Brecht, Lukács e l’arte realistica

Tanto il realista quanto l’idealista offrono riproduzioni della realtà e pensieri. L’idealista tuttavia parte da un ideale di bellezza o da un ideale artistico, mentre il realista confronta continuamente gli ideali con la realtà e rettifica continuamente le immagini di quest’ultima.


Brecht, Lukács e l’arte realistica

La forza critica, di denuncia che la nuova arte dovrà possedere, dipenderà – secondo Bertolt Brecht – dalla capacità che dovrà avere di dare espressione sensibile alla dolorosa scissione caratteristica dell’uomo moderno, nel cui animo il sentimento poetico è messo alle strette, è esiliato dall’intelletto, dal senso della realtà, eppure non è spento, anzi quanto più è costretto tanto più emerge con forza. La tensione all’ideale che deve animare anche l’arte moderna non può, però, significare l’ingenua sottomissione a una certa idea di cui non si ha che un’oscura intuizione o il lasciarsi andare al dionisiaco vagheggiamento di una mistica unione con l’essere. L’artista non deve retrocedere di fronte alla necessità di superare la nostalgia, l’indeterminatezza, l’ineffabile della poetica neoromantica. Deve porsi virilmente di fronte all’ideale, considerarlo analiticamente, renderlo oggetto di riflessione, farne il tema stesso della sua opera, nello specifico della sua lirica e dei suoi drammi.

L’arte a parere di Brecht può continuare a esistere nel mondo moderno solo se non rinuncia più alla ricerca dell’ideale. Lo scrittore moderno non può più sottrarsi, col pretesto di patetiche quanto vane aspirazioni a un qualche passato mitico, alla coscienza critica dell’ideale, a quell’insuperabile scetticismo che lo rende poeta sentimentale e non più ingenuo. Non si tratta, però, di tornare all’ideale che avevano di mira le opere classiche, figlie di un’epoca in cui l’ideale era dato sensibilmente e, quindi, direttamente rappresentabile in immagine. Ora invece esso è revocato in dubbio, è sottratto e l’artista ha bisogno di costruirlo, di riedificarlo muovendo dalla propria soggettività, dal proprio sentimento dell’unità di senso.

In altri termini, l’arte moderna non può che essere riflessiva; l’ideale, infatti, non è più qualcosa di dato, di esterno all’opera e al suo orizzonte di senso, ma è qualcosa che va ricercato e al tempo stesso costruito al suo interno

Questo aspetto costruttivo dell’opera dipende proprio dalla peculiare situazione che si trova ad affrontare l’artista moderno rispetto all’antico. Per quest’ultimo, dotato ancora di una coscienza mitica e ingenua, era ancora plausibile, quando non accettata aprioristicamente, l’idea di un mondo invisibile che reggesse, informasse e garantisse l’insanabile contraddittorietà che affligge il sensibile. Questa certezza è, invece, per sempre negata all’artista moderno, condannato a errare senza meta e senza fine negli spazi infiniti della sua immaginazione alla ricerca di una qualche costruzione in grado di sostanziare, di dare un senso all’evidente mancanza di senso del mondo empirico. Egli ha di fronte un compito infinito, è destinato – ed è cosciente di questo suo implacabile destino – a dover cercare la soluzione a un enigma che non potrà mai risolvere del tutto, è condannato a non poter trovare nessuna costruzione in cui stabilmente riposare, in cui racchiudere in un tutto dotato di senso un reale in continua, insensata trasformazione. Immagina, certo, dei sensi possibili, ma è sempre cosciente che si tratta di costruzioni artificiali, provvisorie. In altri termini, se gli autori del mondo classico potevano trovare pace nella trasformazione dei frutti della loro immaginazione in uno stabile orizzonte veritativo, l’autore moderno è condannato, nella prigione che gli ha approntato la sua stessa coscienza necessariamente infelice, a un dilacerante nichilismo, alla artificialità delle sue costruzioni il cui senso sembra ormai garantito unicamente dalla soggettività creatrice.

Sebbene Brecht abbia spesso contrapposto all’interno della sua opera l’ideale alla miseria del reale presente, ciò non significa che egli lo abbia considerato come del tutto trascendente l’orizzonte umano, come una meta utopica il cui compimento è indefinitamente dilazionato. Per Brecht, al contrario, l’ideale è lo stesso reale; un reale, però, reso abitabile dall’uomo, spogliato della sua ostile indifferenza nei confronti dello spirito umano nel suo dispiegarsi storico

Quindi, l’ideale non può più essere considerato – come lo era almeno in parte nel mondo classico e certamente in quello neoclassico – qualcosa di dato, di esterno al mondo della storia e dell’opera, un canone a cui quest’ultima debba conformarsi. 

