Mi porrò in questo breve scritto una questione cui non è facile dare una risposta, anche perché in genere alcuni di coloro che hanno tentato di darne una hanno spesso adottato una prospettiva unilaterale e schematica, che non ci consente di comprendere a fondo come stavano le cose dopo la caduta di Benito Mussolini, l’inizio dell’occupazione alleata e la resistenza armata condotta in larga parte dai comunisti.
Un articolo del 2018 di Corrado Ocone ritorna sul mito della Rivoluzione “tradita”, ben radicato tra i sessantottini, i quali avevano ripreso il motivo della Rivoluzione non portata a termine dalla guerra di liberazione. A loro parere, se si fosse stati conseguenti con le premesse della Resistenza, questa avrebbe dovuto condurre il proletariato italiano alla sconfitta del nazifascismo e poi all’instaurazione di una società socialista. Motivo che era già stato agitato, tra l’altro, dal celebre romanzo di Carlo Cassola La ragazza di Bube (1958-1959), il cui protagonista, reo di aver ucciso un militare italiano in uno scontro, finisce in prigione benché nutra la speranza di essere salvato dai suoi compagni. Nonostante la lettura politica del romanzo, in cui si esprimeva una forte insoddisfazione per gli esiti della guerra di liberazione, sia stata messa in discussione, preferendole un’interpretazione psicologica e intimistica, a me pare che il suo messaggio politico permanga intatto e manifesti un grande malessere per la situazione politica creatasi con l’occupazione alleata, che non si è trasformata in protettorato proprio per la resistenza dei comunisti.
Per esaminare le prospettive politiche della Resistenza mi limiterò a ricordare alcuni fatti, presenti in molti libri quali per esempio Storia del PCI di Paolo Spriano (vol. V, 1975), che mettono in evidenza che la liberazione è avvenuta in stretto collegamento con un duro periodo di occupazione da parte degli alleati.
Ricorda Spriano che “i condizionamenti generali, anche internazionali, peseranno notevolmente a rendere più faticoso e incerto il cammino di quella che Togliatti chiamerà nel 1945 … «la prima tappa della rivoluzione democratica»” in Italia (387). Il nuovo partito comunista della classe operaia e del popolo non si propone di “fare come in Russia”, ma di “creare in Italia un regime democratico progressivo… che metterà al bando qualsiasi residuo di fascismo”, che avvierà “una profonda riforma agraria” e che i grandi gruppi economici, responsabili della guerra, saranno colpiti e “messi nelle condizioni di non nuocere” (389).
Spriano nota una certa vaghezza teorica nel tentativo togliattiano di coniugare democrazia popolare e democrazia rappresentativa e, nello stesso tempo, attribuisce al leader comunista una visione il cui fondo sarebbe “disincantatamente pessimistico”, perché consapevole di questi innegabili fattori: “situazione economica gravissima, tutela pesante degli alleati (da cui la Francia si smarcò), loro riluttanza a impiegare gli italiani nello sforzo bellico, forze reazionarie interne tutt’altro che vinte, anzi in fase di riorganizzazione, mentalità fascista e filofascista affiorante non solo nei ceti dominanti ma anche negli strati intermedi, ostacoli di ogni genere all’epurazione della burocrazia e dell’esercito, disagio e insofferenza dei ceti più diseredati e colpiti dalla miseria, dalla disoccupazione, dal crescere ininterrotto del costo della vita e non ancora mobilitati dai partiti operai nella misura necessaria” (391).
Illustrerò rapidamente questi punti facendo riferimento a episodi precisi, lasciando le conclusioni, spero ponderate, ai lettori magari cultori di storia.
Generalmente quando parliamo della fine della Seconda Guerra mondiale, cui il nostro paese era stato spinto dalla politica aggressiva e irresponsabile del fascismo, impieghiamo la parola “liberazione”, ma forse sarebbe più opportuno ricordare anche che, a partire dal luglio del 1943, man mano che gli eserciti angloamericani avanzavano, l’Italia fu sottoposta all’Amgot (Allied Military Government of Occupied Territories). Questo organismo, fondato ad Algeri pochi mesi prima, governava la vita sociale e politica del paese occupato, privo di un governo riconosciuto, mettendo anche in circolazione una sua propria moneta (in Italia le famose Am-lire, il cui valore rispetto al dollaro era di 100 a 1). In un’Italia distrutta dalla guerra, privata delle sue risorse produttive, la nuova moneta non fece che aggravare la situazione economica e colpire ancora più brutalmente le classi popolari.
