Il rapporto fra religione popolare e razionale nel giovane Hegel

Per Hegel spirito del popolo, storia, religione, grado della libertà, politica popolare non possono essere considerati separatamente, né in rapporto al loro reciproco influsso né in rapporto alla loro natura. Essi sono intrecciati in un solo nodo.


Il rapporto fra religione popolare e razionale nel giovane Hegel

Per salvaguardare tanto il momento dell’universalità quanto quello della determinatezza, il soggetto dell’agire storico diviene per Hegel il popolo; al tempo stesso positivo e concepito come totalità organica [1], che esprime la propria sostanziale unità e unicità nella cultura, di cui la religione costituisce un campo di indagine privilegiato [2]. Per Hegel, infatti, dello spirito del popolo “è padre il tempo – cui egli resta costantemente assoggettato nell’intera sua vita – le circostanze del momento; è madre la politeia, la costituzione; sua levatrice e balia è la religione, che per la sua educazione ha chiamato in aiuto le belle arti” [3]. È utile, nel commentare questo passo, ricordare come vi si anticipano nettamente tesi intorno al ruolo educativo dell’umanità assegnato all’arte, in strettissimo contatto con la religione, che troveranno ampio spazio nelle schilleriane Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Se dunque l’elemento che – più a torto che a ragione – la tradizione interpretativa diltheyana ha definito teologico non può essere espulso come allotrio, è necessario ricomprenderlo proprio a partire dalla problematica della religione popolare (Volksreligion).

Per Hegel, dunque, non si tratta di condurre le sue riflessioni fortemente critiche sul piano, in qualche modo puro, della teologia, ma su quello pratico delle rappresentazioni religiose di un popolo nella sua positività storica. Per Hegel, infatti, “spirito del popolo, storia, religione, grado della libertà, politica popolare non possono essere considerati separatamente, né in rapporto al loro reciproco influsso né in rapporto alla loro natura. Essi sono intrecciati in un solo nodo (…), formare lo spirito del popolo è in parte cosa della religione popolare, in parte dei rapporti politici” [4]. Così, commenta Finelli, “in questo senso la religione, più che esperienza privata di un rapporto tra uomo e Dio, è già per questo Hegel, come poi per quello maturo, metafora ed introduzione ad altro. Essa prende valore dal principio ultimo della «libertà», quale possibilità più propria di ogni uomo, in generale, di autodeterminarsi senza alcun limite e obbligo esteriore, e di un popolo, in particolare, di costituirsi a soggetto storico, autonomo e non subalterno” [5].

Inoltre, negli scritti di questi anni, in stridente contrasto con il titolo loro assegnato da Nohl, lo stesso termine teologia è quasi sempre utilizzato in un’accezione fortemente negativa, spesso in evidente connessione con la critica dell’ortodossia dello Stift

Così, ad esempio, tale polemica si esprime in una lettera a Schelling: “ma credo che sarebbe non privo d’interesse recare disturbo quanto [più] è possibile a questi teologi che se ne stanno intenti con il loro zelo di formiche a procurarsi un’impalcatura critica per il consolidamento del loro tempio gotico; bisognerebbe render loro tutto più difficile, scacciarli a colpi di frusta da tutti gli angoli in cui si rifugiano, finché non ne trovino più uno e siano costretti a rivelarsi nella loro completa nudità alla luce del giorno” [6]. In altri casi invece, dalla critica alla teologia tubinghese, Hegel passa alla critica della teologia tout court, come si può vedere da un passaggio di una lettera a Schelling, in cui invita l’amico a esercitare la sua influenza per far comprendere a un altro condiscepolo, Renz, l’importanza della battaglia contro di essa: “non ha effetto la tua amicizia su di lui ad esortarlo all’attività, a polemizzare contro la teologia vivente? La necessità di ciò, e il fatto che non sia superfluo risulta chiaro proprio dall’esistenza della stessa teologia” [7]. Non che Hegel non abbia come punto di riferimento nelle sue riflessioni una qualche concezione della teologia o, meglio, della filosofia della religione, ma questa ha ben poco per il momento di peculiarmente hegeliano, dato che vi si ritrovano costantemente echi delle riflessioni di Kant e Fichte, oltre che Rousseau e Lessing.

Più peculiarmente riconducibile all’elaborazione di Hegel è invece l’idea della progressiva trasformazione dei rivoluzionamenti politici in un graduale rivolgimento spirituale di natura epocale, in grado di interessare un intero popolo, al cui centro – proprio per questo suo carattere di massa e non elitario – deve esserci l’educazione religiosa non dell’uomo, ma di un intero popolo storico [8]. Così, per Hegel: “tutti quanti i principi religiosi ed i sentimenti che ne scaturiscono, e particolarmente l’intensità con cui possono influenzare il modo di agire, costituiscono il punto principale di una religione popolare” [9].

