Il giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel, sulle orme di Johann Gottlieb Fichte [1] pare a tratti radicalizzare ulteriormente il dualismo kantiano fra religione razionale e religione positiva, o rivelata [2]. Si consideri, inoltre, che l’opera di Fichte – per la sua carica rivoluzionaria volta all’educazione del genere umano sul fondamento della razionalità, su cui si basava l’inalienabile diritto dei popoli all’autodeterminazione – doveva certamente facilitare Hegel nella sua esigenza di mediare nella sua opera l’influenza di Kant con quella di Jean-Jacques Rousseau [3]. Di qui la netta contrapposizione tra credenza soggettiva e oggettiva, in cui traduce l’opposizione – acuita da Fichte – tra la religione razionale, fondata sulla ragion pratica, e la religione rivelata, che ha le sue origini in una teologia positiva. Come nota Hegel: “la religione oggettiva è «fides quae creditur»; intelletto e memoria sono le facoltà che operano nel suo ambito e che ricercano, rielaborano, conservano le conoscenze, o anche credono. Della religione oggettiva possono anche far parte conoscenze di carattere pratico, ma solo come un capitale morto. La religione oggettiva la si può ordinare in paragrafi, ridurre a sistema, esporre in un libro, presentare agli altri mediante discorsi. La religione soggettiva, invece, si estrinseca soltanto in sentimenti e azioni” [4]. Anche il rifiuto del piano puramente teologico ha una decisa ascendenza kantiana: di fronte all’impossibilità di una teologia razionale mostrata dalla prima critica, Kant ne La religione nei limiti della sola ragione assume come oggetto di riflessione gli aspetti storico-antropologici della religione più che quelli strettamente teologici. Tanto più che, come ha osservato a ragione Roberto Finelli: “la religione, quanto più trascorre dall’orizzonte dell’oggettività a quello della soggettività, tanto più ha, al di là del suo riferimento alla divinità, come suo contenuto sostanziale il criterio dell’agire morale e quindi, kantianamente intesa, la libertà come capacità incondizionata di autodeterminarsi della ragione umana” [5]. Su ciò si fonda l’essenziale autonomia dell’esperienza religiosa da ogni rivelazione positiva, che ne preserva l’autenticità rispetto a ogni dogmatica confessionale: “la religione soggettiva è religione vivente, è attività interiore, è operosità rispetto al mondo esterno. Essa è qualcosa di individuale, mentre la religione oggettiva è astrazione” [6].
Tuttavia, tali tentativi di radicalizzazione della concezione kantiana non costituiscono ancora un reale approfondimento, uno sviluppo sostanziale del criticismo. Anzi, si potrebbe addirittura sostenere il contrario: la concezione hegeliana sembra maggiormente legata al Saggio di una critica di ogni rivelazione [1791-92] – se non alla Fondazione della metafisica dei costumi o alla Critica della Ragion pratica [7] – piuttosto che a La religione nei limiti della sola ragione, che Kant aveva deciso di pubblicare proprio per contestare l’opinione che il Saggio di Fichte costituisse quella metafisica scientifica del fenomeno religioso rigorosamente dedotta dalla critica [8].
Dunque, sebbene Hegel mostri di conoscere La Religione nei limiti della sola ragione di Kant, non pare averne colto a pieno il nucleo sostanziale che la distingue dall’opera di Fichte e costituisce il superamento della precedente concezione kantiana in cui religione ed etica sembravano essere ridotte a semplici appendici, deducibili dalla ragione pura pratica.
