L’orizzonte veritativo di senso aperto dalla rappresentazione artistica, secondo la poetica di Bertolt Brecht, è messo a repentaglio da una connaturata instabilità, in quanto la possibilità stessa del suo darsi è sempre un compito che l’opera affida, in ultima istanza, al libero arbitrio del suo fruitore. L’opera deve, in effetti, fare in modo che questi non si risolva completamente al suo interno, che non si riconosca del tutto in essa. Solo, così, egli può stabilire quella distanza indispensabile a poter adempiere coscientemente al compito peculiare che l’opera stessa gli affida, un compito che consiste nel permettere al senso insito nella forma di manifestarsi, di darsi pienamente.
Il sorprendente, lo spiazzante, persino l’incomprensibile divengono, allora, degli aspetti essenziali cui l’opera non può rinunciare se intende rimettere in discussione il naturale orizzonte di senso in cui vive il suo fruitore. Quindi, a parere di Brecht: “a evitare che il pubblico sia indotto a gettarsi nelle vicende come ci si getterebbe in un fiume, per lasciarsi trascinare alla deriva, i singoli avvenimenti devono essere collegati in modo che i nodi dell’azione diano nell’occhio. Gli avvenimenti non devono susseguirsi inavvertitamente, bisogna invece che lo spettatore possa intervenire col suo giudizio tra l’uno e l’altro. (Se invece fosse opportuno rappresentare l’oscurità dei rapporti causali, bisognerebbe convenientemente straniare proprio questa condizione). Si deve dunque accuratamente contrapporre tra loro le parti della trama, dando a ciascuna la sua propria struttura di dramma nel dramma” [1].
Lo spettatore, quindi, può essere reso disponibile a una reale comprensione dell’arte solo se l’opera gli pone degli interrogativi che gli permettano di riconsiderare criticamente la sua stessa precomprensione. Soltanto se l’opera è in grado di dare corpo a una visione “straniata” del reale lo spettatore può essere portato a considerare riflessivamente la sua visione abituale del mondo, può revocare in dubbio quel senso comune di cui è prigioniero più o meno volontario.
Il contenuto dell’opera deve avere, allora, sempre un aspetto familiare e allo stesso tempo estraneo, deve consentire al suo fruitore di ritrovarsi, di riconoscersi in ciò che gli è proposto e allo stesso tempo di mantenere un costruttivo atteggiamento critico di fronte a esso.
Su questo doppio aspetto che deve avere l’opera si basa la troppo spesso fraintesa teoria dello “straniamento”. Brecht ne riassumeva, così, gli aspetti fondamentali: “1) L’ovvietà, cioè la particolare forma che l’esperienza ha assunto nella coscienza, torna a dissolversi quando viene contestata dall’effetto V [l’effetto di straniamento] e si trasforma poi in una comprensione di tipo nuovo. Ciò che qui viene distrutto è una schematizzazione. Le esperienze personali dell’individuo rettificano o confermano ciò che egli ha recepito dalla totalità. Ha luogo una ripetizione dell’originario atto di scoperta. 2) La contraddizione tra immedesimazione e distanziamento si acuisce e diventa uno degli strumenti della rappresentazione. 3) Nel processo di storicizzazione si considera un determinato sistema sociale partendo dal punto di vista di un sistema sociale diverso” [2]. Perciò, Brecht insiste sulla necessità di presentare il contenuto veritativo dell’opera come un qualcosa di storico. Ciò, tuttavia, non va inteso nel senso di qualcosa di avvenuto, di risolto, di puntuale, quanto piuttosto come qualcosa che va considerato criticamente in relazione al presente, che va in qualche modo risolto in esso, benché sia in grado di preservare, al tempo stesso, la sua radicale finitezza e alterità. Altrimenti si rischierebbe di incorrere nell’errore di quei teatri che: “quando rappresentano lavori di altri tempi, si sforzano di cancellare le linee divisorie, colmare le distanze, mascherare le differenze. Ma allora”, si chiede Brecht, “dove va a finire il piacere della visione panoramica, delle cose viste da lontano, della diversità? Che è nello stesso tempo il piacere delle cose vicine e propriamente nostre!” [3].
