Segue da Parte III.
Come nota sempre Callinicos, il cui libro significativamente non è stato tradotto in italiano, la questione della novità del postmodernismo si ripresenta anche dal punto di vista culturale. Anche in questo ambito c’è qualcosa di veramente nuovo?
Naturalmente i postmoderni fanno risalire il modernismo alla rivoluzione filosofica e scientifica del XVI secolo, ma evitiamo di ritornare tanto indietro e prendiamo in considerazione solo quei movimenti culturali che si sviluppano in una fase più vicina alla nostra.
Nei vari ambiti culturali, questi ultimi sono il simbolismo, l’espressionismo, il cubismo, il futurismo o il costruttivismo, il surrealismo, l’interesse per l’arte primitiva intesa come produzione primigenia che apre ad un anticapitalismo romantico vigoroso ancora oggi. Se si analizzano i temi principali di questi movimenti culturali, ritroviamo gli stessi temi agitati dai postmodernisti contro la razionalità occidentale, identificata con la razionalità strumentale (scegliere i fini migliori per raggiungere un fine senza pronunciarsi su di esso che resta pura opzione individuale), contro il soggetto monolitico, contro l’ipocrita umanesimo non applicato agli “altri” [1], contro la convinzione di cogliere la verità oggettiva (lo scientismo), contro il suprematismo occidentale, contro la pretesa di elaborare visioni complessive, sistematiche, finalistiche della storia, contro la pretesa di conoscere nella sua essenza un mondo sfuggente e cangiante.
In ambito architettonico negli anni ‘60 si afferma la critica al razionalismo, identificato con il modernismo e la mera ricerca della funzionalità, e si considera esaltante la mescolanza di stili, prima condannata, riprendendo temi surrealisti e ricadendo in un disordinato eclettismo, di cui è lodata la ricchezza e la fantasiosità contrapposta alla secchezza dell’unilateralità stilistica.
I temi su indicati sono certo documentabili nel modernismo, che li ha ricavati dall’Illuminismo e dal Positivismo, e sono legati alla visione progressista della civiltà umana, la quale si svilupperebbe attraverso fasi o stadi [2], e alla pretesa di rappresentare un passo in avanti verso l’emancipazione dell’uomo, ma convivono con temi di altra natura, diciamo irrazionalistica, che d’altra parte la civiltà occidentale si è sempre portata con sé. Cosa ovvia per chi non si accontenta di una visione semplicistica e schematica della nostra storia.
Ad un’analisi anche necessariamente superficiale risulta che tutti i temi, definiti postmoderni o antimoderni, che farebbero esplodere la modernità, sono già presenti nell’alta cultura modernista. Vediamo rapidamente alcuni esempi significativi quali: l’antiumanesimo, l’idea che l’Io sia solo un aggregato effimero di emozioni, di sensazioni, è presente e consistente in autori come il poeta francese Arthur Rimbaud e nello straordinario scrittore Franz Kafka; possiamo fare riferimenti anche a tempi più antichi, ricordando David Hume e Arthur Schopenhauer. Tale visione incarna perfettamente l’idea che l’Io non conta più nulla, come del resto ricaviamo dalla nostra attuale esperienza quotidiana, che ci fa costantemente comprovare la nostra insignificanza e impotenza.
Il senso di una crisi finale e definitiva, che contrasta con il cieco progressismo attribuito alla modernità, c’è persino nel Manifesto di Marx e Engels, che prefigurano esiti diversi della storia del modo di produzione capitalistico, la quale potrebbe anche concludersi con la rovina di entrambe le classi (borghesia e proletariato), oltre che ovviamente nella celebre opera di Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, 1923), che vede la luce nell’Europa squassata dalla Prima Guerra Mondiale.
Altri elementi, che appaiono nei movimenti modernisti su citati e che costituiscono il vanto dei postmoderni, sono costituiti dai procedimenti di accostamento, di giustapposizione, di montaggio, di irrelatezza, di collage, usati per esempio dai surrealisti, perché si è convinti che l’immagine della realtà complessiva si è frantumata, che la totalità si è divisa in schegge non ricomponibili. In tali correnti cogliere i nessi non significa più costruire la rappresentazione razionale di un insieme, ma avvicinare aspetti anche contraddittori evocatori di collegamenti simbolici e fantasiosi, ma a loro modo illuminanti, come accade oggi in molte immagini pubblicitarie e nell’arte contemporanea. Procedimenti rappresentativi che si avvalgono anche dell’inserimento di un elemento “fuori contesto”, che dà il senso della gratuità della connessione e della radicalità ribelle dell’ispirazione.
Questi motivi stanno alla base della cosiddetta antropologia critica sviluppata da autori come G. E. Marcus e M. M. J. Fisher (Antropologia come critica culturale, 1994), i quali mettono in discussione la pretesa di costruire un sapere sistematico e neutrale delle “culture altre” (extraoccidentali), tipico dell’antropologia classica di matrice positivistica, il quale sarebbe poi a loro parere l’altra faccia della dominazione occidentale [3].
