La crisi delle metanarrazioni, che opera in maniera stanca ma continua soprattutto nelle scienze sociali, produce conseguenze gravissime, la prima delle quali è la fine o la crisi del pensiero teorico. Se teorica è una prospettiva che mira ad elaborare enunciati che abbiano una validità generale, è proprio questo che il postmodernismo desidera con forza evitare, anche se poi di fatto proprio non può farne a meno. Infatti, affermare che non c’è nessuna metanarrazione è di fatto una generalizzazione o, se si vuole, una metanarrazione [1].
Per sfuggire a questa lampante contraddizione i postmodernisti sostengono con Lyotard che ogni fenomeno è un “fatto” a sé, incommensurabile agli altri, comprensibile solo se si hanno a disposizione i criteri in base ai quali il fenomeno è costruito. Ora, se i criteri in base a cui si analizza questo stesso fenomeno sono il prodotto sia dell’osservazione, sia delle condizioni di vita, sia della cultura dell’osservatore, inevitabilmente quei criteri saranno “estranei” al “fatto” stesso, il quale pretende di essere conosciuto in sé indipendentemente da ogni condizionamento esterno. Ma è possibile questo tipo di conoscenza empatetica? Quando diciamo “mi metto nei tuoi panni”, lo possiamo effettivamente fare o inevitabilmente nel nostro sforzo comprensivo ci portiamo dietro tutti noi stessi?
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