Solo attraverso questo incontro con il passato, con una alterità di cui fa parte, lo spettatore è spinto a considerare lo stesso orizzonte presente in cui vive come qualcosa in continuo divenire ed è portato a rimettere in discussione i suoi pregiudizi rispetto a esso. È proprio questa operazione di riconoscimento del proprio presente nell’alterità – questa possibilità di distinguere e, quindi, di mediare ciò che si è distinto – che deve essere per Brecht alla base di ogni esperienza estetica.
Questa operazione è, del resto, alla base della teoria dello straniamento. Straniare, infatti, significa per Brecht “storicizzare, significa rappresentare processi e personaggi come storici, dunque come caduchi. Lo stesso può naturalmente avvenire anche con i contemporanei: pure i loro atteggiamenti possono essere rappresentati come determinati temporalmente, storicamente transitori” [4]. Ciò non significa che Brecht avesse ceduto alla pretesa di certo storicismo che nascondeva, dietro la giusta esigenza della responsabilità storiografica, la pretesa a uno sguardo esterno, a un non dolet teoretico. L’uomo non è, infatti, rappresentabile unicamente “così, come è, ma anche altrimenti, così come potrebbe essere, e anche le relazioni sono rappresentabili altrimenti da quello che sono” [5].
Quindi, lo spettatore dell’epoca scientifica, cui devono rivolgersi le opere moderne, spettatore che esse stesse contribuiscono a creare, deve mantenere rispetto alla rappresentazione artistica quello stesso atteggiamento critico che gli consente di collocarsi nei confronti della società e della vita in una libera consapevolezza, che fa della conoscenza dei propri limiti e della propria finitezza il fondamento del suo risolversi all’azione. A questo spettatore deve, dunque, corrispondere un’opera dotata di una duplice e solo apparentemente contraddittoria caratteristica, un’opera, cioè, che sia in grado di offrire un’originale costruzione di senso dotata di un suo peculiare contenuto veritativo che aspiri a essere, al tempo stesso, un’adeguata rappresentazione del reale.
Un’opera per essere realista deve, a parere di Brecht, possedere una duplice e solo apparentemente contraddittoria caratteristica, deve cioè operare al suo interno una ricostruzione del reale che è al tempo stesso una originale costruzione. Essa si presenta, così, al suo spettatore come una fedele riproduzione del reale e un modello utile alla sua comprensione e trasformazione. Quest’opera, infatti, si pone, per il duplice compito cui adempie, come mediazione tra due estremi: la fedele riproduzione della realtà e la sostituzione di una totalità dotata di senso alla radicale insensatezza dell’empirico. Solo in virtù di questa duplice funzione che mira ad assolvere, l’opera realistica può aspirare a proporsi come una risposta in qualche modo adeguata ai problemi posti all’arte dalla modernità, in primis alla questione della perdita della centralità che aveva nel mondo antico. Solo così l’arte può tornare a essere “una sfera autonoma, anche se in nessun caso autarchica”. A parere di Brecht, infatti, “un criterio per giudicare un’opera d’arte può essere il vedere se essa è ancora in grado di arricchire la capacità di esperienza di un qualunque individuo”, il vedere se essa è capace “di arricchire le possibilità espressive, le quali non sono propriamente possibilità di fare esperienza, ma piuttosto possibilità di comunicazione”. Del resto, la stessa lirica “non è mai pura espressione. Recepire una lirica è un’operazione non meno di quanto lo sia, per esempio, il vedere e l’udire, anzi un’operazione che richiede un atteggiamento molto più attivo. Comporre poesie deve essere considerato un’attività umana, una pratica sociale, contraddittoria e mutevole al pari di tutte le altre, un’attività che è condizionata dalla storia e che a sua volta crea storia. La differenza sta fra «rispecchiare» e «mettere uno specchio davanti agli occhi»” [6].