Anche in ambito letterario ritroviamo questi temi, sviluppati da autori ormai classici quali Marcel Proust e James Joyce, nelle cui opere è centrale il tentativo di sondare e ricostruire i ritmi della vita interiore, senza parlare poi della psicoanalisi di Freud che scinde la psiche in elementi fortemente conflittuali tra loro. Pertanto, se queste considerazioni hanno un fondamento, sarebbe arduo tracciare una delimitazione netta tra modernismo e postmodernismo. È chiaro però che i postmoderni – come per esempio Jean-François Lyotard, di cui si parlerà più avanti – identificano il modernismo con l’Illuminismo e il Positivismo, senza conoscerne le ambiguità e senza tenere conto delle complessità delle correnti culturali moderniste, mostrando così di essere schematici e privi di senso storico.
Tenendo conto di questi esempi, si può affermare che vi è una relazione di continuità tra talune correnti moderniste e talune postmoderniste, anche se quest’ultime accentuano in senso relativistico e frammentario i loro contenuti, rinunciando ad ogni forma di ricomposizione intelligibile del reale, la cui consistenza del resto si dissolve nelle infinite interpretazioni e nelle costruzioni virtuali.
Anche il tanto agitato tema dell’alterità, intesa come qualcosa di incommensurabile e mai rintracciabile, si colloca in piena modernità. Benché, come è noto, la psicoanalisi abbia una lunga storia, è Freud che porta alla ribalta l’idea che l’inconscio sia altro dalla coscienza, tuttavia, mantenendo un’impostazione razionalistica e ricompositiva, sostiene che, attraverso il lavoro analitico, l’altro possa essere depotenziato in quanto tale e ricondotto alla luce della coscienza. Egli non scarta, tuttavia, l’idea che questo processo possa dispiegarsi all’infinito, prefigurando la possibilità dell’analisi interminabile. Scopre anche, e in questo avvicinandosi a Guy de Maupassant, autore realista, che persino ciò che è abituale, familiare, se guardato da un altro punto di vista, può improvvisamente apparire alieno, estraneo e perciò perturbante. Questo è il termine che usa Freud, mentre Maupassant scrive due versioni di un racconto fantastico in cui compare l’hors-la, qualcosa che appunto sta fuori, è estraneo e pericoloso, ma che costituisce la creazione involontaria del protagonista, il quale quindi produce da solo il suo nemico sempre in agguato.
Tutti questi elementi confluiscono nell’elaborazione di una nuova nozione, quella di metanarrazione, nella quale si condensa la critica ad ogni forma di generalizzazione, che per sua natura, accomunandoli in una visione di insieme ispirata solo dal desiderio di dominio, finisce col negare la specificità e la unicità degli elementi che si sforza di assimilare.
Dobbiamo questa ormai celebre nozione a Jean-François Lyotard, il quale scrive, su indicazione del governo del Québec, un rapporto sul sapere dell’epoca, intitolato La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (ed. or. 1979). Secondo Lyotard, la modernità si nutre di una serie di sintesi filosofico-politiche che egli, quasi a sottolinearne il carattere di “favole per adulti”, definisce grandi racconti o “grandi narrazioni” (“grands récits”). La peculiarità di queste narrazioni, che Lyotard chiama anche “metaracconti” (“métarécits”) per evidenziarne il preteso carattere universale e riflessivo, ossia il loro voler porsi oltre le narrazioni particolari (meta, al di sopra), consisterebbe nell’implicito desiderio di fornire una legittimazione del modo di pensare e di agire occidentali descritti come progressivi ed emancipatori.
Tale criticabile aspetto scaturirebbe da una teoria unificata della storia intesa come percorso diretto verso una meta prestabilita di natura positiva (la libertà, l'uguaglianza, l’emancipazione etc.). In questa prospettiva, l’Illuminismo e il progressismo finiscono con l’esser considerati da Lyotard e dai suoi seguaci solo la giustificazione ideologica del trionfo della civiltà occidentale, di cui nasconderebbero il lato oscuro e distruttivo (l’espansionismo, il colonialismo, l’imperialismo). Inoltre, il ripudio del meta (dopo, al di là dei confini) coincide con la tanto discussa morte di dio, ossia con la fine di una dimensione trascendente capace inglobare in sé per la sua maggiore onnicomprensività le molteplici storie particolari.
Anche l'Idealismo viene criticato come un metaracconto, al quale il sapere appare legittimo nella misura in cui non persegue finalità specifiche, ma si configura come la conoscenza disinteressata e speculativa che lo Spirito ha di se stesso. Il marxismo è collocato a metà strada tra l’Illuminismo e l’Idealismo, il quale nella versione stalinista ha la pretesa di considerarsi il “sapere dei saperi”; in altre letture, per esempio quella proposta dalla Scuola di Francoforte, esso pretende essere “conoscenza critica” tesa alla ricostituzione di un soggetto autonomo che si avvale della prima in vista dell’emancipazione umana.
