Un’analisi della Rivoluzione d’Ottobre
Samir Amin è uno studioso marxista riconosciuto a livello mondiale. Le sue analisi, che siano dell’economia, della storia o della politica internazionale, sono sempre puntuali e senza remore. È così anche questa volta: la Rivoluzione d’Ottobre viene analizzata senza alcuna riverenza o nostalgia.
Per Amin “le grandi rivoluzioni fanno la storia”, e la Rivoluzione d’Ottobre è una delle tre grandi rivoluzioni della storia moderna, insieme a quella francese e a quella cinese. Come tutte le rivoluzioni, anche questa ha precorso i tempi, con un progetto che era ben avanti rispetto al proprio tempo. E come le altre rivoluzioni, proprio per questo è stata frenata e non sempre compresa dai contemporanei, ma al contempo è una luce che servirà da guida nel presente e nel futuro.
Una volta affermata la portata storica della Rivoluzione, il libro ne analizza i punti deboli, quelli che hanno portato alla fine dell’esperienza sovietica. Amin ritiene che l’Urss sia stata un’esperienza socialista fino alla fine di Stalin, per poi cambiare di natura negli anni successivi. In particolare vede, nella fine dello stalinismo e nelle risposte che ad esso vengono date, le radici della fine dell’esperienza sovietica, e, al contempo, il successo della Rivoluzione Cinese. Amin ritiene che fossero allora possibili due strade: quella proposta da Chruščёv e quella proposta da Mao. La prima, che lui qualifica come di destra, rompendo con la pianificazione, aprirà la strada che porterà alla dissoluzione dell’Urss. In particolare comincerà la tendenza alla regionalizzazione e all’autonomia delle varie imprese, insieme con le prime liberalizzazioni, i cui effetti si faranno sentire anche all’interno del Pcus, che secondo l’autore perderà la propria natura rivoluzionaria per essere composto sempre più da una nuova borghesia, che con Gorbačёv e con El’cin si libererà anche della simbologia socialista. Nulla però a che vedere con le teorie trockiste, che vengono più volte criticate nel corso di tutto il libro. Le alternative c’erano: si poteva migliorare la pianificazione attraverso i nuovi strumenti, oppure lasciare maggiore spazio al mercato (come ha fatto la Cina). L’alternativa di sinistra alla fine dello stalinismo è rappresentata da Mao, il cui merito principale, per Amin, è quello di non avere rotto l’alleanza tra operai e contadini che è alla base delle due rivoluzioni: a differenza che in Cina, in Urss i contadini vengono sacrificati dalla scelta dell’industrializzazione (a sua volta necessaria a causa delle minacce dell’imperialismo).
Quest’analisi non cade però nell’errore di qualificare l’Urss come paese a capitalismo di stato o addirittura imperialistico. Come ricorda Amin, le relazioni economiche in Urss erano ben diverse da quelle vigenti nelle economie capitalistiche: oltre a una grande mobilità sociale a favore dei ceti più bassi, non si assisteva ad una concentrazione dei capitali, che al contrario fluivano dal centro più sviluppato (la Russia) verso le Repubbliche più arretrate. Non vengono dimenticati anche altri meriti della Rivoluzione d’Ottobre e di quella cinese, che le porta ad essere, come detto prima, di portata storica anche per i secoli a venire. Infatti sulla scia dell’Ottobre sovietico, molti paesi coloniali iniziano la propria lotta per l’indipendenza.
Limiti dei tentativi rivoluzionari nel centro imperialistico e delle esperienze post-coloniali
La Rivoluzione d’Ottobre è stata di grande ispirazione per i popoli di tutto il mondo, tanto nel centro che nella periferia. Proprio per questo Amin analizza i limiti e gli insuccessi dei tentativi rivoluzionari in queste due aree.
