Dopo Marx gli economisti borghesi dovevano mutare radicalmente il paradigma dell’economia classica che il Moro, criticandola, aveva fatto approdare a una concezione rivoluzionaria. John Stuart Mill, ipotizzando che oltre al lavoro fosse produttivo anche il capitale, aprì la strada a una concezione tutta ideologica secondo cui non esistono le classi ma singoli, ognuno alla ricerca della massima soddisfazione individuale e che riceve un reddito in proporzione del contributo dato alla produzione. Le forze spontanee del mercato ottengono il massimo benessere collettivo e il sistema economico è sempre in equilibrio, senza disoccupazione e senza sovrapproduzione.
Questi risultati sono ottenuti attraverso una strumentazione matematica sofisticata ma partendo da presupposti irrealistici. Tuttavia siamo di fronte alla teoria economica che maggiormente si insegna nelle università e il motivo fondamentale è il suo carattere ideologico e apologetico del capitalismo.
Joseph Schumpeter, pur aderendo a questa nuova teoria del valore, vi introduce la dinamica, con l’imprenditore innovatore che, mettendo fuori mercato i concorrenti, determina una “distruzione creativa”. Il presentarsi “a grappoli” e non uniformemente nel tempo di queste innovazioni produce le crisi economiche periodiche che quindi sono anch’esse un fatto positivo perché portano con sé il progresso.