Il declino di questi metaracconti — ai quali Lyotard aggiungerà quello cristiano mirante alla salvezza degli esseri umani grazie al sacrificio del figlio di dio – [4] coincide con l'avvento del postmoderno, che afferma con senso di sfida tutta la sua sfiducia nei confronti delle legittimazioni onnicomprensive e totalizzanti. Infatti, così scrive Lyotard: “Semplificando al massimo, possiamo considerare ‘postmoderna’ l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni” (La condizione postmoderna, op. cit., p. 6).
Per combattere contro il finalismo Lyotard riprende le tesi della Miseria dello storicismo di Karl Popper (1944-1945), opera dedicata alle vittime dei due totalitarismi, nella quale si polemizza contro Platone, Hegel e Marx per una serie complessa di ragioni, tra le quali per brevità menziono: l’ottimismo epistemologico, l’uso della nozione di “totalità”, la fiducia nelle leggi universali, la concezione olistica, che non consente verifiche sperimentali e che darebbe impulso all’instaurazione di forme politiche totalitarie.
Ognuno dei grandi racconti di emancipazione, a qualunque livello sociale abbia dato la preminenza, è stato per così dire invalidato nel suo fondamento negli ultimi cinquant'anni (Lyotard scriveva negli anni ’70). Tra i vari esempi di questa fallacia ricordo questo: “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale: ‘Auschwitz’ confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine, che è reale, non è razionale”. Evidentemente non aveva compreso cosa intendeva Hegel con questa celebre formula.
Un’altra ragione del riaffermarsi di tali correnti culturali, ancora una volta di ordine esterno, è dovuta alle trasformazioni della società ‘postindustriale’, contrassegnata dal decollo della tecnoscienza capitalistica e dai processi di informatizzazione e mercificazione del sapere. Venuta meno la possibilità di connettere, tramite un unico apparato legittimante, i vari settori della conoscenza e dell'azione, ormai frantumati in una molteplicità di giochi linguistici differenti si impone la domanda: “Dove può risiedere la legittimità, dopo la fine delle meta-narrazioni?” (La condizione postmoderna, op. cit., p. 7).
Secondo Lyotard tale legittimazione non può più accontentarsi della dimostrata efficacia dei risultati raggiunti, poiché quest'ultima non sarebbe “pertinente per giudicare del vero e del giusto” (ibidem). Per formulare un nuovo criterio di validità lo studioso francese si ispira alla cosiddetta “scienza postmoderna” (in realtà a un'immagine della scienza ispirata da T. Kuhn e da P. Feyerabend), la quale propone una sorta di anarchismo metodologico. Per questa strada si giunge ad un sapere fondato sulla polimorfia dei giochi linguistici che si esprime in una razionalità plurale, il cui obiettivo è costituito da conclusioni sempre parziali e reversibili che spezzano la continuità del pensiero scientifico. Validazioni che si soddisfano di un consenso locale e temporaneo, cioè ottenuto dagli interlocutori “momento per momento e soggetto a eventuali revisioni” (op. cit., p. 120), oggetto di continue “negoziazioni”. Tale orientamento corrisponde del resto “all'evoluzione delle interazioni sociali, dove il contratto limitato nel tempo si sostituisce di fatto all'istituzione permanente nel campo professionale, affettivo, sessuale, culturale, familiare, internazionale” (ibidem).
Note
[1] Tale motivo è presente nel noto Discorso sul colonialismo (1955) del poeta surrealista e comunista Aimé Césaire, nato alla Martinica, vissuto a Parigi e ideatore della nozione di “negritudine”.
[2] Mi riferisco alla concezione stadiale della storia che, per esempio, in ambito socioeconomico, distingue tra società di caccia e raccolta, allevamento, agricoltura, società mercantile, in ambito intellettuale tra magia, religione e scienza.
[3] Questo tema sta al centro del celebre libro del palestinese Edward W. Said, Orientalismo.
[4] Favoletta persistente in forma secolarizzata per esempio nella convinzione del tutto smentita che le innovazioni tecnologiche da sole risolveranno i problemi del mondo.
Bibliografia
Callinicos A., Contra el postmodernismo. Una crítica marxista, Bogotá 1994.
Freud S., Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Milano 1991 (ed. or. 1919).
Lyotard J. F., La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano 2014 (ed. or. 1979).
Marcus G. E., Fisher M. M. J., Antropologia come critica culturale, Milano 1994.
Maupassant G. de, L’horla, Parigi 1886 e 1887.
Said W. E., Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano 1991 (ed. or. 1978).