L’interesse hegeliano per le rappresentazioni religiose dei popoli è, dunque, dovuto al fatto che esse sottendono e consentono di risalire a quella struttura dei costumi su cui si fondano e che contribuiscono a realizzare concretamente. Tuttavia, anche le riflessioni sullo spirito di un popolo – sia nei suoi aspetti politico-giuridici, sia in quelli religioso-culturali – hanno come implicito fondamento la autonomia morale dell’uomo, kantianamente intesa [10]. In altri termini, non si dà nessuna contraddizione tra la hegeliana religione popolare e la religione morale di Kant, come per anni si è creduto. Per entrambi i pensatori è la morale a fondare la religione; la credenza positiva, la stessa religione popolare (Volksreligion), non è che una delle forme in cui la morale si dà storicamente, positivamente [11].

Come osserva Hegel, cercando di definire ciò che intende per religione popolare: “se per l’umanità è così importante ricondurre sempre di più l’uomo alla religione razionale e rimuovere la fede superstiziosa, dobbiamo chiederci (risultando una chiesa spirituale universale solo un ideale della ragione e non essendo certo possibile che possa essere stabilita una religione pubblica che elimini tutte le possibilità del sorgere di una fede superstiziosa) come deve essere in generale disposta una religione popolare perché a) negativamente, dia il minor numero possibile di occasioni di dipendenza dalla lettera e dalle usanze, b) positivamente, il popolo sia condotto alla religione razionale e ne acquisti la sensibilità” [12]. 

Ogniqualvolta nel corso della storia il risalire dalla religione alla morale come al fondamento più originario si interrompa, la religione è destinata a decadere a culto esteriore e in ultima istanza a superstizione, poiché viene fissata, oggettivizzata in maniera dogmatica nella positività. Ciò non toglie che il positivizzarsi della morale attraverso la religione sia una necessità assoluta, in quanto storicamente indispensabile per mediare al popolo i concetti puri della morale, che il popolo non sarebbe altrimenti in grado di raggiungere. L’astrattezza dei principi su cui la morale si fonda e la distanza non riducibile rispetto all’esperienza comune, infatti, “non si qualificano facilmente per un vivo riconoscimento da parte del popolo” [13].

La religione popolare dovrebbe così fungere da termine medio fra l’universalizzazione interiore e autonoma della virtù e l’universalizzazione semplicemente positiva della credenza statutaria, per poter educare l’intera comunità all’autodeterminazione interiore del dovere morale. “È allora chiaro – a parere di Hegel – che la religione popolare e ciò che è in sé legato con il concetto di religione non può basarsi semplicemente sulla ragione, se le due dottrine devono avere efficacia sulla vita e sull’agire” [14]. 

Possiamo dunque concludere che, ritenendo compiuta l’analisi teoretica di Kant e Fichte anche per quanto riguardava la problematica della credenza, in questi frammenti giovanili Hegel si è rapportato ai fenomeni della religione da storico della cultura, più che da filosofo trascendentale, privilegiando in particolare l’aspetto fenomenico-positivo [15].

 

Note:

[1] Per quanto concerne le fonti di Hegel riguardo questa problematica ha osservato a ragione Roberto Finelli: “Herder è uno degli autori – ma va ricordato anche il Lessing di L’educazione del genere umano – che maggiormente concorre – col trasferimento dell’idea di progresso dal singolo al genere umano – all’elaborazione di quella che è stata definita come «l’invenzione teoretica più significativa del tardo Settecento tedesco»: ovvero la filosofia della storia, quale prospettiva di una filosofia che, accanto all’agire secondo intenzioni razionali e passioni, vizi e virtù, di singolo e d’interi popoli, pretende d’interpretare la storia secondo la finalità di un soggetto che trascende i fini particolari e che è la totalità del genere umano nell’insieme del suo progresso morale e culturale.” Finelli, Roberto, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Roma, Editori Riuniti 1996, pp. 44-5. Purtroppo questo grande interprete dimentica di far riferimento alle fonti francesi della concezione tedesca della filosofia della storia.

