Hegel, Marx e l’essere sociale

Hegel diviene progressivamente cosciente dello spessore dell’oggettività sociale, dalla quale non è possibile e non è lecito evadere, anche quando, anzi soprattutto quando si nutrono ambiziosi progetti di trasformazione del mondo; ogni volta che la coscienza pretende di atteggiarsi sovranamente rispetto all’essere sociale, questo finisce per avere la meglio.


Hegel, Marx e l’essere sociale

Al contrario di John Stuart Mill e Alexis de Tocqueville che spiegano la contrapposizione tra francesi e anglosassoni e il loro diverso sviluppo storico sulla base di caratteristiche naturali che non corrispondono alla realtà, Georg Wilhelm Friedrich Hegel utilizza una spiegazione geopolitica nella quale il dato naturale è mediato dalla storia. A parere di Domenico Losurdo, dunque, la spiegazione di Hegel fa riferimento all’essere sociale cioè alla “visione della storia e della società” ovvero al “«terreno artificiale» (per dirla con Labriola) in cui si colloca la vita dell’uomo” [1], quella che, il filosofo di Stoccarda definisce la “seconda natura”.

Il riferimento all’oggettività sociale in Hegel non è però limitato a questo passaggio che troviamo nelle Lezioni sulla filosofia della storia. Losurdo cita, per esempio, la Fenomenologia dello spirito, il cui sviluppo è scandito dalla “matura presa di coscienza dello spessore dell’oggettività sociale, dalla quale non è possibile e non è lecito evadere, anche quando, anzi soprattutto quando si nutrono ambiziosi progetti di trasformazione del mondo. Ogni volta che la coscienza pretende di atteggiarsi sovranamente rispetto all’essere sociale, questo finisce per avere la meglio” [2].

Un esempio nella Fenomenologia è la figura de “la virtù e il corso del mondo”. L’uomo della virtù aspira all’affermazione del bene come universale, in contrasto con l’individualità e con il corso del mondo al fine di affermare l’universalità. Dal punto di vista dell’uomo della virtù, quindi “il corso del mondo va […] preservato puro dall’intervento del singolo, che lo forzerebbe soggettivisticamente, facendolo deviare dalla sua traiettoria segnata dalla sua «natura» in sé buona. Si tratta di un’attitudine di derivazione kantiana che presuppone una bontà insita nel corso del mondo, un certo progresso verso il bene anche sotterraneo. D’altra parte tale attitudine è considerata da Hegel un freno per l’azione, in quanto quest’ultima è sempre caratterizzata da una presenza forte dell’individualità, che la espone sempre al rischio di un esito insensato. Proprio perciò l’uomo della virtù agisce con estrema circospezione e poi, a forza di riflettere se il suo operare possa turbare un ordine universale in sé buono, finisce per rinunziare all’azione, limitandosi a declamare astratti ideali morali” [3]. Così l’uomo della virtù, credendo all’esistenza di valori universali “che hanno in sé la loro verità, ha fede nell’esistenza di un bene in sé e proprio perciò non si risolve ad agire per non turbare questa perfezione” [4].

Diversamente l’uomo del corso del mondo è “l’uomo d’azione in senso forte, ossia che rivendica la necessaria originalità dell’azione” [5]. Da ciò scaturisce la lotta tra il cavaliere della virtù e l’uomo del corso del mondo. Il cavaliere della virtù, però, sarà costretto ad abbandonare la lotta con il corso del mondo in quanto comprende che l’universale che anch’egli “voleva affermare, c’è già, è già realizzato: sono appunto le doti, facoltà e forze umane, che solo l’individualità che agisce, però, può rendere attive ed attuose, di modo che nel corso del mondo il bene si trova sempre, in un nesso inscindibile d’individualità ed effettualità” [6].

Infatti ciò che “il corso del mondo offre alla coscienza è l’universale, non solo come astratto, ma come un universale che è vivificato dall’individualità, o che è per un altro: ossia il bene reale” [7]. In effetti, nel momento in cui nella lotta la virtù entra “in contatto col corso del mondo”, fa esperienza dell’“esistenza del bene stesso, il quale, come in-sé del corso del mondo, è indissolubilmente intrecciato in tutte le apparenze del corso del mondo” [8] e non può che avere la propria esistenza nella realtà storica. Quindi il bene stesso è più il frutto dell’azione dell’uomo del corso del mondo che dell’uomo della virtù “sempre timoroso di ledere con il proprio operare il bene in sé” [9]. L’uomo del corso del mondo si fa portatore di un ethos mondano “ovvero di quell’attitudine propria dell’uomo d’azione, del realizzatore che fa la storia caro a Hegel” [10].

Losurdo sottolinea come nella Fenomenologia Hegel contrapponga alla virtù “che misura la sua eccellenza nell’opposizione al corso del mondo […], «la virtù antica» che «aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene reale (wirchlich) già esistente; e perciò non era rivolto contro la realtà (Wirklichkeit) intera come una universale avversione, né contro il corso del mondo»” [11]

L’uomo della virtù, invece, è destinato a non agire e ciò può avere un risvolto immorale come avviene nell’anima bella [12] “che condanna l’azione, quindi la possibilità stessa di realizzare il bene, destinandolo a restare un impotente in sé” [13]. In effetti, “il soggetto certo di se stesso, se rimane «soggetto», cioè se non si decide a oggettivarsi, dimenticandosi nell’azione che produca qualcosa di nuovo, vive in un’interiorità abitata da un dissidio (intellettuale) di opposte esigenze irrisolte e si rovescia in coscienza cattiva e immorale” [14].