Sul piano estetico, allo stesso modo, Brecht si opponeva a quella concezione che pretendeva di far derivare dall’eredità culturale “degli obblighi e anzi non solo obblighi di natura qualitativa ma obblighi relativi a qualità ben precise” secondo una concezione in base alla quale “i criteri estetici vengono promossi al rango di grandezze fisse” [1].

L’ideale, quindi, a parere di Brecht, può essere trovato solo all’interno del reale con tutte le sue contraddizioni. Ciò, tuttavia, è possibile solo in virtù di un’operazione molto complessa che richiede diverse mediazioni da parte della soggettività, nello sforzo di ricostruire la “realtà”, di dargli forma nella sua coscienza come nella rappresentazione artistica.

Lo stesso contenuto di un’opera, infatti, non corrisponde semplicemente a una vicenda tratta dalla convivenza umana, così come essa potrebbe essersi svolta nella realtà, ma consiste piuttosto in un insieme di fatti opportunamente ordinati in cui si esprimono le idee sulla convivenza umana del loro inventore. Così i personaggi non sono semplici copie di persone vere, ma figure costruite e formate secondo certe idee [2]. 

Per Brecht, dunque, “tanto il realista quanto l’idealista offrono riproduzioni della realtà e pensieri. L’idealista tuttavia parte da un ideale di bellezza o da un ideale artistico, mentre il realista confronta continuamente gli ideali con la realtà e rettifica continuamente le immagini di quest’ultima” [3].

Contro la concezione naturalista dell’arte Brecht si è battuto a lungo, non solo nel suo tentativo di prendere le distanze dalla Neue Sachlichkeit, ma anche nella sua indiretta partecipazione al dibattito sul concetto di realismo sviluppatosi in particolare alla fine degli anni trenta. In questa nota querelle Brecht ha rovesciato le accuse di idealismo e formalismo rivolte dalla “cricca dei Moscoviti” alla sua opera e alla sua concezione dell’arte, alla sua poetica, mostrando come i veri idealisti, nel senso più deteriore del termine [5], fossero proprio i campioni del sedicente realismo socialista.

A parere di Brecht, a un’opera realistica deve corrispondere un tipo di rappresentazione che non si limiti a descrivere, a rispecchiare la realtà, ma che si ponga il compito di ricostruirla, di restituirla nel proprio orizzonte di senso. Il realismo, infatti, al pari dell’idealismo sviluppa elementi stilistici, al pari di ques’ultimo favorisce il formarsi di convinzioni, ma contemporaneamente si oppone sia alla stilizzazione, nel caso che con essa vada perduta la realtà, sia alle convinzioni che facciano a essa violenza (e questa opposizione costituisce la sua essenza). La rappresentazione artistica deve necessariamente contenere un elemento relativistico. Le sue descrizioni sono relativamente realistiche, se così si può dire, se cioè con questo si intende che essa “porta avanti” la realtà [6]. Per Brecht, in effetti, chi compie un’esperienza estetica non si occupa affatto di stabilire in che misura la rappresentazione artistica si accordi a una realtà nota in precedenza, né si occupa di stabilire la corrispondenza di essa con il rappresentato sulla base di un criterio fissato in anticipo.

Se il riconoscimento che l’immagine deve permettere è, dunque, possibile solo per il fatto che essa rinvia al di là di sé al suo contenuto, essa è in grado di preservare il suo carattere conoscitivo unicamente in virtù del surplus di senso che essa apporta a ciò che rappresenta. Il surplus di verità e, quindi, di conoscenza procurato dall’esperienza estetica dipende dalla possibilità che essa offre di ridefinire questo criterio, di estenderlo al di là dei suoi limiti precedenti. Come ha osservato a tal proposito Brecht: “l’opinione comune è che un’opera d’arte è tanto più realistica quanto più facilmente vi è riconoscibile la realtà. Ad essa io contrappongo la definizione che un’opera d’arte è tanto più realistica quanto più in essa appare riconoscibile il dominio esercitato sulla realtà. Il puro e semplice riconoscimento della realtà viene reso spesso più difficile da una rappresentazione che insegni a dominarla” [7].