Del resto, l’interesse hegeliano per la riflessione kantiana – in particolare per i suoi sviluppi nella filosofia pratica – è dovuto al suo aver scardinato la concezione ortodossa della teologia difesa da Gottlob Christian Storr [9]. Si tratta di una preoccupazione condivisa, almeno negli ultimi mesi passati allo Stift, anche da Friedrich Schelling, che così la esprime: “già spesso, nella mia rabbia contro gli eccessi dei teologi, avrei voluto far ricorso alla satira e ricondurre l’intera dommatica – con tutte le appendici dei secoli più oscuri – ai fondamenti pratici della fede” [10]. Di fronte al tentativo di restaurazione del primato della teologia sull’etica portato avanti da Storr, con argomenti più o meno capziosamente riconducibili alla filosofia critica [11], Hegel ritiene indispensabile preservare il rovesciamento kantiano del rapporto tra morale e religione. In netto contrasto con le tesi del soprannaturalismo biblico, Hegel sostiene che: “le conoscenze intorno a Dio e all’immortalità io le includo nella religione solo nella misura in cui lo richiedono le esigenze della ragion pratica, e ciò che sta con essa in una connessione molto evidente” [12].
Note:
[1] Come ha scritto Carmelo Lacorte: “nel concreto avvicendarsi storico delle dottrine religiose (come nella storia umana in generale) è pertanto possibile – per Fichte – cogliere una progrediente riduzione dell’influsso della sensibilità, onde risulta la possibilità di misurare la distanza che separa la religione dalla morale e le religioni rivelate dalla pura religione razionale” Carmelo Lacorte, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 232.
[2] Come osserva ancora Lacorte: “alle norme del diritto positivo, espressione di un singolo stato, corpo, o autorità giuridica storicamente determinato, viene ad assegnarsi una posizione di inferiorità rispetto al diritto naturale, per quel tanto di arbitrarietà che distingue un imperfetto e particolare corpus di leggi dalla naturale perfezione di quello jus universale a cui si riconosceva la forma di ideale non attinto e in certa misura non attingibile, perfetto appunto in questa inattingibilità. Questo stesso tipo di rapporto viene instaurato tra le molteplici forme storiche delle varie religioni, e l’ideale religione che tutte le sorpassa e trascende rimanendone al di sopra come modello non realizzato” ivi, p. 103.
[3] Senza contare, come ha osservato a ragione ancora Lacorte, i profondi stimoli che “passano da Rousseau a Kant per la configurazione della dottrina razionalistica dello stato e per la concezione della società civile fondata sul principio della libertà” ivi, pp. 265-66.
[4] G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 87; Id., Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 173.
[5] Roberto Finelli, Mito e critica delle forme. La giovinezza di hegel (1770-1801), Roma, Editori Riuniti 1996, p. 35.
[6] G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, vol. I, p. 88; Id., Scritti giovanili p. 173.
[7] Per quanto riguarda quella che abbiamo qui definito la prima concezione kantiana della religione, ha scritto Finelli: “nella ragion pratica, nella definizione della legge morale, è la forma stessa che si fa oggetto, è il pensiero che, attingendo unicamente alla sua capacità di produrre l’universale, genera l’idea e il criterio di ciò che è assolutamente giusto: è la volontà razionale che produce a priori la rappresentazione e l’oggetto del suo volere e come tale è perciò spontaneità assoluta. Questo è il principio ultimo e insuperabile di ogni filosofia e indagare filosoficamente sulla religione non può quindi significare che muovere e dedurla a priori da esso: come appunto ha fatto Kant con la sua teoria dei postulati” R. Finelli, Mito…, op. cit., p. 57. E ancora: “la religione consiste infatti essenzialmente nell’idea di dio quale essere di suprema perfezione morale che, proprio in virtù di tale eccellenza, è reggitore del mondo, superiore a tutti gli uomini e padrone dei loro destini. E capace perciò, con i suoi comandamenti, di sollecitare verso il compimento del bene quegli uomini che, per una forza insufficiente di ragione, hanno bisogno di spinte ed esortazioni esterne” ivi, p. 58.