L’arte per Brecht può continuare a esistere nel mondo moderno solo se non rinuncia più alla ricerca dell’ideale. Non si tratta, però, di tornare all’ideale che avevano di mira le opere classiche, figlie di un’epoca in cui questo era un che di dato e, quindi, qualcosa di direttamente rappresentabile in una immagine. Ora invece esso è revocato in dubbio, è sottratto e l’artista ha bisogno di costruirlo, di riedificarlo muovendo dalla propria soggettività, dal proprio sentimento dell’unità di senso. L’arte moderna è così caratterizzata al contempo da un movimento riflessivo di ritorno in sé e dalla necessità di ricostruire un orizzonte spirituale in cui inserirsi.
La possibilità di una “grande” arte non va più relegata, allora, in un tempo definitivamente passato, ma deve essere consegnata al futuro, deve divenire un imprescindibile punto di riferimento, un ideale seppur irraggiungibile per l’arte del presente. Non si possono, quindi, condannare gli importanti esperimenti delle avanguardie storiche, in quanto in questo presente l’arte non può che assumere le sembianze di un’arte di passaggio intimamente contraddittoria e scissa, che non si appaga, che non trova luogo nella sua lacerazione, ma che è continuamente rinviata al di là di se stessa. Essa deve virilmente accettare il suo destino di essere un esperimento che pure nella sua necessaria incompletezza si pone nella direzione dell’arte del futuro.
L’artista deve farsi, allora, consapevolmente carico della sua missione storica che gli impone di palesare e denunciare la transitorietà dell’arte del presente, della sua arte, sì da farne uno scomodo testimone dell’intima contraddittorietà della rappresentazione artistica in un’epoca abbandonata dai vecchi dèi e non ancora in condizione di dotarsi, né di immaginarne dei nuovi. Un’arte che, pur aspirando con tutto il proprio essere a una nuova ingenuità, è consapevole che gli è interdetta qualsiasi possibilità di trovare l’equilibrio in una “classica” totalità. Al suo interno si cela, infatti, la forza “demoniaca” di quella tragica ironia che denuncia un’assenza, testimonia una mancanza, esprime la perdita. L’arte moderna deve, quindi, fondarsi sull’aporetico binomio di riproduzione e ironia. Il momento di unità tra queste sue opposte anime è soltanto negativo ed è dato dalla sua essenziale inconciliabilità con la poetica ingenuamente riproduttiva del naturalismo e con quella scettico-costruttivista dell’estetismo di cui pure, in qualche modo, è il prodotto.
Note:
[1] Brecht, Bertolt, Scritti teatrali, 3 voll., a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 181.
[2] Id., Arbeitsjournal, a cura di W. Hecht, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1973, 2 voll., tr. it. di B. Zagari, Diario di Lavoro, Einaudi, Torino 1976, p. 136.
[3] Id., Scritti teatrali…op. cit., vol. II, p. 187 in nota.
[4] Id., Grosse kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, a cura di W. Hecht, J. Knopf, W. Mittenzwei, K. Delef-Müller, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1989-2000, 30 voll, vol. XX.1, p. 554.
[5] Ivi, p. 555.
[6] Id., Diario…op. cit., pp. 155-56.
[7] Prima ancora che nei suoi scritti teorici, Brecht ha dato una esemplare testimonianza di ciò nella sua produzione artistica. I due elementi essenziali di ogni opera, l’immagine e il pensiero, nei suoi lavori appaiono, infatti, inevitabilmente in contrasto, ognuno di essi sembra in grado di salvaguardare la propria esistenza solo contrapponendosi all’altro. Tutta la sua produzione è, così, attraversata e caratterizzata dalla profonda coscienza e dalla instancabile denuncia di questa dolorosa scissione, di questa piaga che tormenta il poeta, ma solo come manifestazione esemplare di quell’implacabile tormento che in maniera spesso incosciente travaglia ogni uomo moderno. Le sue opere non solo manifestano esemplarmente questa contraddizione, ma sono tutte intrise dal sentimento riflesso, dalla forza negativa di essa.