Del resto, lo stesso orizzonte veritativo aperto dalla rappresentazione artistica è messo a repentaglio da una connaturata instabilità, in quanto la possibilità stessa del darsi del senso è sempre un compito che essa affida al libero arbitrio del suo fruitore. L’opera deve, infatti, fare in modo che quest’ultimo non si risolva totalmente in essa, ma che possa svolgere coscientemente il suo compito peculiare, che consiste, appunto, nel permettere al senso insito nell’opera di manifestarsi, di darsi compiutamente. Il sorprendente, lo spiazzante, persino l’incomprensibile divengono allora degli aspetti essenziali a cui l’opera non può rinunciare se intende rimettere in discussione il naturale orizzonte di senso in cui vive lo spettatore [8].

 

Note:

[1] Brecht, Bertolt, Arbeitsjournal, a cura di W. Hecht, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, 2 voll., tr. it. di B. Zagari, Diario di Lavoro, Einaudi, Torino 1976, p. 234.

[2] Cfr. Id., Scritti teatrali, 3 voll., a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 188.

[3] Id., Diario… op. cit., p. 189.

[4] Tale dibattito si è svolto principalmente sulle pagine della rivista degli esiliati tedeschi dalla Germania nazista Das Wort, pubblicata a Mosca. Brecht non vi prese direttamente parte, avendo deciso di non pubblicare i suoi scritti violentemente critici verso Lukács per non inclinare l’unità degli scrittori antifascisti. I più importanti contributi di Brecht si possono leggere, in traduzione italiana, in Id., Scritti sulla letteratura e sull’arte, tr.it. di B. Zagari, Einaudi, Torino 1973, pp. 167-246. Interessanti echi del dibattito si trovano nelle annotazioni del Diario di lavoro dell’anno 1938. Sulla polemica indiretta tra Brecht e Lukács intorno al concetto di realismo e, più in generale, sulla concezione dell’arte si veda: L. Baier, Streit um den schwarzen Kasten. Zur sogenannten Brecht-Lukács-Debatte, in Bertolt Brecht. Text+Kritik I, München 1972, pp. 37-44; P. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, Laterza, pp. 34-63, Bari 1970; W. Mittenzwei, Der Streit zwischen nichtaristotelischer und aristotelischer Kunstauffassung. Die Brecht-Lukács-Debatte, in a cura di W. Mittenzwei, Dialog und Kontroverse mit Georg Lukács, Reclam, Leipzig 1975, pp. 153-204. K. Völker, Brecht und Lukäcs Analyse einer Meinungsverschidenheit in “Kursbuch” n.7, Frankfurt a.M. 1966, pp. 80-101.

[5] Per comprendere in che senso Brecht utilizzi il termine idealismo si veda lo scritto Was meint der Satz ’Das wirtschaftliche Denken ist der Tod jedes völkischen Idealismus’? in Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a.M. 1967, 20 voll., pp. 174-75.

[6] Id, Diario… op. cit., p. 189.

[7] Ivi, p. 140. L’annotazione è estremamente interessante e vale la pena di riportarla per intero: “Lo zucchero dei nostri chimici non è più riconoscibile. Questo è certo un caso estremo, serve solo a indicare i (vasti) limiti. Comunque ciò su cui bisogna concentrare l’attenzione è se l’artista è un realista, cioè se quando scrive procede in maniera realistica, se fa prevalere la realtà su tutti i mascheramenti e gli inganni e se incide sul modo di agire reale del suo pubblico e non ci si deve arrestare alla forma e confrontare un’opera con l’altra basandosi solo sulla forma e tirare fuori a furia di distillazioni una forma realistica, questo è puro formalismo, anche nel caso che la forma in questione venga ricavata da un’opera realistica”. Ibidem.

[8] A questo proposito, ha scritto Brecht nel Kleines Organon: “ad evitare che il pubblico sia indotto a gettarsi nelle vicende come ci si getterebbe in un fiume, per lasciarsi trascinare alla deriva, i singoli avvenimenti devono essere collegati in modo che i nodi dell’azione diano nell’occhio. Gli avvenimenti non devono susseguirsi inavvertitamente, bisogna invece che lo spettatore possa intervenire col suo giudizio tra l’uno e l’altro. (Se invece fosse opportuno rappresentare l’oscurità dei rapporti causali, bisognerebbe convenientemente straniare proprio questa condizione). Si deve dunque accuratamente contrapporre tra loro le parti della trama, dando a ciascuna la sua propria struttura di dramma nel dramma”. Id., Scritti teatrali… op. cit., vol. II, p. 181.

