troppo spesso la loro presunta oggettività. Ciò che sta alla base di tutto questo profluvio di numeri ha dei nomi: cambio climatico, desertificazione, urbanizzazione forzata, trattati di libero commercio (si veda alle attualissime voci TTP e TTIP…traffici geopolitici!), prodotti agroalimentari quotati in borsa, corruzione, distrazione di fondi dedicati: non c’entra la tiranna Natura, è il capitalismo, bellezza!
Ed è lo sconcerto intorno alla cifre che spinge Caparrós a raccontare storie di vita, perché il resoconto su una giornata in una “villamiseria”, uno slum, in Bangladesh, o fra i raccoglitori di immondizie alla periferia di Buenos Aires, controbilanciano la neutralità del numero, lo rendono vivo, lo piegano verso un’immagine da cui vorremmo scostare lo sguardo. In certi momenti, dice Caparrós, avrebbe voluto poterlo fare anche lui, si rammarica per chi legge, perché questo libro parla di cose schifose, di bruttezza, di malattia, di fluidi organici, di decomposizione. Che lo si voglia o no, questo è il corpo che noi siamo, quello che nelle province floride del capitalismo occultiamo con buone pietanze, sane digestioni, discrete eliminazioni, complete igienizzazioni. Ciò che parla da questo libro è il corpo sfatto, prostrato, disumanizzato. E’ il musulmano di Primo Levi, chino sulla crosta di pane.
Il musulmano che sta scomparendo, secondo altri analisti, quelli interni al sistema. Anche loro contro la felice e facile ecologia, contro gli astrattismi dei buoni alla Shiva, leggono e interpretano i dati per far quadrare i conti, da cui si ricava che la fame nel mondo ha dimezzato la sua cifra negli ultimi vent’anni grazie al progresso in campo scientifico. Basta leggere le contorsioni ideologiche dell’analista politico Marco Ponti in un acuminato elzeviro dal titolo: ”I compagni felce e mirtillo che servono ai protezionisti”, pubblicato su Il fatto quotidiano del 12 ottobre scorso. Dài tempo al tempo, il capitalismo nella sua forma neo, informatizzata, numerica, geneticamente modificata, ci salverà ancora una volta. Caparrós non si accontenta della indignazione e non si aspetta nulla dal riformismo post-socialdemocratico. Chiede di trasformare un sentimento “elegante e controllato” di resilienza in qualcosa che “non si neghi all’azione, che denunci e che sollevi, che passi all’attacco”.
Certo, conclude il suo poderoso lavoro, “siamo in un momento privo di progetto…un’epoca difficile, orfana”, ma proprio per questo dobbiamo continuare a cercare, non possiamo accontentarci di stanare le malefatte del nemico di classe (e sì, ancora!), dobbiamo studiare e lottare, lottare per poter studiare. Stare in cerca è angustiante ed è affascinante, e abbiamo poco tempo.
Cercare. Occorrono menti critiche, occorrono strumenti di analisi non convenzionali, occorre un pensiero non conformista, non conforme. Occorre abbattere il muro dell’ignoranza, della rassegnazione, della induzione alla fame morale, politica.
Non c’è posto per la scuola in tutto questo?