Il socialismo per cui dobbiamo batterci, e il partito comunista che ci serve

I limiti teorici, organizzativi e pratici che sono alla radice della scomparsa del Pci. Quale partito comunista serve oggi?


Il socialismo per cui dobbiamo batterci, e il partito comunista che ci serve

Ponendomi l’obiettivo di star dentro uno spazio ragionevole per poter affrontare seriamente la questione postami dall’ormai prestigioso giornale “La Città Futura” (un ragionamento sul 100esimo del PCd’I e su quale partito comunista per il presente e il futuro) non posso che preannunciare un linguaggio simile alla musica jazz, spesso basata su interi periodi sincopati.

Per ciò che riguarda l’intera storia del Pcd’I-Pci c’è innanzitutto da liberarsi da un “equivoco” che è stato ed è ancora obliquamente coltivato da alcuni dei gruppi dirigenti comunisti italiani successivi allo scioglimento del Pci: l’“equivoco” per cui la colpa dell’autodissolvimento del più grande partito comunista dell’occidente capitalistico sia stata solamente di Achille Occhetto. Credo che le avanguardie a cui posso rivolgermi attraverso “La Città Futura” sappiano già che questa “lettura” non solo è perniciosamente idealistica, ma è soprattutto brutalmente opportunista, poiché punta a deresponsabilizzare tutta la lunga fase “berlingueriana” che precede l’assassinio politico di Occhetto e a mitizzare acriticamente l’intera storia del Pci. Questo atteggiamento di rimozione è opportunista poiché tendente a ottenere il consenso (elettorale, militante) dei comunisti/e provenienti dal Pci, ed è nefasto poiché ha precluso e continua a precludere un’analisi seria della storia del movimento comunista italiano da cui possa partire un progetto di ricostruzione di un partito comunista all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe in Italia. D’altra parte, vi saranno pure dei motivi oggettivi per i quali le formazioni comuniste italiane successive al Pci siano andate tutte incontro a sostanziali e sempre più tristi fallimenti. E la rinuncia a un’analisi senza sconti della lunga storia del dissolvimento del Pci è senz’altro uno dei motivi oggettivi del fallimento delle esperienze politiche successive a essa.

Berlinguer: vi sono tuttora gruppi dirigenti comunisti che rimuovono la lunga teoria di “rotture” ideologiche e politiche con le quali il “berlinguerismo” ha preparato l’“occhettismo”, la consacrazione del parlamentarismo liberalborghese quale unica via al socialismo, ripudiando la via rivoluzionaria leninista e la decisiva concezione dell’abbattimento dello Stato borghese; la rottura, già nella seconda metà degli anni ’70, da parte del Pci, con il movimento comunista internazionale; la scelta, ideologicamente e politicamente drammatica, di collocare il Pci e l’Italia “sotto l’ombrello della Nato”; l’eccezionale ambiguità dell’affermazione relativa all’“esaurimento della forza propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, con la quale si usciva da destra dalla crisi, reale, dell’Urss e del “campo socialista”, in sintonia (il gruppo dirigente “berlingueriano”) con la socialdemocrazia tedesca degli ultimissimi anni dell’800, quando questa stessa socialdemocrazia, attraverso l’affermazione “dell’esaurimento della spinta propulsiva della Comune di Parigi”, si trasformava, da forza di classe e ancora rivoluzionaria, in quel partito socialdemocratico che avremmo poi conosciuto nel ’900; l’eurocomunismo (devastante movimento per il quale, anche per responsabilità degli “insabbiatori” ideologici comunisti successivi alla fine del Pci, non vi è ancora giusta coscienza in tanta parte degli odierni comunisti/e italiani). Un’esperienza teorica e politica, questa dell’eurocomunismo, caratterizzata dalla rottura con l’intero patrimonio teorico marxista e leninista che, inevitabilmente, portò il Pci a rompere con grandissima parte del movimento comunista europeo e mondiale per collocarsi sempre più a fianco delle socialdemocrazie europee (ai tempi di Berlinguer a fianco di Willy Brandt e Olof Palme); la scelta del “compromesso storico” e poi, peggiorando, della “solidarietà nazionale”, vie che preannunciavano, sul piano concreto, un’entrata del Pci al governo sostanziale (prima ancora che al governo istituzionale) del paese, attraverso l’assunzione di “responsabilità nazionali” che portavano il Pci e la stessa Cgil a rendere “morali” e persino “rivoluzionari” i nuovi e grandi sacrifici sui salari, sui diritti e rispetto alla rinuncia della costruzione del contropotere operaio in fabbrica richiesti al movimento operaio complessivo. Come “utili” alla fase venivano concepiti sia l’accettazione della concezione liberista della supposta relazione tra rialzo dei salari e rialzo dell’inflazione (che portò Berlinguer e poi Lama a definire “il salario non più una variabile indipendente”), che la ratifica del primato ideologico e politico del profitto capitalistico e del suo modo di produzione.