Grazie a Charles De Gaulle, che nel 1944 dette vita al governo provvisorio della Repubblica francese, la Francia riuscì a evitare di essere incorporata immediatamente nel nuovo sistema egemonico che si andava costituendo in Europa. Del resto, gli Stati Uniti, che avevano riconosciuto il governo collaborazionista di Vichy, tentarono in ogni modo di impedire a De Gaulle di prendere il potere, ma non riuscirono in questa operazione per l’autorevolezza che il generale aveva conquistato presso il popolo francese.
La criticità della situazione economica italiana affiora nei tentativi di “vera e propria rivolta di masse affamate ed esasperate”, che per esempio il 19 ottobre 1944 protestarono a Palermo contro il carovita e che vennero duramente represse da polizia ed esercito. Si tratta dell’eccidio di Palermo, nel quale vi furono trenta morti e centocinquanta feriti, a cui sono accostabili altri eventi dello stesso tenore caratterizzati dall’esplicita alleanza tra gli apparati dello Stato e i pervicaci sostenitori del fascismo ancora presenti e forti. Spriano menziona anche la fuga del generale Mario Roatta, che aveva combattuto in Spagna con i franchisti e aveva infierito sulla popolazione slovena, in seguito alla possibilità di essere condannato a morte nel processo intentato contro di lui per i suoi crimini e per aver fatto fallire la difesa di Roma dai nazisti dopo la partenza precipitosa del re e dei suoi fedeli (488-489), cui anche lui si era accodato. Fuga che avvenne nel 1945 e che probabilmente fu facilitata dai servizi segreti alleati e dal Vaticano.
Questo evento ci consentirebbe di ampliare la questione dell’epurazione, ma necessariamente mi limito in questa sede a ricordare gli studi della storica francese accusata di complottismo, Annie La Croix Riz, la quale ha illustrato con una enorme messe di documenti il processo di costruzione di un’Europa sotto l’egemonia degli Stati Uniti con la complicità delle élite europee; processo che si è estesamente avvalso dello arruolamento di intellettuali e scienziati nazisti nelle istituzioni statunitensi. Sul versante europeo ciò ha significato la falsa epurazione dei fascisti e dei loro collaboratori e la messa sotto attacco di molti resistenti.
Un altro caso italiano clamoroso, oltre a quello di Roatta, è rappresentato dalla vicenda di Guido Leto, che diresse dal 1938 al 1945 la polizia politica fascista (Ovra) e che, pur arrestato nel 1945, fu successivamente assolto e incaricato nel 1948 dal ministero degli Interni di riorganizzare i servizi segreti italiani.
In questo caso forse è stato sottovalutato il fatto che, se gli esponenti politici vengono sostituiti (se pensiamo a Badoglio, neppure tanto), i gestori degli apparati di Stato restano abbarbicati alle loro strutture, se queste non vengono sradicate. Ciò ha fatto sì che non si sia potuta realizzare una radicale rottura con il passato, il quale si è perpetuato per resistere all’espansione dei sovietici nell’Europa centrale, determinando un rovesciamento delle alleanze e dando avvio alla Guerra fredda fondata su smaccata esagerazione del pericolo sovietico.
In questo contesto, gli Stati Uniti e le élite europee si adoperano per ricostruire la Germania con lo scopo di bloccare l’avanzamento sovietico (si pensi alla sua pressoché totale esenzione dalle riparazioni di guerra) e la guerra partigiana, capeggiata dai comunisti, deve essere frenata perché potrebbe determinare un cambiamento politico intollerabile da parte di chi si avvia a spaccare il mondo in due blocchi. Non è un caso dunque che il 13 novembre 1944 il generale Harold Alexander, comandante delle forze alleate del Mediterraneo, emani un proclama con il quale invita i partigiani italiani nell’Italia del Nord a sospendere le operazioni militari, avvertendo anche che i rifornimenti aerei saranno rarefatti per il sopravvenire dell’inverno (439-440). Su questa decisione pesa certamente quanto sta avvenendo in Grecia (ottobre 1944), in cui è scoppiato lo scontro tra i comunisti dell’Eam-Elas, non sostenuti dall’Urss, e il governo monarchico retto da Georgios Papandreu che successivamente sfocerà nella guerra civile.