La forza critica, di denuncia che la nuova arte dovrà possedere, dipenderà – secondo Bertolt Brecht – dalla capacità che dovrà avere di dare espressione sensibile alla dolorosa scissione caratteristica dell’uomo moderno, nel cui animo il sentimento poetico è messo alle strette, è esiliato dall’intelletto, dal senso della realtà, eppure non è spento, anzi quanto più è costretto tanto più emerge con forza. La tensione all’ideale che deve animare anche l’arte moderna non può, però, significare l’ingenua sottomissione a una certa idea di cui non si ha che un’oscura intuizione o il lasciarsi andare al dionisiaco vagheggiamento di una mistica unione con l’essere. L’artista non deve retrocedere di fronte alla necessità di superare la nostalgia, l’indeterminatezza, l’ineffabile della poetica neoromantica. Deve porsi virilmente di fronte all’ideale, considerarlo analiticamente, renderlo oggetto di riflessione, farne il tema stesso della sua opera, nello specifico della sua lirica e dei suoi drammi.

L’arte a parere di Brecht può continuare a esistere nel mondo moderno solo se non rinuncia più alla ricerca dell’ideale. Lo scrittore moderno non può più sottrarsi, col pretesto di patetiche quanto vane aspirazioni a un qualche passato mitico, alla coscienza critica dell’ideale, a quell’insuperabile scetticismo che lo rende poeta sentimentale e non più ingenuo. Non si tratta, però, di tornare all’ideale che avevano di mira le opere classiche, figlie di un’epoca in cui l’ideale era dato sensibilmente e, quindi, direttamente rappresentabile in immagine. Ora invece esso è revocato in dubbio, è sottratto e l’artista ha bisogno di costruirlo, di riedificarlo muovendo dalla propria soggettività, dal proprio sentimento dell’unità di senso.

In altri termini, l’arte moderna non può che essere riflessiva; l’ideale, infatti, non è più qualcosa di dato, di esterno all’opera e al suo orizzonte di senso, ma è qualcosa che va ricercato e al tempo stesso costruito al suo interno

Questo aspetto costruttivo dell’opera dipende proprio dalla peculiare situazione che si trova ad affrontare l’artista moderno rispetto all’antico. Per quest’ultimo, dotato ancora di una coscienza mitica e ingenua, era ancora plausibile, quando non accettata aprioristicamente, l’idea di un mondo invisibile che reggesse, informasse e garantisse l’insanabile contraddittorietà che affligge il sensibile. Questa certezza è, invece, per sempre negata all’artista moderno, condannato a errare senza meta e senza fine negli spazi infiniti della sua immaginazione alla ricerca di una qualche costruzione in grado di sostanziare, di dare un senso all’evidente mancanza di senso del mondo empirico. Egli ha di fronte un compito infinito, è destinato – ed è cosciente di questo suo implacabile destino – a dover cercare la soluzione a un enigma che non potrà mai risolvere del tutto, è condannato a non poter trovare nessuna costruzione in cui stabilmente riposare, in cui racchiudere in un tutto dotato di senso un reale in continua, insensata trasformazione. Immagina, certo, dei sensi possibili, ma è sempre cosciente che si tratta di costruzioni artificiali, provvisorie. In altri termini, se gli autori del mondo classico potevano trovare pace nella trasformazione dei frutti della loro immaginazione in uno stabile orizzonte veritativo, l’autore moderno è condannato, nella prigione che gli ha approntato la sua stessa coscienza necessariamente infelice, a un dilacerante nichilismo, alla artificialità delle sue costruzioni il cui senso sembra ormai garantito unicamente dalla soggettività creatrice.

Sebbene Brecht abbia spesso contrapposto all’interno della sua opera l’ideale alla miseria del reale presente, ciò non significa che egli lo abbia considerato come del tutto trascendente l’orizzonte umano, come una meta utopica il cui compimento è indefinitamente dilazionato. Per Brecht, al contrario, l’ideale è lo stesso reale; un reale, però, reso abitabile dall’uomo, spogliato della sua ostile indifferenza nei confronti dello spirito umano nel suo dispiegarsi storico

Quindi, l’ideale non può più essere considerato – come lo era almeno in parte nel mondo classico e certamente in quello neoclassico – qualcosa di dato, di esterno al mondo della storia e dell’opera, un canone a cui quest’ultima debba conformarsi. 

