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Gli anni de “L’Ordine Nuovo”
Negli anni giovanili, particolarmente significativa è l’esperienza de “L’Ordine Nuovo. Giornale di cultura socialista”, che Gramsci fonda con Togliatti, Tasca e Terracini e di cui è direttore. Emblematico il motto che Gramsci fa mettere nella testata del giornale: “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza”.
Nell’autunno del 1919, su impulso de “L’Ordine Nuovo”, si formano i consigli nelle fabbriche a Torino. Nel 1920 gli industriali rifiutano gli aumenti richiesti dalla Fiom, che sviluppa una tattica ostruzionistica, a cui il padronato risponde con la serrata; il sindacato dei metalmeccanici dal 30 agosto porta avanti, a partire da Milano, l’occupazione delle fabbriche. Dunque gli operai – generalmente ancora privi di una coscienza di classe rivoluzionaria, pur partendo da una lotta economica legata alla necessità dei propri bisogni immediati, seguendo (su impulso de “L’Ordine Nuovo”) il vincente esempio della Rivoluzione russa – cominciano un importantissimo processo di autogestione delle fabbriche. “L’Ordine Nuovo” svolge così un ruolo di direzione politica e di orientamento teorico sul proletariato urbano tramite i consigli operai quando, nel momento più caldo del “biennio rosso” (1919-20), l’occupazione si estende alle principali fabbriche del centro-nord industrializzato del paese. I Consigli operai rappresentano la traduzione nel contesto italiano dei Soviet sperimentati nel corso delle rivoluzioni in Russia dal 1905 al 1917. Si viene a creare una fase prerivoluzionaria dal momento che i lavoratori in armi – che occupano le principali industrie, ossia la parte più avanzata del sistema produttivo – dimostrano di essere in grado di continuare a portare avanti la produzione senza i padroni. In questo modo dimostrano che la borghesia è divenuta una classe ormai parassitaria, che non è più necessaria per lo sviluppo economico, in quanto i lavoratori sono in grado di autogestirlo. In tal modo il proletariato in armi, che controlla il processo produttivo e si organizza in consigli, costituisce un reale contro-potere dinanzi allo Stato borghese. La rivoluzione proletaria in Italia non è mai stata così vicina.
I consigli di fabbrica come strutture embrionali dello Stato socialista
Gramsci e “L’Ordine nuovo” si impegnano al massimo per favorire lo sviluppo dei Consigli di Fabbrica, nei quali vedono, a ragione, la cellula della società futura, per due motivi fondamentali: in primis perché mediante l’organizzazione consiliare gli operai dimostrano di essere in grado di gestire la produzione in maniera autonoma; in secondo luogo i consigli rappresentano, a livello embrionale la base della democrazia socialista. Una democrazia non più essenzialmente rappresentativa, come quella parlamentare borghese, in cui generalmente una casta di politicanti svolge la funzione di classe dirigente al servizio degli interessi complessivi della classe dominante dal punto di vista strutturale: socio-economico. Nella democrazia proletaria sono i lavoratori stessi, ossia coloro che consentono lo sviluppo delle forze produttive del paese, che prendono in mano non solo la produzione, ma anche la direzione politica, grazie appunto a queste strutture collettive, i consigli, assemblee realmente democratiche, in quanto attraverso di esse si esercita effettivamente dal basso il potere delle masse popolari.
La sconfitta della Rivoluzione in occidente
Tuttavia, pur essendo giunti a un passo dalla realizzazione della Rivoluzione in Occidente – dal momento che in Ungheria i lavoratori hanno conquistato il potere e formato una Repubblica dei consigli e anche in Austria e, soprattutto, in Germania si sono sviluppate, intorno ai principali centri urbani, repubbliche sovietiche – l’assalto al cielo subisce una battuta d’arresto decisiva. Il terrore per la rivoluzione e la conseguente perdita dei propri enormi privilegi porta le borghesie a finanziare e a sostenere con i propri apparati dello Stato, a partire da quelli repressivi, la contro-rivoluzione nazi-fascista. Tale sconfitta è di portata decisiva dal punto di vista della storia universale, perché segna nei fatti il fallimento dello stesso processo rivoluzionario apertosi con Rivoluzione di Ottobre in Russia.