Infatti, al contrario di quello che si aspettavano molti rivoluzionari, tra cui Trotckij, non solo la rivoluzione non comincia nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ma, dopo l’Ottobre, non si diffonde nemmeno, costringendo l’Urss a un difficile cammino da paese arretrato a potenza industriale. Le ragioni sono molteplici e Amin le analizza una per una, cercando i punti deboli e le possibili opportunità rivoluzionarie in ciascuna delle principali aree del mondo imperialista.
Al contempo, va notato che molti stati nati dalla fine del colonialismo non sono riusciti a mantenere le promesse emancipatorie che ne erano alla base. La ragione, per Amin, sta nel non aver riconosciuto la necessità del socialismo per il compimento della lotta per l’indipendenza e l’autonomia. Molti paesi, infatti, dopo aver ottenuto l’indipendenza, hanno pensato di creare un capitalismo a base nazionale, che copiasse quello occidentale e che permettesse di colmare il ritardo. Gli esiti sono stati disastrosi e hanno portato a una nuova sottomissione di questi paesi ai centri imperialisti.
Un’analisi marxista del presente e delle sfide future
L’analisi di Amin passa poi al pensiero marxiano, in particolare a quello del Capitale, per trovare gli strumenti ancora validi per un’analisi dell’oggi. In particolare, Amin vede nella tendenza alla concentrazione ed alla centralizzazione del capitale la chiave per leggere il mondo odierno. Questo fenomeno crea una forte polarizzazione, tanto all’interno dei vari paesi, quanto sul piano internazionale. In Europa e negli Stati Uniti questo causa la fine delle conquiste del dopoguerra e lo svuotamento della democrazia, che rimane un processo formale sotto il controllo delle oligarchie economiche che controllano tanto i partiti quanti i generatori di consenso. Questo processo porta Amin ad aspettarsi una rinascita del fascismo in Occidente. La centralizzazione dei capitali fa si che l’Occidente sia ostile a qualsiasi progetto di mondo multipolare. Anzi, vista l’estrema povertà delle periferie causata dalla concentrazione della ricchezza nei centri imperialisti, l’unico modo di gestione delle periferie stesse è il sostegno a dittature locali e l’attacco a qualsiasi tentativo di sviluppo autonomo dei paesi del sud del mondo.
Per questo è necessario che i paesi appartenenti alla periferia lavorino insieme per un mondo multipolare, necessario per qualsiasi forma di sovranità nazionale e di progetto di sviluppo alternativo al liberismo occidentale. Per fare questo è necessario che questi paesi si sgancino dalla globalizzazione ed elaborino un progetto alternativo basato sulla solidarietà e non sulla competizione. La sovranità dei paesi del sud non ha niente a che fare con il nazionalismo borghese. Proprio la sottomissione della borghesia compradora, prona al trasferimento di ricchezza verso i centri capitalisti, può dare luogo all’alleanza tra la borghesia nazionale con i lavoratori per portare a compimento il progetto di sovranità e di sganciamento dalla globalizzazione imperialista. Proprio per questo, per costruire un mondo multipolare che inverta il processo di concentrazione della ricchezza e crei le possibilità di costruire percorsi di sviluppo autonomo per i paesi del Sud, la priorità è oggi quella di contrastare l’unico progetto egemonico mondiale, quello statunitense.
Questo a grandi linee il contenuto di un libro tanto breve quanto denso, che percorre tutto il tempo che ci separa dalla Rivoluzione d’Ottobre gettando uno sguardo sugli effetti, oggi poco visibili, che questa Rivoluzione continua ad avere. Amin lo fa con estrema lucidità, tralasciando particolari secondari, per concentrarsi sulle grandi tendenze storiche scaturite dalla Rivoluzione sovietica e da quella cinese, così come dalla reazione ad esse.
In alcuni punti la sua analisi è eccessivamente severa (come sulla natura dello stato sovietico, su cui sarebbero necessarie analisi più approfondite), in altri è forse troppo sbrigativa (l’idea della triade imperialista rischia di offuscare il ruolo tutt’ora preponderante svolto dall’imperialismo statunitense), ma resta un libro illuminante tanto sul passato quanto sulle prospettive future.