Naturalmente, saremmo complici di quella cultura dominante, che senza resistenza ideologica è entrata senza freni nello stesso campo comunista e di sinistra, se affermassimo che il “berlinguerismo” (come già, per molti, “l’occhettismo”) sia privo di retroterra e radici. E qui dovrebbe entrare decisamente in campo un’analisi, serrata e libera da ognuna di quelle mitologie, purtroppo ancora imperanti, sulla storia profonda (e indicibile, rispetto alla stessa concezione di “metastoria” mutuata dallo storico Aldo Ferrabino) del Pci.

Non era il caso, di fronte al socialmente e politicamente drammatico suicidio del Pci e di fronte al prometeico progetto della “rifondazione comunista”, avviare un’analisi seria della storia del movimento comunista in Italia, soprattutto per dare le più solide basi possibili alla costruzione di un nuovo partito comunista?

Ciò non è stato fatto, in gran parte per responsabilità del pensiero debole, quanto “soreliano”, anarco-sindacalista e tuttavia prepotente nella gestione partitica, del “bertinottismo”. E risiede essenzialmente qui, in ciò che non è stato fatto sul piano teorico, il fallimento della rifondazione comunista.

Ma se mai fosse vero (per chi scrive lo è) che anche il “berlinguerismo” trova necessariamente, materialisticamente – se vogliano uscire da una metastoria alla Ferrabino – almeno alcune basi materiali nella storia profonda del Pci, dovremmo pur chiederci quali siano queste basi materiali. Ma per avventurarci (come avrebbero dovuto fare i “rifondatori” comunisti, come dovrebbero fare e non fanno anche i gruppi dirigenti delle attuali formazioni comuniste italiane) in una tale disamina occorrerebbe innanzitutto non aver paura di affrontare i miti, gli dei. Iniziando dunque a porci, almeno a porci, alcune domande:

- si possono intravvedere, nella “svolta di Salerno” condotta da Togliatti, alcuni elementi politico-ideologici (collocazione all’interno del sistema culturale, politico, istituzionale liberalborghese) che, ideologicamente degeneratisi dentro la stessa storia futura del Pci, avrebbero poi dato un contributo ai processi di involuzione e socialdemocratizzazione di quel partito?

- il sipario energicamente chiuso (non solo sul piano politico e su quello della contingenza storica, ma soprattutto su quello ideologico) su ogni possibile trasformazione della guerra di Liberazione in guerra insurrezionale e rivoluzionaria ha contribuito a quell’indubbio processo di “statalizzazione” borghese del Pci, che lo ha portato al “compromesso storico” e alla completa decomunistizzazione? In altri termini: la santificazione “berlingueriana” della via liberal-borghese al socialismo e dunque della negazione, politico-teorica, della rottura rivoluzionaria può trovare alcuni prodromi nella negazione assoluta della via rivoluzionaria che fremeva nel “vento del Nord”?

- Con Pietro Secchia responsabile dell’Organizzazione, nella prima metà degli anni ’50, il Pci è strutturato, oltreché sulle sezioni territoriali, su ben 56mila cellule di produzione, centinaia di migliaia di operai e lavoratori/lavoratrici organizzati in modo rivoluzionario direttamente nel luogo del conflitto capitale/lavoro. Con l’estromissione di Secchia e l’avvento prima di Amendola e poi di Berlinguer all’Organizzazione, scompare letteralmente il partito organizzato nei luoghi del conflitto e si torna all’organizzazione tipica dei partiti socialisti e socialdemocratici della Seconda Internazionale. Rispetto a ciò possiamo affermare, crediamo con onestà intellettuale, che la parabola storica dell’involuzione organizzativa si sovrappone specularmente alla parabola involutiva politica e teorica del Pci. Sarebbe stato, questo, un campo d’indagine per i comunisti “rifondatori”? Lo sarebbe ancora per gli attuali dirigenti comunisti? È una domanda retorica: questo sarebbe stato e oggi sarebbe un decisivo campo d’indagine. Per una pratica politica odierna volta a costruire il partito essenzialmente nei luoghi del conflitto, anche come primo antidoto ai processi di istituzionalizzazione ed elettoralismo, di “cretinismo parlamentare”. Ma ciò non è mai stato: né il Prc né i piccoli partiti comunisti venuti dopo il Prc hanno imboccato la strada dell’analisi sull’involuzione organizzativa del Pci né, tantomeno, hanno tentato di rilanciare la pratica dell’organizzazione leninista e gramsciana. Credo di poter dire con cognizione di causa che l’insieme dei piccoli partiti comunisti italiani attuali possa contare sulle dita di una mano le fabbriche ove i militanti comunisti sono significativamente organizzati;