Sul piano estetico, allo stesso modo, Brecht si opponeva a quella concezione che pretendeva di far derivare dall’eredità culturale “degli obblighi e anzi non solo obblighi di natura qualitativa ma obblighi relativi a qualità ben precise” secondo una concezione in base alla quale “i criteri estetici vengono promossi al rango di grandezze fisse” [1].

L’ideale, quindi, a parere di Brecht, può essere trovato solo all’interno del reale con tutte le sue contraddizioni. Ciò, tuttavia, è possibile solo in virtù di un’operazione molto complessa che richiede diverse mediazioni da parte della soggettività, nello sforzo di ricostruire la “realtà”, di dargli forma nella sua coscienza come nella rappresentazione artistica.

Lo stesso contenuto di un’opera, infatti, non corrisponde semplicemente a una vicenda tratta dalla convivenza umana, così come essa potrebbe essersi svolta nella realtà, ma consiste piuttosto in un insieme di fatti opportunamente ordinati in cui si esprimono le idee sulla convivenza umana del loro inventore. Così i personaggi non sono semplici copie di persone vere, ma figure costruite e formate secondo certe idee [2]. 

Per Brecht, dunque, “tanto il realista quanto l’idealista offrono riproduzioni della realtà e pensieri. L’idealista tuttavia parte da un ideale di bellezza o da un ideale artistico, mentre il realista confronta continuamente gli ideali con la realtà e rettifica continuamente le immagini di quest’ultima” [3].

Contro la concezione naturalista dell’arte Brecht si è battuto a lungo, non solo nel suo tentativo di prendere le distanze dalla Neue Sachlichkeit, ma anche nella sua indiretta partecipazione al dibattito sul concetto di realismo sviluppatosi in particolare alla fine degli anni trenta. In questa nota querelle Brecht ha rovesciato le accuse di idealismo e formalismo rivolte dalla “cricca dei Moscoviti” alla sua opera e alla sua concezione dell’arte, alla sua poetica, mostrando come i veri idealisti, nel senso più deteriore del termine [5], fossero proprio i campioni del sedicente realismo socialista.

A parere di Brecht, a un’opera realistica deve corrispondere un tipo di rappresentazione che non si limiti a descrivere, a rispecchiare la realtà, ma che si ponga il compito di ricostruirla, di restituirla nel proprio orizzonte di senso. Il realismo, infatti, al pari dell’idealismo sviluppa elementi stilistici, al pari di ques’ultimo favorisce il formarsi di convinzioni, ma contemporaneamente si oppone sia alla stilizzazione, nel caso che con essa vada perduta la realtà, sia alle convinzioni che facciano a essa violenza (e questa opposizione costituisce la sua essenza). La rappresentazione artistica deve necessariamente contenere un elemento relativistico. Le sue descrizioni sono relativamente realistiche, se così si può dire, se cioè con questo si intende che essa “porta avanti” la realtà [6]. Per Brecht, in effetti, chi compie un’esperienza estetica non si occupa affatto di stabilire in che misura la rappresentazione artistica si accordi a una realtà nota in precedenza, né si occupa di stabilire la corrispondenza di essa con il rappresentato sulla base di un criterio fissato in anticipo.

Se il riconoscimento che l’immagine deve permettere è, dunque, possibile solo per il fatto che essa rinvia al di là di sé al suo contenuto, essa è in grado di preservare il suo carattere conoscitivo unicamente in virtù del surplus di senso che essa apporta a ciò che rappresenta. Il surplus di verità e, quindi, di conoscenza procurato dall’esperienza estetica dipende dalla possibilità che essa offre di ridefinire questo criterio, di estenderlo al di là dei suoi limiti precedenti. Come ha osservato a tal proposito Brecht: “l’opinione comune è che un’opera d’arte è tanto più realistica quanto più facilmente vi è riconoscibile la realtà. Ad essa io contrappongo la definizione che un’opera d’arte è tanto più realistica quanto più in essa appare riconoscibile il dominio esercitato sulla realtà. Il puro e semplice riconoscimento della realtà viene reso spesso più difficile da una rappresentazione che insegni a dominarla” [7].

