Brecht e la dialettica a teatro

Brecht si serve di un procedimento maieutico che gli consente di portare l’attore o il regista ad avvertire tutta la problematicità, l’interna contraddittorietà, di ciò che nell’esercizio quotidiano del mestiere può apparirgli scontato, di modo che sotto la patina dell’ovvio divengano visibili le più profonde connessioni che articolano il compito espressivo e ne determinano le diverse soluzioni.


Brecht e la dialettica a teatro

Brecht stesso, a quanto pare, considerava con un certo distacco ironico la possibilità di ritrovare nella categoria di teatro dialettico una soluzione effettiva e definitiva, una panacea in grado di sanare tutti i mali delle precedenti formulazioni teoriche. Come ricorda uno dei suoi più stretti collaboratori degli anni cinquanta, Manfred Wekwert, “in questi ultimi tempi, Brecht parlava molto della dialettica nel teatro. Egli definiva il più delle volte il suo teatro come «dialettico» – non senza un certo sorriso” [1]. Un sorriso che, naturalmente, non indica compiacimento per la trovata, ma un residuo di distacco critico. Ad ogni modo, nonostante i sempre necessari dubbi, il teatro dialettico resta un elemento indispensabile, l’unico fornitoci inequivocabilmente da Brecht, per provare a intendere in che modo immaginasse di poter superare i limiti della precedente teoria del teatro epico [2]. Del resto, già nel 1940, Brecht annotava nel suo diario di lavoro: “chiaro, che il teatro dello straniamento è un teatro della dialettica. Tuttavia io non ho trovato fino ad ora nessuna possibilità, attraverso l’utilizzo di materiale concettuale, di chiarire la dialettica di questo teatro” [3].

Alcuni elementi importanti, per cominciare a comprendere cosa intendesse Brecht per teatro dialettico, si trovano in un corpus di brevi scritti composti tra il 1951 ed il 1956, riuniti e pubblicati dopo la morte di Brecht dagli editori della prima edizione delle opere complete brechtiane sotto il titolo di La dialettica nel teatro [4]. Fra di essi si trovano degli scritti collezionati dallo stesso Brecht in vista della pubblicazione mai avvenuta di un volume che avrebbe dovuto essere intitolato La dialettica nel teatro, cui evidentemente si sono ispirati gli editori per il titolo dato alla sezione che li raccoglie.

Chi, però, credesse di poter individuare in essi delle sconcertanti rivelazioni, delle ardite speculazioni, o una sorta di panacea in grado di indicare una inequivocabile soluzione alle problematiche lasciate aperte dalle precedenti riflessioni sul teatro epico rimarrebbe probabilmente deluso. Negli scritti in questione, spesso in forma dialogica, sono discussi dei problemi ben determinati insorti durante il lavoro di messa in scena di alcuni drammi. Tali problemi sono analizzati a fondo in tutti i loro aspetti particolari e sono poi risolti in una maniera che, pur nella sua apparente semplicità, assume un valore esemplare. Il tono è volutamente dimesso, bonariamente didattico, talvolta ironico.

Nei dialoghi in questione, Brecht assume un ruolo socratico, mette cioè in discussione con domande apparentemente innocenti le concezioni preconcette dei suoi collaboratori-allievi, permettendo così ai problemi profondi che si celano nell’interpretazione scenica di un testo, una volta sgomberato il campo da ogni soluzione precostituita, di venire alla luce. Tali soluzioni, ed è importante sottolinearlo in quanto si tratta di una ulteriore attitudine socratica, sono sempre presentate da Brecht come il risultato di un lavoro collettivo. D’altra parte, tutti quegli aspetti della concreta pratica scenica che sembrano andare da sé sono ora messi radicalmente in questione; niente deve essere più lasciato all’arbitrio, all’esercizio incosciente del mestiere del regista o dell’attore

Brecht si serve di un procedimento maieutico che gli consente di portare passo dopo passo l’attore o il regista ad avvertire tutta la problematicità, l’interna contraddittorietà, di ciò che nell’esercizio quotidiano del mestiere può apparirgli scontato, di modo che sotto la patina dell’ovvio e del “naturale” divengano visibili le più profonde connessioni che articolano il compito espressivo e ne determinano, strutturandole, le diverse soluzioni.

Dette soluzioni, pur raggiunte attraverso questo complesso processo, debbono poi apparire tanto naturali da poter essere scambiate, o meglio da poter coincidere con quelle prodotte da un semplice buon senso scenico guidato dall’esperienza e dal mestiere. È proprio una soluzione del genere, semplice benché prodotta da un lungo e complesso processo, che Brecht definisce esemplarmente dialettica. Particolarmente esemplare è, a questo proposito, il quarto frammento di La dialettica nel teatro, che si conclude con questo significativo commento di Brecht: “straordinario, – disse B. quando la prova ebbe confermato la nostra supposizione, – che ogni volta sia necessario un simile sforzo per rispettare le leggi della dialettica!” [5]. Il che può lasciare a prima vista perplessi. Sembrerebbe quasi un maldestro tentativo di giustapporre all’ultimo momento delle sovrastrutture ideologiche ai risultati raggiunti da un vecchio uomo di teatro grazie alla lunga pratica con il concreto lavoro scenico.