Così si esprime Hegel nella Fenomenologia a proposito dell’anima bella: “gli manca la forza dell’alienazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l’essere. La coscienza vive nell’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci la gloria del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto con la realtà” [15].

Sia nel caso dell’uomo della virtù che nel caso dell’anima bella quindi “la proclamazione dell’irraggiungibilità dell’ideale, troppo eccellente per contaminarsi nell’esistenza, si rivela in ultima analisi come la sconsolata constatazione della staticità e dell’opacità del reale e del mondano, troppo volgare e come affetto da un male radicale che gli impedisce di accogliere in sé qualsiasi stimolo ideale” [16].

In verità, questa fuga dal mondo che lega tutte queste figure della Fenomenologia rispecchia il distacco dalla realtà politica estremamente diffuso negli anni della Restaurazione e verso il quale Hegel è estremamente critico. In quegli anni infatti, al grande entusiasmo per la Rivoluzione francese e per i suoi ideali si sostituisce, tra gli intellettuali tedeschi, la delusione verso quel paese che invece della rivoluzione e il rinnovamento politico ha umiliato e conquistato la Germania con i suoi eserciti. Gli intellettuali abbandonano così le idee della Rivoluzione e invece di procedere “ad un’analisi più matura della complessità della Rivoluzione francese e del processo di sviluppo della modernità” [17], si distaccano dalla politica cui contrappongono “il mondo incantato dell’arte”, la religione oppure “la natura incontaminata e risanatrice” [18].

Tale fuga è per Hegel illusoria, infatti il godimento estetico, essendo fugace, è “incapace di riscattare la quotidianità dalla sua banalità”, così, visto che il mondo è vano e caduco, “in esso non ci si può attendere «nulla di eterno, nessun ideale effettivamente raggiunto». Ed ecco allora che il sentimento fondamentale diventa la «nostalgia» […] ovvero la «malinconia»” [19]. Questo sentimento di nostalgia (Sehnsucht), presente per esempio in autori quali F. Schlegel, Schleiermacher e Schelling, si trova anche nella filosofia di Kant e di Fichte, per questo motivo criticate da Hegel. A parere di Losurdo, infatti “nella Sehnsucht sfocia inevitabilmente anche la filosofia kant-fichtiana, allorché colloca la realizzazione dell’ideale nell’aldilà del «progresso infinito», in un aldilà che, pure assumendo una configurazione laica, comporta sempre la sconsacrazione del mondano e del politico, produce pur sempre una sospirosa nostalgia, un desiderio di trascendenza e d’evasione dal reale. […] E così, persino Fichte, che pure aveva salutato non solo con entusiasmo ma con propositi battaglieri la Rivoluzione francese, finisce coll’esprimere disagio per la realtà terrena e mondana: «Questo mondo non è la mia patria e nulla di quello che esso è in grado di offrirmi può appagarmi»” [20].

 

Note:

[1] Domenico Losurdo, Hegel, Marx e l’ontologia dell’essere sociale, in «Critica Marxista», Settembre/ottobre, pp. 40-49, 2010, p. 45.

[2] Ivi, pp. 43-44.

[3] Renato Caputo, La concezione hegeliana del tragico a Jena, Tesi di dottorato di ricerca in Filosofia “Dialettica e mondo umano”, Università di Urbino 2012, p. 143.

[4] Ivi, p. 144.

[5] Ibidem.

[6] Sergio Landucci, Hegel: la coscienza e la storia. Approssimazione alla “Fenomenologia dello spirito”, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 53-54.

[7] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad .di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p. 321.

[8] Ibidem.

[9] Renato Caputo, La concezione…, op. cit., p. 149.

[10] Ivi, p. 150.

[11] Domenico Losurdo, Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001, p. 146.

[12] Per spiegare l’importanza che Hegel dà all’essere sociale e la conseguente critica a posizioni soggettivistiche che, per preservare la purezza dei loro ideali, evadono la realtà, oltre alla virtù e il corso del mondo e la figura dell’anima bella, Losurdo cita anche altre due figure della Fenomenologia: la legge del cuore “che si sente in contraddizione con l’«ordine violento del mondo»” e che quando l’individuo la realizza “non si riconosce più in essa” e la coscienza onesta “che ha qualche rapporto con la prassi, che è pur capace di impegno, ma che, dinanzi alla mediocrità dei risultati, finisce col consolarsi richiamando alla mente e proclamando dinanzi agli altri l’«onestà» delle proprie intenzioni.” Ivi, p. 145 e 146; per questo tema cfr. anche Domenico Losurdo, Hegel…, cit., pp. 43-44.

[13] Renato Caputo, La concezione…, op. cit., p. 152.

[14] Francesco Valentini, Soluzioni hegeliane, Guerini e Associati, Milano 2001, p. 62.

[15] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia…, op. cit., vol. II, pp. 183-84. Questo passo della Fenomenologia è citato anche in Domenico Losurdo, Ipocondria…, op. cit., pp. 146-47.

[16] Ivi, pp. 138-39.

[17] Ivi, p. 125.

[18] Ivi, p. 128 e 130. “Natura e religione formano qui un intreccio di evasione e edificazione. Hegel, che cerca la libertà non nell’inaccessibilità delle montagne o del sentimento interiore, ma nel concreto delle istituzioni politiche, polemizza esplicitamente con Schiller, con la sua «invocazione alla natura» (Pochen auf Natur) che è solo espressione dell’esaltazione (Schwärmerei) di un entusiasmo soggettivo” ibidem.

[19] Ivi, p. 131.

[20] Ivi, pp. 131-32.

28/01/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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