- la stessa “via italiana al socialismo” (soprattutto delineata dal VI all’VIII Congresso del Pci) non doveva essere sottratta alla mitologia storica e analizzata sia nella sua componente fortemente positiva (costruzione di un partito di massa, una lezione anche per la contemporaneità) che nella sua componente ambigua (inclinazione alla definitiva collocazione ideologica e politica del Pci nell’ambito del parlamentarismo liberal-borghese)?

- per ultimo, e naturalmente solo di passaggio: la “rifondazione” avrebbe avuto bisogno di un grande slancio e di un grande coraggio teorico. Nessun punto doveva essere tralasciato (ma tutti lo furono), nemmeno quelli più “santificati” e ostici. Mi riferisco, per esempio, alla concezione della “guerra di posizione” che Gramsci propone, in fasi storiche date e in contesti sociali dati, in alternativa alla “guerra di movimento”. Mi riferisco alla conseguente concezione gramsciana dell’egemonia culturale che il movimento operaio complessivo dovrebbe conquistare durante una, anche lunga, “guerra di posizione”. Non era forse compito di un vero processo rifondativo del pensiero e della prassi comunista notare che la concezione gramsciana dell’egemonia, pur nella sua grandezza, ha in sé anche alcuni elementi di natura positivista, nel senso che conquistare e mantenere l’egemonia culturale operaia senza potere operaio e all’interno del potere capitalistico è un programma particolarmente difficile? Non si poteva rimarcare il fatto che, poi, la degenerazione ideologica progressiva del Pci, la sua sostanziale “mutazione genetica”, snatura la concezione gramsciana stessa della “guerra di posizione”, trasformandola in una linea adattativa all’interno della democrazia liberal-borghese? Non si doveva svelare il fatto che, a partire da tutto ciò, strumentalizzando e tradendo Gramsci, si utilizzano le categorie della “guerra di posizione” e quella di egemonia per ratificare per sempre l’abbandono della rottura rivoluzionaria, della “guerra di movimento”?

Vi sono tuttora, anche di fronte ai vistosi fallimenti delle esperienze comuniste italiane attuali, molti dirigenti comunisti che storcono il naso rispetto alla richiesta di un rafforzamento dell’analisi politico-teorica sulla storia della degenerazione e poi del suicidio del Pci (ma anche sulla storia, anch’essa importante, del movimento comunista esterno e “a sinistra” del Pci) e rispetto alla richiesta di fondare un nuovo partito comunista dotandolo innanzitutto di un profilo politico-teorico all’altezza dei nuovi tempi. Chi storce il naso liquida con l’accusa di “accademia” tali richieste. Ma proprio in questa “sufficienza” con la quale spesso si risponde all’esigenza politico-teorica risiede tanta parte delle attuali difficoltà del movimento comunista italiano.

Ed è sulla base di questa, drammatica, sottovalutazione della questione teorica che iniziamo ad aprire, per sommi capi, la riflessione su ciò che oggi, in relazione al passato, servirebbe al movimento comunista in Italia. Servirebbe, innanzitutto – come immediata conseguenza di uno spirito alto di ricerca politico-teorica aperta, non dogmatica – una politica di costruzione e di preparazione dei “quadri”, una politica mai seriamente praticata dai partiti comunisti successivi all’autoscioglimento del Pci (non è infatti un caso che nessuna forza comunista attuale sia dotata di una scuola-quadri). Dobbiamo chiederci: come è possibile trasformare un militante in un compagno/a capace di popolarizzare una critica profonda all’Unione europea, di guidare una lotta di massa contro l’Ue se lui/lei stessa non ha la coscienza profonda di che cosa sia il neoimperialismo dell’Ue? Diciamo ciò perché consapevoli del disorientamento, sulle questioni dell’Ue, di buona parte dei quadri e dei militanti degli attuali partiti comunisti in Italia. Non occorrerebbe, dunque, su questo nuovo, contemporaneo, altissimo punto di scontro di classe rappresentato dall’Ue, dotarsi di scuole quadri in grado di mettere in campo “caporali” (per dirla alla Gramsci) in grado di organizzare, estendere, rendere popolare la lotta contro l’Ue?

