Le illusioni del postmodernismo - quinta parte

Con la sua sfiducia nelle generalizzazioni il postmodernismo ha generato la crisi del pensiero teorico, da cui forse si potrà venir fuori con una maggiore consapevolezza del significato storico di esse.


Le illusioni del postmodernismo - quinta parte

Segue da parte IV

La crisi delle metanarrazioni, che opera in maniera stanca ma continua soprattutto nelle scienze sociali, produce conseguenze gravissime, la prima delle quali è la fine o la crisi del pensiero teorico. Se teorica è una prospettiva che mira ad elaborare enunciati che abbiano una validità generale, è proprio questo che il postmodernismo desidera con forza evitare, anche se poi di fatto proprio non può farne a meno. Infatti, affermare che non c’è nessuna metanarrazione è di fatto una generalizzazione o, se si vuole, una metanarrazione [1].

Per sfuggire a questa lampante contraddizione i postmodernisti sostengono con Lyotard che ogni fenomeno è un “fatto” a sé, incommensurabile agli altri, comprensibile solo se si hanno a disposizione i criteri in base ai quali il fenomeno è costruito. Ora, se i criteri in base a cui si analizza questo stesso fenomeno sono il prodotto sia dell’osservazione, sia delle condizioni di vita, sia della cultura dell’osservatore, inevitabilmente quei criteri saranno “estranei” al “fatto” stesso, il quale pretende di essere conosciuto in sé indipendentemente da ogni condizionamento esterno. Ma è possibile questo tipo di conoscenza empatetica? Quando diciamo “mi metto nei tuoi panni”, lo possiamo effettivamente fare o inevitabilmente nel nostro sforzo comprensivo ci portiamo dietro tutti noi stessi?

Credo che questo tipo di conoscenza abbia un ché di mistico, che nasconda un’ansia dell’assoluto, che nulla ha a che fare con il pensiero scientifico, il quale per sua natura è sempre angolato, specifico e determinato. Inoltre, essa scambia la generalizzazione, che è sempre storicamente e culturalmente determinata, con l’atteggiamento essenzialistico, considerato una fallacia teorica. Da ciò scaturiscono un piatto empirismo, un arzigogolato particolarismo, il sensazionalismo, l’interesse per i fenomeni estremi e la condanna delle generalizzazioni, rigettate come la peste e considerate opera di dominazione politica. In due parole: la fine del pensiero teorico.

La nostra formazione culturale, il nostro stesso linguaggio sono concepiti come una gabbia da cui si vorrebbe a tutti i costi uscire, ma da cui è impossibile saltar fuori, a meno che non si trasmigri in quei lati più nascosti, meno colonizzati dal potere, meno sfiorati dall’acculturazione forzata, identificati con la dimensione del desiderio e del piacere, così considerata perché assimilata ad un istinto e quindi “naturale” (libido). Sono questi temi sviluppati dai linguisti statunitensi Sapir e Whorf, i quali prospettarono che le diverse culture vivono in mondi differenti, perché hanno accesso ad essi tramite linguaggi diversi, dotati di una funzione costitutiva della realtà. Motivo ripreso in tempi più recenti dal filosofo Richard Rorty con il suo libro sulla svolta linguistica (Linguistic Turn) del 1967.

Questa ottica conduce un noto antropologo, come Eduardo Viveiros de Castro, a sostenere che ogni cultura ha diritto alla sua propria ontologia, in quanto è essa che in ultima istanza stabilisce cosa è la “realtà”. Sarebbe come sostenere che, quando si rese nota la concezione copernicana dell’universo, in virtù di questa la terra si sia spostata dalla posizione che sino a quel momento le attribuiva la visione tolemaica.

Cosa dobbiamo ricavare di valido da queste impostazioni? L’idea che il processo conoscitivo è assai complesso, che le nostre categorie hanno una storia e che debbono essere adeguatamente vagliate. Non direi che si tratta di qualcosa di completamente nuovo, ma ne prendiamo atto. A mio parere, ciò che proprio non va è il ritorno al tema romantico della passione, intesa come intuito, istinto elementare, contrapposta alla ragione, calda e vitale la prima, sterile e fredda la seconda, come già ci avevano insegnato i romantici. Tale ripiego si basa sulla totale ignoranza della nozione di “mediazione”, che implica un trapasso, un trasferimento interpretativo, no una mera copia; si spera di superare la mediazione con l’ingenua instaurazione di un rapporto diretto e immediato.