[2] Come è stato giustamente osservato, l’intenzione evidentemente programmatica della riflessione hegeliana “non mira ad esaurirsi all’interno della filosofia della religione, onde la Volksreligion [religione popolare] rappresenti un semplice ideale religioso, ma vede invece nella religione la figura al tempo stesso più evidente in sé, e pedagogicamente più efficace, della stessa filosofia, e quindi come lo strumento più idoneo per una Volksbildung [formazione del popolo]. In tal modo viene impostato in toto – nelle prospettive pratiche in cui si era definito il compito della nuova filosofia – il problema complessivo della vita di un popolo, ove quest’ultimo è inteso come la figura che incarna ed esemplifica, nella concretezza di un’epoca storica determinata, la struttura e la situazione del soggetto umano in generale.” Lacorte, Carmelo, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, p. 307.

[3] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 111, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, p. 197.

[4] Ibidem.

[5] Finelli R., Mito e critica… op. cit., pp. 35-6.

[6] Hegel, G.W.F., Briefe von und an Hegel a cura di Hoffmeister, Johannes, 4 voll., Amburgo 1952 (2. ed. 1977-1981), pp. 16-17, tr. it. parziale di Manganaro, Paolo, Epistolario I (1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 110.

[7] Ivi p. 18 e tr. it. cit. p. 111.

[8] Per Hegel, come è stato osservato, la credenza religiosa rappresenta “il fenomeno entro il quale si esprimono più chiaramente, e si risolvono in concreto, i problemi dell’umanità, e in cui si riverberano le diverse concezioni filosofiche; di considerare l’uomo nella sua duplicità, da armonizzare e non da opporre, di ragione e di sensibilità; di considerarlo inoltre nella concreta situazione storica in cui egli vive; di affermare la natura originariamente buona e libera, e quindi la legittimità della sua aspirazione ad una vita felice; di studiare la religione come lo strumento che lo conduca al soddisfacimento di questa esigenza” Lacorte, Il primo Hegel, cit., pp. 309-10.

[9] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, op. cit. vol. I, pp. 86-7; Scritti…, cit., p. 172.

[10] A questo proposito osserva Mirri: “fin troppo […] si è insistito sulla distanza della religione «vivente» hegeliana dalla pura religione «razionale» kantiana; e non tanto perché tutti i motivi addotti a segnalarla potrebbero facilmente essere reperiti nell’opera di Kant (primo e fondamentale, ad esempio, quello della giustificazione delle pratiche cultuali cui, come è noto, Kant aveva dedicato un’intera sezione della Religione nei limiti della pura ragione, svolgendola proprio con gli argomenti che si ritrovano in questo frammento tubinghese), quanto perché, a guardare a fondo, proprio la pura religione «razionale» kantiana rimane in Hegel il criterio di valutazione della religione «vivente» che le si vorrebbe opporre, l’ideale cui quest’ultima è da commisurarsi, mentre questa religione «vivente» appare piuttosto, nel testo hegeliano, come il risultato di un compromesso provvisorio tra la dignità della pura religione razionale e la debolezza umana connessa, appunto, con la sensibilità.” Hegel, Scritti giovanili I, tr. it. di Mirri, E., Guida, Napoli 1993, 32.

[11] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, op. cit. vol. I, p. 100; Scritti…, cit., p. 185.

[12] Ivi, p. 96; p. 181.

[13] Ibidem.

[14] Sebbene certamente ingeneroso nei confronti di queste prime elaborazioni hegeliane, Lacorte ha ben individuato i legami di questa concezione tanto con Kant, quanto con la religione naturale dell’illuminismo: “qual è il sostegno dottrinario della Volksreligion [religione popolare]? Negata la possibilità di derivarne i principi dalle speculazioni scientifiche e metafisiche, dalle verità rivelate, da una casistica empirica, Hegel fa ricorso a termini indeterminati e grossolani, accettati senza elaborazione sufficiente: lo spirito umano, il comune buon senso, il senso per la moralità, il sapere umano in concreto ecc. E al momento di stabilire il contenuto dottrinario della Volksreligion [religione popolare], egli ne fa discendere le «poche verità fondamentali», i pochi «principi universalmente validi» dalla «universale ragione umana»” Lacorte, Il primo Hegel, cit., pp. 313-14.

[15] Come è stato a ragione osservato a questo proposito: “non alle speculazioni teoretiche, né alla ricerca erudita e neppure alla filosofia della religione in senso stretto, ma ai problemi della filosofia della storia e alla elaborazione degli ideali del rinnovamento culturale e politico dell’umanità, è rivolto l’interesse prevalente di Hegel: ciò che segna il suo primitivo accordo, e poi il graduale distacco dei suoi orientamenti da quelli di Schelling.” Ivi, pp. 294-95.

04/11/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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