Oggi, questo obiettivo non è colto in virtù di due questioni: da una parte l’ancora pesante retaggio politico, non rimosso, del Pci, che passando da una critica radicale all’Ue giunge, già nella fase “berlingueriana” iniziale, a un’accettazione di fatto del processo di integrazione europea – come dimostra lo straordinario libro del compagno Luca Cangemi, Altri confini – Il Pci contro l’europeismo (1941-1957), DeriveApprodi. D’altra parte l’ambiguità di alcuni gruppi dirigenti comunisti che, pur accettando e proponendo, nei documenti, l’uscita dall’Ue e dall’Euro, non sospingono affatto una politica attiva, una lotta, indirizzata in tal senso.

Così è per la lotta contro la Nato e contro l’imperialismo Usa, una lotta troppo debole in relazione ai pericoli di guerra, immensi, che provengono dagli Usa e dall’Alleanza Atlantica, una lotta debole, pressoché inesistente, poiché anche in questo caso sulla coscienza politica degli attuali militanti comunisti pesa ancora negativamente l’abbraccio di Berlinguer e del Pci alla Nato, un abbraccio che finì per svuotare di senso la stessa lotta contro la Nato, considerata molto meno importante (non è questa una supposizione: è la registrazione dei fatti concreti) della mobilitazione elettorale per la conquista di un consigliere regionale. Anche in questo caso: non sarebbe prioritaria l’apertura di scuole quadri volte a preparare i militanti alla lotta antimperialista, anche attraverso la critica radicale alla scelta “berlinguieriana” della Nato? Ma la maggioranza dei gruppi dirigenti sembrano silenti e passivi, sia rispetto alla critica al “berlinguerismo” che rispetto alla costruzione di quadri anche per una lotta di massa contro la Nato.

Con lo stesso “taglio” analitico potremmo affrontare la questione della mancante piena coscienza per una lotta anticapitalista: anche per avviare una lotta di questo tipo occorrerebbe liberare i militanti comunisti dal senso comune diffusosi e radicatosi attraverso la lunga egemonia del Pci socialdemocratizzato sul movimento operaio complessivo italiano. Il venir meno – in quel Pci che va dalla seconda metà degli anni ’70 sino alla “Bolognina” e al XX Congresso di scioglimento, un partito su cui ormai si estende l’egemonia “migliorista” – di una lotta anticapitalista conseguente, ha anche prodotto un “pensiero”, sì debole, ma di lunga gittata, che è giunto a segnare di sé anche le attuali esperienze comuniste in campo. In virtù di questo pensiero debole giuntoci da lontano, anche noi oggi non siamo attrezzati, né teoricamente, né politicamente, a lottare contro il capitalismo italiano. Intanto, non lo conosciamo: i nostri quadri e i nostri militanti non conoscono affatto la nuova struttura generale del capitalismo italiano, grande e medio; non conosciamo i suoi nuovi modi di produzione; non sappiamo qual è il grado di penetrazione imperialista in Italia e di come essa lotti per l’egemonia sullo stesso capitale, industriale e finanziario, italiano; non sappiamo quali sono i punti alti, d’avanguardia, della produzione capitalistica odierna e dunque non siamo in grado di collocare presenze comuniste organizzate in questi punti alti della produzione capitalistica, al fine di costruire un partito comunista d’avanguardia. Non siamo in grado, non conoscendo le dinamiche capitalistiche italiane, di scegliere i terreni di lotta sui punti nevralgici dello sviluppo capitalistico nazionale (e scegliere tali terreni sarebbe l’ideale, viste le scarse forze che abbiamo in campo). Non siamo in grado di mettere a fuoco le questioni centrali, calde, del marchingegno capitalistico attuale, i punti nevralgici sui quali intervenire e far male al capitale. La riduzione secca dell’orario di lavoro, per esempio, e non a parità di salario, ma con un più alto salario, sarebbe una battaglia capace di entrare nell’attuale contraddizione capitalistica centrale: crisi di sovrapproduzione prodotta da un sistema macchinico capitalista capace di produrre ormai il 40% in più di merci rispetto solo a un trentennio fa, merci tuttavia senza mercato per la sottosalarizzazione di massa.