Ritorna anche il tema secondo cui la storia e le scienze sociali in genere non possono aspirare alla scientificità propria delle scienze naturali, sono interpretative, sono puro discorso retorico, quindi arte; in questo senso, lo storico non riproduce mai il passato, traveste il presente in passato, e per questo non potrà mai essere obiettivo.

Ovviamente anche gli storici che includono la storia nella categoria di scienza, pur sottolineando la sua diversità dalle scienze dure, non ritengono che la forma letteraria non sia importante per esporre una certa ricostruzione storica. Tutti i grandi studiosi della società sono stati al contempo degli efficaci narratori. E non negano che la ricerca storica parta sicuramente da un problema del presente (altrimenti perché dovrebbe interessarci?), ma non si riduce a questo, perché esige la contestualizzazione, la capacità di cogliere la specificità del momento studiato e di vederne le ripercussioni sul presente. Gli storici “scientifici” sanno anche che la storia non costituisce la mera descrizione di fatti, di puri dati, che non esiste un linguaggio osservativo indipendente dalla teoria; non ignorano che la questione della valutazione dell’avanzamento delle scienze sociali rispetto a quelle naturali è assai più complessa, dato che le comunità scientifiche in questo ambito sono più eterogenee dal punto di vista politico e morale; aspetti che in tale settore esercitano certamente una maggiore importanza.

Questa svolta interpretativa è fortissima nell’antropologia statunitense, profondamente influenzata dalla cosiddetta French Theory, nutrita dal post-strutturalismo e dal richiamo al pensiero di Nietzsche. Essa critica l’antropologia classica descrittiva, positivista, apparentemente neutrale, e fa della ricerca sul campo, in quanto contatto con l’altro, il momento clou. Ma quest’ultima diventa nell’antropologia postmoderna tutt’altra cosa: incontro dialogico con l’altro, confronto tra interpretazioni diverse, negoziazioni (con brutto francesismo), attribuzione della centralità della figura dell’antropologo, che finisce solo col parlare di se stesso, delle sue reazioni emotive dinanzi alla differenza culturale, tralasciando le grandi questioni teoriche, su cui dovrebbero interrogarsi invece gli scienziati sociali. Per questa ragione questi autori postmoderni sono stati spesso accusati, giustamente a mio parere, di narcisismo.

Abbiamo parlato sin qui della morte di Dio, della dimensione meta, onnicomprensiva, ma dobbiamo parlare ahimè di altri decessi, in particolare anche della scomparsa del soggetto. Con il dissolvimento delle metanarrazioni viene tristemente a mancare ogni progetto di emancipazione, e di conseguenze il soggetto che dovrebbe mirare ad emanciparsi: l’uomo. Ostili all’idea di un’identità stabile, i postmoderni commettono l’errore di credere che quando si parla di uomo, di classe, di soggetto, si attribuisca a queste entità una natura essenziale, o un’essenza immutabile. Ma le cose non stanno così, giacché la natura di ogni entità costituisce il prodotto di certe relazioni sociali legate ad una determinata fase storica. Per esempio, quando parliamo di natura umana, non la intendiamo come un’essenza già data e immutabile, ma facciamo riferimento a due dimensioni, una storico-sociale variabile e l’altra naturale-fisiologica, nel senso che la natura umana è il risultato della storia evolutiva della specie umana e costituisce un oggetto indagato dalle neuroscienze, sulle quali posso solo dire che si muovono tra biologia, fisiologia, genetica da un lato linguistica e psicologia dall’altro; quindi tra scienze naturali e scienze umane. Come si può intendere, questione assai complicata.

D’altra parte, tanto contrari all’idea di entità monolitiche e compatte, che come insegna Jacques Derrida debbono sempre esser decostruite, perché parlare tanto di Occidente, se nessuno sa dove comincia e dove finisce, se include, in senso politico, persino il Giappone? I solidi paradossi di un pensiero che vuole essere ribelle, ma che non rispetta le leggi della coerenza logica.

Invece, l’obiezione che si può muovere alla riduzione della storia all’arte o alla retorica politica consiste nel fatto che, in questo caso la storia narrata diventa oggetto di esclusivo godimento estetico, di piacere, di molla per l’immaginazione, senza produrre nessun impulso al cambiamento e alla trasformazione.

