No, io e Fabio non ci siamo mai conosciuti. Quella cosa che inizia con una stretta di mano e poi finisce dopo un viaggio in treno o dura un’intera vita. Io e Fabio ci siamo rivelati l’un l’altro attraverso lo sfogliare di un libro. Il suo. Conosco qualche dato biografico, grazie alla prefazione contenuta nella sua raccolta di racconti, “Un prato sconfinato”. Un insegnante. Un compagno. Nato nel 1957. Romano.
Ti immagino bambino mentre vedi il Carosello, che durante la mia infanzia era arrivato agli ultimi sussulti.
Sono sicuro che avrai mangiato i cremini qualche volta e ti sarai vestito da Zorro per carnevale. Avrai respirato gli stessi odori del mio tempo, anche se ci separano dodici anni. Ma allora tutto si muoveva più lentamente e il mondo di fratelli e cugini maggiori, non era poi tanto dissimile da quello dei più piccoli.
Non potrei essere qua a battere questi tasti in una città che sfida l’ombra del Vesuvio, se tu non avessi lasciato una scia di senso. Io mi attacco ad essa, percependola nel ricordo di chi quella mano te l’ha stretta ed ha condiviso la tua esistenza in gradi diversi. Tutto ciò mi fornisce una cornice in cui colloco i tuoi racconti.
Mi soffermerò solo su quello che dà il nome all’intera raccolta. Non certo perché gli altri – Gioia, Semaforo e il bellissimo Famiglia – non abbiano lasciato una medesima traccia profonda in me. È solo per permettere al manchevole strumento che sono di suonare, per quanto possibile, al suo meglio, che scelgo di concentrarmi su di una sola partitura.
Apprendo, dalla prefazione, che le parole che tu hai consegnato per sempre alla carta, erano avvolte dalla stessa discrezione con cui affrontavi le lotte a cui hai partecipato. Devo allora superare la solita barriera giudicante che mi sovrasta: chi sono io? Che diritto ho di parlare di uno di quei racconti? Ma forse la vera libertà è non sentirsi ancorati alla necessità di un perenne perdono. Allora scelgo di “sbagliare” e raggiungere il tuo prato sconfinato.
Oltre al Pasolini richiamato giustamente nella prefazione, il racconto che dà il nome alla raccolta mi porta alla mente uno sceneggiato tv che andò in onda all’inizio degli anni ’70 e che io ho avuto modo di vedere, grazie ad una sua replica. Si chiamava “Diario di un maestro”. Protagonista era un uomo che aveva da combattere contro le tendenze escludenti degli altri insegnanti e del preside. Quella scuola di periferia, grazie alla tenacia di quel maestro, perdeva le sue mura e diveniva un tutt’uno con la vita di ragazzi ingabbiati precocemente in una condizione di subordinazione sociale permanente.
Una condizione che parte dallo spezzettamento della coscienza collettiva di chi deve bruciare la propria esistenza al ritmo delle esigenze delle classi dominanti. Spezzettamento al quale si oppongono i ragazzi della borgata, protagonisti del tuo racconto, capaci persino di superare le consolidate rivalità, per costruire la consapevolezza di un destino comune, quello tracciato dai tratti di penna del Potere.
La maturazione graduale di questa coscienza collettiva, porta i ragazzi a scoprire la radicale differenza tra il non far niente e lo sciopero. Tra il lento morire, l’apatico sgocciolio di sé stessi imposto dall’ordine costituito, e la rottura causata dall’astensione dai compiti sociali assegnati.
Sul senso di appartenenza della banda, mutevole, basato su elementi esposti alla pura conservazione di sé stessi – Ognuno diffidava degli altri. Si era amici come possono esserlo dei reclusi dentro la stessa cella – si innesta l’apertura dello sguardo alle generali condizioni che traghettano i ragazzi nel mondo dei loro padri, in cui ad aspettarli vi è, nel migliore dei casi, la fabbrica, bramosa del ricambio di carne.
Ma l’acutezza del tuo sguardo, Fabio, coglie un altro aspetto: il conflitto dei figli è diverso da quello dei padri. Roberto torna a casa gioioso. È riuscito a toccare i punti sensibili giusti, per agevolare la trasformazione dei ragazzi di borgata. Ma il padre lo accoglie in malo modo. Il telegiornale trasmette la notizia dell’attentato di piazza Fontana. Nelle case operaie si percepisce il fetido alito della reazione, dietro la bomba. Non vi è nessun bisogno di conferme dotte.
Bisogna fermare l’avanzata inarrestabile del movimento operaio. Bisogna creare le condizioni idonee a legittimare un avvitamento autoritario. Nel papà di Roberto si condensa lo smarrimento di una classe che ha seguito fino a quel momento il solco di una conquista democratica di diritti e di migliori condizioni. Per l’asse della lotta, ci si è affidati al binomio partito/sindacato e alle sue parole d’ordine. Ma ora?
Il padre vede il figlio rientrare a casa sporco, incurante dei suoi doveri di studente, poco recettivo nel comprendere la strada di sacrifici tracciata dai suoi sforzi, sia come lavoratore, sia come parte di una forza politica organizzata. Le sue “mani massicce e austere come sassi”, scattano allora nella loro prima percossa verso il viso del figlio.
Nell’incapacità del padre di percepire il cambiamento avvenuto in Roberto e il suo riuscito tentativo di socializzarne la portata, si legge in controluce la distanza che caratterizzerà le due generazioni nel nuovo decennio. Quanti di quei ragazzi alle prese con il primo atto di insubordinazione collettivo narrato nel racconto, avranno l’età giusta per trovarsi nei settanta a militare nel movimento che metterà in discussione il progressivo incardinarsi del partito e del sindacato, nella stanza dei bottoni?
Ci sembra di vederli, il Roscio, il Pelato, il Breccola, nei cortei, nelle forme autorganizzate di potere. Ci sembra di sentirli scorrere in quel flusso che andò come nessuno mai vicino all’assalto al cielo, in Italia come altrove, e mettere in discussione le fondamenta stesse del sistema basato sullo sfruttamento. Ci sembra di scorgerli in qualche foto bianco e nero, tra i ragazzi che non hanno alcuna voglia di fumare il calumet della pace con Lama, venuto alla Sapienza per “ricondurre” il conflitto nell’ambito delle compatibilità di sistema.
Tutto questo avviene nella vita breve di un racconto, che non può avvalersi della longevità di un romanzo.
È solo grazie ad una condensata intensità, che un racconto può esprimere significati che finiscono con il superare, forse, persino le intenzioni di chi lo scrive. Ed è quello che accade con il tuo “Un Prato sconfinato”, Fabio. Un prato che, da luogo di contese tribali, che non disturbano il Manovratore, diviene luogo di nascita di nuove consapevolezze, ben più minacciose per il potere della classe dominante.
Un prato sconfinato, che non accetta di essere relegato ai margini e risale la china di divisioni imposte. Un prato sconfinato, che abbatte lo spazio e il tempo, arrivando a toccare universi interiori diversi da chi l’ha concepito.
Un prato sconfinato, dove io ho potuto stendermi e guardare il cielo, quello in cui “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti”. Accanto a me vi era un compagno. Un compagno che non ho mai conosciuto, almeno a dar retta a quella cosa che inizia con una stretta di mano e poi finisce dopo un viaggio in treno o dura un’intera vita.