Problemi che hanno una sola risposta, appunto: riduzione almeno del 30% dell’orario di lavoro con salario più alto dell’attuale. Ma ciò vorrebbe dire lotta conseguente al profitto. Siamo pronti per questa lotta? Ancor prima che politicamente e organizzativamente, lo siamo sul piano teorico, ideologico? Chi scrive ne dubita fortemente (per esempio: si parla sì di riduzione dell’orario di lavoro, ma si parla di ridurre un’ora di lavoro e a parità di salario, con moderazione sindacale) e ne dubita fortemente sia per il retaggio socialdemocratico, “migliorista”, conciliatorio, lasciatoci dall’ultimo Pci e dalla Cgil di Lama legata a quel Pci che per la sostanziale moderazione e la passività culturale di buona parte degli attuali gruppi dirigenti comunisti.

Molte sono le lezioni che potrebbero provenire dall’analisi dei processi involutivi del Pci. Una, grande, è quella della democrazia interna ai partiti comunisti. Se vogliamo recuperare l’idea secondo la quale un partito comunista deve essere l’anticipazione del socialismo che vogliamo, la questione della democrazia interna deve tornare a essere questione centrale. Troppo spesso, invece, nei partiti comunisti successivi allo scioglimento del Pci, il “centralismo democratico” è stato utilizzato come controllo, lotta e repressione contro il dissenso interno, una degenerazione che più il partito è piccolo, più tende a manifestarsi.

E anche a proposito della democrazia interna occorrerebbe avere un grande coraggio politico e teorico al fine di costruire un nuovo partito comunista sulla base degli errori del movimento comunista italiano e internazionale. Uno di questi errori, per chi scrive, è l’aver reso mitologiche – sulla scorta della grandezza storica di grandi segretari e leader comunisti mondiali – le figure dei segretari generali. Certo, abbiamo visto storicamente che, a volte, di questa figura mitologica se n’è avuto bisogno. Ma per tanta parte delle esperienze comuniste partitiche la “potenza” mitologica del segretario a cui tutto è affidato, il segretario verso cui si ha la stessa fede che i credenti hanno verso dio, è stata un’esperienza disastrosa e nefasta. Subendo la mitologia di Berlinguer quanti, nel Pci, erano in grado di decodificare l’essenza ideologica di ciò che con Berlinguer stava accadendo? Tuttora, molti compagni provenienti dal Pci di Berlinguer sostengono che l’accettazione della Nato “era solo tattica”. E non è stata la stessa mitologia oggettiva del segretario, che illuminava anche una figura modesta come quella di Occhetto, a far credere alla stragrande maggioranza del Pci che era ormai tempo di chiudere la storia comunista in Italia?

Oggi, quella stessa mitologia segna di sé anche i segretari dei piccoli partiti comunisti italiani, spesso con esiti antidemocratici gravi ed esiti ancor più gravi in relazione allo sviluppo politico e teorico degli stessi partiti comunisti.

Lenin non è mai stato segretario dei bolscevichi e dei comunisti sovietici: fu Stalin a incarnare in sé, per la prima volta, la figura del segretario generale. Probabilmente in quella fase storica di ferro e fuoco non vi erano alternative alla scelta di un forte segretario-capo. Ma, oggi, non sarebbe ora che anche nelle esperienze comuniste italiane attuali e nella prospettiva dell’unità dei comunisti per cui in molti ormai lavoriamo, si prendesse in considerazione la possibilità di una forte democratizzazione interna ai partiti comunisti, iniziando dal superamento della mitologia del segretario generale e a favore di una direzione collettiva del partito comunista?

Per recuperare, rimettere a valore, la storia buona del Pci, quella storia che vide il partito costruirsi come partito-popolo e per la quale Pasolini definiva il Pci “un paese nel paese”, occorre come il pane ricostruire un’organizzazione comunista rivoluzionaria e fortemente democratica al suo interno. Un’anticipazione, appunto, del solo socialismo per cui vogliamo continuare a batterci.

15/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Fosco Giannini

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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