Luigi Longo considerò il proclama di Alexander “una pugnalata alle spalle” e osservò che tale atto implicava “la certezza che si doveva passare un nuovo inverno in montagna”. Quanto alle ragioni politiche di questa iniziativa, volta a ridimensionare il movimento di liberazione italiano, Spriano annota anche che essa fu dovuta “alla perdita di interesse militare del fronte italiano” e all’affermarsi della politica delle “zone di influenza” decisa a Mosca nell’incontro tra Churchill e Stalin (441-442). Il cambiamento fu provocato dal trasferimento di truppe in Francia per lo sbarco anfibio in Normandia, cui si deve aggiungere il fatto che i nazisti dal 25 luglio del 1943 avevano avuto tutto il tempo di ammassare le loro divisioni nel nostro paese, contro le quali l’esercito italiano confuso e disorganizzato in seguito all’8 settembre non poté nulla. Da parte loro, i partigiani continuarono a combattere con abnegazione, ma non tutti gli uomini disponibili vennero armati e approvvigionati per affrontare l’ardua impresa. Possiamo, dunque, dire che le scelte politiche degli alleati determinarono il prolungamento della guerra in Italia con i conseguenti lutti e distruzioni.
In subordine dobbiamo ricordare che George Kennan, architetto del piano Marshall e direttore della sezione di Pianificazione politica del Dipartimento di Stato, uno dei fondatori della Cia, sostenne nel 1947 la necessità di un intervento militare diretto in Italia, ritenuto preferibile a suo parere a una vittoria elettorale dei comunisti. Kennan era consapevole delle terribili conseguenze di questa decisione, ma poco se ne curava; a questa ipotesi il presidente Harry Truman preferì quella di autorizzare la manipolazione delle elezioni del 1948, che come è noto segnarono la schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana guidata da Alcide De Gasperi (F. Stonor Saunders, La CIA y la guerra fria cultural, 2003: 62-63).
Questi sono alcuni aspetti del quadro assai complicato in cui si trovarono a operare i dirigenti comunisti negli anni che vanno dal 1943 ai primi anni del dopoguerra. Aspetti che rendevano assai complesso il progetto di accelerare la costruzione del socialismo dopo l’insurrezione del Nord d’Italia, da taluni attribuito a Pietro Secchia, l’organizzatore del partito e successivamente emarginato, il quale invece “giudicò sempre impossibile questa ipotesi viste le condizioni geopolitiche dell’Italia” … pur ritenendo opportuno “mantenere un’organizzazione capillare del partito e della sue organizzazioni per reagire a eventuali svolte autoritarie”. Il suo dissenso dalle scelte politiche di Togliatti verteva più sui metodi da lui adottati che sui fini. Per esempio, pensava che l’estromissione delle sinistre dal governo avvenuta nel 1947 avrebbe dovuto suscitare una reazione vigorosa come uno sciopero generale, una forte mobilitazione popolare; scelta evitata per la paura di alzare i livelli dello scontro.
Probabilmente i sovietici, con cui Secchia si incontrò a Mosca nel 1947, avevano ragione nell’attribuire a Togliatti, da loro considerato un grande leader internazionale, “un’eccessiva fiducia nei meccanismi della democrazia parlamentare”. Fiducia che influiva a loro parere sull’atteggiamento troppo conciliante del partito nelle vicende italiane. In conclusione, potremmo chiederci se in quella difficile fase il pessimismo di Togliatti – segnalato da Spriano – sulle condizioni dell’Italia occupata sia stato coerente con la valutazione troppo ottimistica del funzionamento della democrazia parlamentare (come sostennero i dirigenti sovietici).