Per comprendere, sia pure in maniera sommaria, il rifiuto e la demolizione del soggetto nella fase attuale, come abbiamo fatto anche affrontando rapidamente le precedenti questioni, dobbiamo tenere presenti due dimensioni, quella economico-sociale e quella filosofica e culturale.

Nel tardo capitalismo, con la crisi delle organizzazioni di massa, sostituite da movimenti più o meno labili, e con la conseguente perdita della coscienza della propria collocazione economico-sociale, il soggetto tende a frantumarsi e a trasformarsi in mero consumatore, sollecitato, eterodiretto dalle sirene del mercato; queste lo spingono verso la ricerca di un appagamento di per se stesso irraggiungibile, che fa sorgere sempre un ulteriore desiderio, altrimenti la richiesta dei beni prodotti si esaurirebbe. In questo senso, il soggetto diventa plurale, ossia indirizzato verso diverse finalità anche contraddittorie, e sorge il problema dell’identità psicologica, culturale, etnica, che come scrive Eric J. Hobsbawm appare nelle scienze sociali solo negli anni ‘60. Per questa ragione il nuovo friabile soggetto si contrapporrebbe al soggetto moderno che ha, almeno come ideale, la costruzione di una personalità forte, ben integrata, orientata verso il raggiungimento di obiettivi determinati che vanno al di là del contingente, per esempio verso la realizzazione dell’emancipazione in una prospettiva “scandalosamente” umanistica.

Sul piano filosofico e culturale, per non risalire più indietro nel tempo, già nella Ideologia tedescala coscienza, da cui scaturisce l’azione del soggetto sul reale, non è un’acquisizione spontanea, ma frutto di un lavoro di riflessione e di rielaborazione, che non è detto venga automaticamente fatto.

In secondo luogo, la psicoanalisi freudiana ha mostrato la complessa costituzione del soggetto, nel quale ha distinto varie dimensioni: inconscio, costituito dai contenuti rimossi, cui è stato rifiutato l’accesso al sistema preconscio-conscio mediante la rimozione, il quale non è identificabile completamente con l’Io che, in quanto apparato difensivo dalle pulsioni, opera talvolta in maniera inconsapevole. Il super-io costituisce, invece, il giudice o il censore dell’Io attraverso l’auto-osservazione, contiene pertanto in sé la coscienza morale, gli ideali, i valori (come si ricava da Laplanche e Pontalis).

Se si resta nell’ambito della psicoanalisi freudiana, gli strati su cui può agire la vita sociale sono rappresentati soprattutto dall’Io e dal Super Io; in particolare, essa esercita una forza profondamente condizionante sul preconscio, o sapere tacito, o nelle parole di Adorno “crepuscolo psicologico”, la cui origine non può essere ricercata direttamente nelle pulsioni (libido).

Per il cognitivismo, altra corrente psicologica, la mente opera come un computer che, mediante una serie di schemi cognitivi, rielabora le informazioni provenienti dall’esterno, trasformandole in rappresentazioni della realtà, sulla base delle quali reagisce ed agisce. A parte la criticabile associazione della mente ad una macchina, il problema del cognitivismo è costituito dalla natura conscia o inconscia di tali schemi, o almeno dalla possibilità più o meno praticabile di renderli consci. Nella visione emancipatoria freudiana la trasformazione dell’inconscio in conscio, invece, è possibile e costituisce un primo passo verso l’emancipazione.

Tutte queste acquisizioni teoriche, che segnalano la complessità della costruzione del soggetto sia a livello psicologico che sociopolitico, la sua complicata composizione, vengono lette come la prova che tale obiettivo è improponibile e impraticabile, per cui è assai meglio sprofondare nella dimensione istintuale e del desiderio, abbandonando ogni ansia di riscatto sia morale che politico.

Se tutte queste considerazioni hanno comportato la crisi del pensiero teorico, che non fa che riavvolgersi faticosamente su se stesso, ci auguriamo che la consapevolezza di tale impasse ci conduca ad un suo rilancio.


Note:

[1] La stessa considerazione vale per il relativismo: anche affermare che ogni verità è relativa significa generalizzare.

29/06/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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