Del resto, lo stesso orizzonte veritativo aperto dalla rappresentazione artistica è messo a repentaglio da una connaturata instabilità, in quanto la possibilità stessa del darsi del senso è sempre un compito che essa affida al libero arbitrio del suo fruitore. L’opera deve, infatti, fare in modo che quest’ultimo non si risolva totalmente in essa, ma che possa svolgere coscientemente il suo compito peculiare, che consiste, appunto, nel permettere al senso insito nell’opera di manifestarsi, di darsi compiutamente. Il sorprendente, lo spiazzante, persino l’incomprensibile divengono allora degli aspetti essenziali a cui l’opera non può rinunciare se intende rimettere in discussione il naturale orizzonte di senso in cui vive lo spettatore [8].

 

Note:

[1] Brecht, Bertolt, Arbeitsjournal, a cura di W. Hecht, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, 2 voll., tr. it. di B. Zagari, Diario di Lavoro, Einaudi, Torino 1976, p. 234.

[2] Cfr. Id., Scritti teatrali, 3 voll., a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1975, vol. II, p. 188.

[3] Id., Diario… op. cit., p. 189.

[4] Tale dibattito si è svolto principalmente sulle pagine della rivista degli esiliati tedeschi dalla Germania nazista Das Wort, pubblicata a Mosca. Brecht non vi prese direttamente parte, avendo deciso di non pubblicare i suoi scritti violentemente critici verso Lukács per non inclinare l’unità degli scrittori antifascisti. I più importanti contributi di Brecht si possono leggere, in traduzione italiana, in Id., Scritti sulla letteratura e sull’arte, tr.it. di B. Zagari, Einaudi, Torino 1973, pp. 167-246. Interessanti echi del dibattito si trovano nelle annotazioni del Diario di lavoro dell’anno 1938. Sulla polemica indiretta tra Brecht e Lukács intorno al concetto di realismo e, più in generale, sulla concezione dell’arte si veda: L. Baier, Streit um den schwarzen Kasten. Zur sogenannten Brecht-Lukács-Debatte, in Bertolt Brecht. Text+Kritik I, München 1972, pp. 37-44; P. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo, Laterza, pp. 34-63, Bari 1970; W. Mittenzwei, Der Streit zwischen nichtaristotelischer und aristotelischer Kunstauffassung. Die Brecht-Lukács-Debatte, in a cura di W. Mittenzwei, Dialog und Kontroverse mit Georg Lukács, Reclam, Leipzig 1975, pp. 153-204. K. Völker, Brecht und Lukäcs Analyse einer Meinungsverschidenheit in “Kursbuch” n.7, Frankfurt a.M. 1966, pp. 80-101.

[5] Per comprendere in che senso Brecht utilizzi il termine idealismo si veda lo scritto Was meint der Satz ’Das wirtschaftliche Denken ist der Tod jedes völkischen Idealismus’? in Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a.M. 1967, 20 voll., pp. 174-75.

[6] Id, Diario… op. cit., p. 189.

[7] Ivi, p. 140. L’annotazione è estremamente interessante e vale la pena di riportarla per intero: “Lo zucchero dei nostri chimici non è più riconoscibile. Questo è certo un caso estremo, serve solo a indicare i (vasti) limiti. Comunque ciò su cui bisogna concentrare l’attenzione è se l’artista è un realista, cioè se quando scrive procede in maniera realistica, se fa prevalere la realtà su tutti i mascheramenti e gli inganni e se incide sul modo di agire reale del suo pubblico e non ci si deve arrestare alla forma e confrontare un’opera con l’altra basandosi solo sulla forma e tirare fuori a furia di distillazioni una forma realistica, questo è puro formalismo, anche nel caso che la forma in questione venga ricavata da un’opera realistica”. Ibidem.

[8] A questo proposito, ha scritto Brecht nel Kleines Organon: “ad evitare che il pubblico sia indotto a gettarsi nelle vicende come ci si getterebbe in un fiume, per lasciarsi trascinare alla deriva, i singoli avvenimenti devono essere collegati in modo che i nodi dell’azione diano nell’occhio. Gli avvenimenti non devono susseguirsi inavvertitamente, bisogna invece che lo spettatore possa intervenire col suo giudizio tra l’uno e l’altro. (Se invece fosse opportuno rappresentare l’oscurità dei rapporti causali, bisognerebbe convenientemente straniare proprio questa condizione). Si deve dunque accuratamente contrapporre tra loro le parti della trama, dando a ciascuna la sua propria struttura di dramma nel dramma”. Id., Scritti teatrali… op. cit., vol. II, p. 181.

22/07/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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