Il sostanziale fallimento della strategia alla base della Rivoluzione d’ottobre
Come è noto, in effetti, sotto la direzione di Lenin i Bolscevichi avevano mirato a sfruttare la situazione oggettivamente rivoluzionaria che avevano contribuito a creare nel loro paese – grazie alla coerenza con cui avevano portato avanti la parola d’ordine di impedire la guerra o in caso contrario trasformare la guerra imperialista, in guerra civile rivoluzionaria – mirando a rompere la catena delle potenze imperialiste nel suo anello più debole. In Russia, e ancora di più nella maggioranza delle future Repubbliche socialiste sovietiche, erano quasi del tutto assenti le condizioni storiche, in primo luogo economiche e sociali, ma anche sovrastrutturali, indispensabili per avviare, una volta conquistato il potere politico, la transizione al socialismo. D’altra parte, mentre i bolscevichi sotto la direzione di Lenin erano riusciti a portare a compimento la parte del loro piano che dipendeva da loro, i rivoluzionari nei paesi in cui vi erano invece le condizioni oggettive per avviare con successo la transizione al socialismo avevano fallito completamente il loro obiettivo. Tale fallimento aveva avuto necessariamente esiti tragici, portando negli anni seguenti al potere, proprio nei paesi più sviluppati dove più ci si era avvicinati alla Rivoluzione, le forze della contro-rivoluzione che si disponevano a schiacciare del tutto il processo Rivoluzionario mediante l’aggressione imperialista al paese dei Soviet.
I motivi della sconfitta della Rivoluzione in occidente nell’analisi di Lenin
A questo punto, per apprendere dai propri errori, e non ripeterli, diviene decisivo comprendere i motivi del catastrofico fallimento dei tentativi rivoluzionari in occidente. Secondo l’analisi di Lenin, che riflette sulla questione dal punto di vista della storia mondiale, la causa principale di tale fallimento è da ricercare negli extra-profitti consentite dalle politiche di conquista imperialiste, che hanno consentito la formazione nei paesi a capitalismo avanzato di un’aristocrazia operaia alla guida delle classi subalterne. Così, grazie agli extra-profitti estorti con il violentissimo sfruttamento dei popoli coloniali, i gruppi dirigenti delle classi subalterne non avevano più nient’altro da perdere che le proprie catene per cui, giunte all’appuntamento decisivo con la storia, avevano preferito mantenere i propri meschini privilegi, piuttosto che metterli in gioco in una rivoluzione dagli esiti necessariamente incerti. Da qui, l’essenziale intuizione di Lenin di puntare, in funzione della ripresa della rivoluzione sul piano internazionale, sul sostegno alla diffusione e allo sviluppo delle lotte antimperialiste da parte dei popoli dominati, in modo tale da fra venir meno gli extra-profitti su cui si fondava il tradimento dell’aristocrazia operaia.
Le ragioni della sconfitta della rivoluzione in Italia
Tale analisi si dimostrò del tutto valida per comprendere i motivi di fondo della sconfitta delle Rivoluzioni in occidente nella prospettiva del contesto storico internazionale. Da questo punto di vista erano valida anche per comprendere il fallimento del biennio rosso in Italia. Nel momento in cui con l’occupazione da parte dei subalterni armati dei centri della produzione, con la loro organizzazione nelle strutture rivoluzionarie dei consigli di fabbrica, nel momento di debolezza dello Stato borghese – dopo la penosa prova di sé che aveva dato nel corso della prima guerra imperialista mondiale e nelle successive trattative di “pace” – si stava per creare quella situazione di dualismo di potere, essenziale per la riuscita della rivoluzione proletaria. Tuttavia, anche in questo caso, il motivo più evidente della sconfitta dalle conseguenze così nefaste era evidentemente da ricercare nell’aristocrazia operaia che aveva il pieno controllo del principale sindacato, la Confederazione generale del lavoro (CGdL, poi CGL e oggi CGIL), e controllava una parte significativa degli stessi dirigenti del Partito socialista. Il sindacato non solo non si era per nulla dato da fare per unire alla rivolta operaia del centro-nord le lotte contadine e bracciantili del centro-sud, ma aveva accettato l’accordo con il governo liberale guidato da Giolitti, che aveva promesso significative riforme e la riaffermazione del potere di controllo delle direzioni sindacali sugli operai, se quest’ultimi avessero convinto i lavoratori a deporre le armi e a terminare l’occupazione delle fabbriche.
Il ruolo in sé riformista del sindacato
Del resto il sindacato in quanto tale, sorto nelle società capitalistiche con la funzione di vendere al prezzo più alto possibile la forza-lavoro del proletariato, contrattando una limitazione delle condizioni, della durata e dei ritmi dello sfruttamento del lavoro salariato, ha una funzione in quanto tale riformista, tutta interna alla logica della società borghese. Tanto più che, con il venire meno del lavoro salariato e dello sfruttamento della forza-lavoro, in una società socialista la funzione del sindacato e, quindi, anche il potere dei suoi dirigenti, sono destinati inevitabilmente a contrarsi, fino a venir meno. Del resto in Italia la CGdL era nata proprio in seguito alla sconfitta del tentativo, per altro indubbiamente velleitario, di prendere il potere da parte del sindacalismo rivoluzionario, che aveva puntato tutto sullo spontaneismo operaio, per cui lo sciopero generale si sarebbe necessariamente trasformato in sciopero politico e, quindi, in movimento insurrezionale.
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