[8] Fichte, “per ottenere l’interessamento di Kant, scrisse il suo primo grosso lavoro, la Critica di ogni rivelazione [Kritik aller Offenbarung]; Kant gli venne incontro per la stampa” C. Cesa J.G. Fichte e l’idealismo trascendentale, Il Mulino, Bologna 1992, p. 7. Del resto, “il risultato della prima Critica, nell’idea dello stesso Kant, ha dunque, rispetto al problema della metafisica, una duplice portata, rivoluzionaria e programmatica: è una critica della tradizione filosofica e, insieme, una propedeutica alla nuova filosofia. Ancora più esplicita diviene, quest’ultima prospettiva, già nel titolo dell’«estratto della Critica adattato al gusto popolare»: i Prolegomena” C. Lacorte, Il primo…, op cit., p. 185. “Tuttavia la critica della ragione ne costituisce il fondamento primo, che già permette di definire la metafisica come «scienza speculativa della pura ragione», una scienza di cui deve essere possibile fin d’ora determinare, oltre che l’ambito complessivo, anche le singole parti” ivi, p. 186.
[9] Ha dunque ragione Lacorte a sostenere che “Hegel farà suoi tutti i motivi kantiani che avevano provocato la reazione di Storr”, mentre certamente più discutibile è quanto aggiunge: “ma non sarà d’accordo neppure con Kant, del quale correggerà radicalmente l’impostazione, dando al problema della religione una configurazione diversa, e ciò sulla base di una prospettiva che oltrepassa anche l’angolo visuale dell’autore della Religion” C. Lacorte, Il primo…, op. cit., p. 169. E ancora, entrando maggiormente nei dettagli: “ciò nel senso, indicato da Hölderlin in una lettera a Hegel, di considerare la religione come uno degli elementi e delle parti che costituiscono l’Ideal einer Volkserziehung. Un indirizzo di lavoro, questo, che viene ricollegato direttamente all’intenzione e al significato generale di quello di Kant, e che è della più grande importanza per intendere come, per il giovane Hegel, la reazione alla teologia confessionale e gli studi di filosofia della religione rappresentino il campo più idoneo per inserirsi validamente nella problematica filosofica da lui considerata la più viva ed attuale, più rispondente al bisogno dei tempi. Nel concetto di Volksreligion, l’elaborazione del quale costituisce il risultato maggiore della speculazione di Hegel nel periodo di Tubinga, sarà da vedere innanzi tutto il termine che meglio riassume, ai suoi occhi, i temi di una filosofia «pratica» o, che è lo stesso, della filosofia in generale, stante l’indirizzo, kantianamente determinato della nuova metafisica” ivi, p. 193.
[10] G.W.F. Hegel, Briefe von und an Hegel, a cura di Hoffmeister, 4 voll., Amburgo 1952, vol. I, p. 21, tr. it. parziale di P. Manganaro, Epistolario I (1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 115. Del resto la Critica di ogni rivelazione era stata per Schelling “la satira del dommatismo” G. Semerari, Introduzione a Schelling, Laterza, Bari 1971, p. XV.
[11] Sarà Schelling – con un procedimento che Hegel seguirà fino alla Scienza della logica – a cogliere come la rivoluzione copernicana kantiana se intesa in senso debole può aprire una via ancora più semplice ai difensori della religione tradizionale che, evitando la fatica delle prove logiche dell’esistenza di dio, se la caveranno più facilmente spostando dio nell’oggetto o, con i romantici e Schleiermacher, nel soggetto. In particolare la posizione di Storr è così sintetizzata da Schelling: “poiché la ragione teoretica è troppo debole, per pensare un Dio, e l’idea di un Dio è realizzabile soltanto in forza di esigenze morali, io devo pensare Dio anche sotto leggi morali. Io abbisogno dunque dell’idea di un Dio morale, per salvare la mia moralità, e poiché solo per salvare la mia moralità assumo un Dio, questo Dio conseguentemente deve essere un Dio morale” F.W.J. Schelling, Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo [1795], tr. it. di G. Semerari, Laterza, Bari 1995, p. 5.
[12] G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, vol. I, p. 89; Id., Scritti giovanili p. 175.