Tanto più che Brecht stesso sembra prendersi più di una volta gioco dei suoi allievi quando credono di poter superare una determinata difficoltà insorta nel concreto della scena con il richiamo a una astratta formulazione teorica, pratica tipica del dottrinarismo che serpeggiava tra alcuni dei suoi giovani collaboratori. Del resto, non si può evitare di fare i conti con quello che è il fine dichiarato che l’autore vuole raggiungere con questi scritti: egli intende, inequivocabilmente, portare i suoi collaboratori e indirettamente i suoi lettori a comprendere, al di là di certe sovrastrutture ideologiche, allora molto in voga, che cosa sia la dialettica e perché essa abbia una funzione così importante anche nella concreta pratica teatrale.

Ci si potrebbe, allora, aspettare che Brecht dissolva ogni sospetto sulla perspicuità del proprio scopo, chiarendo una buona volta ai suoi collaboratori e, attraverso di essi, a noi lettori che cosa intendesse con il termine dialettica, non sempre utilizzato a proposito in quegli anni. Eppure tale atteso chiarimento viene sempre a mancare. La stessa fatidica domanda, che ci si potrebbe un po’ ingenuamente attendere, non è mai posta dai collaboratori o non è mai messa loro in bocca da Brecht che, in questi scritti, riporta il confronto, su questioni significative, di un intellettuale collettivo.

La struttura dei diversi dialoghi-apologhi resta sempre la stessa: si parte da alcune difficoltà astrattamente avvertite, se ne analizzano accuratamente gli elementi per permettere ai problemi concreti di venir fuori e, quindi, si individua una soluzione in grado di preservare, nella sua apparente facilità, la complessità dei problemi affrontati, infine Brecht fa notare ai propri allievi l’esemplarità della soluzione individuata, cioè la sua dialetticità e qui cala il sipario, quasi che egli abbia voluto lasciare allo spettatore la soluzione del dilemma.

Certo, si potrebbe argomentare che la domanda sul significato dell’aggettivo dialettico, utilizzato da Brecht per connotare il suo teatro, sia assente proprio per le difficoltà che procurerebbe la necessità di approntarvi una risposta univoca, o più semplicemente che sarebbe poco dialettico porre una domanda che richiederebbe una risposta, in qualche modo, definitiva. D’altra parte è lecito supporre, sulla base della struttura stessa di questi scritti, che tale domanda debba necessariamente essere assente, in quanto dogmatica rischierebbe di apparire ogni risposta.

In altri termini, si potrebbe ritenere che per Brecht qualsiasi tentativo di definire una volta per tutte cosa sia la dialettica sarebbe una contraddizione in termini. Qualsiasi definizione comporterebbe, in effetti, l’illecita irreggimentazione della dinamicità che anima questo metodo. D’altra parte, sembra suggerire Brecht, tale risposta è già presente e operante nella struttura stessa del dialogo e nella dinamica decisionale fondata sull’intellettuale collettivo.

Cercare, quindi, di sopperire dall’esterno a questa programmatica assenza di definizioni sarebbe uno sforzo vano prima che contraddittorio, tuttavia ciò non vuol dire dover rinunciare al tentativo stesso di delineare per lo meno i contorni, le coordinate in cui deve muoversi per Brecht e il Berliner Ensemble il concetto di dialettica e, quindi, quello di teatro dialettico [6]. Tanto più che, sebbene potrebbe apparire vano pretendere da Brecht e dal suo Ensemble di fissare in positivo il significato di questo concetto ciò non significa rinunciare alla possibilità stessa di provare a delinearlo, quantomeno, in negativo. Del resto, il campo semantico di questo termine sembra, in effetti, delimitabile solo in funzione di alcune previe esclusioni. Andrebbe innanzitutto tenuto presente che il concetto di dialettica di cui si avvale Brecht non può essere considerato alla stregua di una astratta costruzione logica desunta da certi autori e sistematizzata per essere poi indifferentemente utilizzata, nella sua meccanica legalità, per la soluzione dei più differenti problemi. In una parola, è una concezione della dialettica che ha poco a che spartire con quella del Diamat. Ciò consente di chiarire l’uso sempre attento e oculato, in qualche modo parsimonioso che Brecht fa del termine, anche se in certi casi potrebbe apparire il contrario. Non si tratta, infatti, di una parsimonia quantitativa, ma qualitativa.

Note:

[1] Wekwerth, M., Auffinden einer ästhetischen Kategorie, in «Sinn und Form» II. Sonderheft Bertolt Brecht, Berlin 1957, p. 260 ss., ora anche in Id., Schriften. Arbeit mit Brecht, Henschel, Berlin-Ost 1973, pp.67-76, p. 72.

[2] Sebbene non intendesse rinunciare alla sua passata riflessione sulla drammaturgia epica, in cui non era certo assente la componente dialettica, egli ne avvertiva chiaramente le insufficienze. Riteneva lo stesso termine episches Theater troppo formale; cfr. Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a.M. 1967, 20 voll., vol. 16, p. 869.

[3] Id., Arbeitsjournal, a cura di W. Hecht, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, 2 voll., tr. it. di Zagari, B., Diario di Lavoro, Einaudi, Torino 1976, annotazione del 20.12.40.

[4] Id., Scritti teatrali, 3 voll., a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 235-296.

[5] Id., Scritti…op. cit., vol. II, p. 254.

[6] Suggestioni significative, a tal proposito, sono offerte dalla dissertazione di Boner, J., Dialektik und Theater, Zentralstelle der Studentschrift, Zürich 1995.

12/05/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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