Il film Roma del messicano Alfonso Cuarón, nonostante sia stato prodotto e distribuito da netflix, ha vinto il leone d’oro all’ultimo festival di Venezia, è candidato, addirittura favorito, come miglior film straniero ai premi oscar ed è stato in genere osannato dalla critica. Il che vuol dire tutto e niente, visto che la cosiddetta critica è in genere espressione dell’ideologia dominante essenzialmente postmoderna. Da questo punto di vista, abbiamo un’ulteriore riprova del fatto che buona parte dei “grandi” registi messicani appaiono subordinati all’ideologia dominante nelle sue due principali varianti: la statunitense e l’europea. Anche per questo appaiono, nella maggior parte dei casi, estranei alle problematiche reali del loro stesso popolo. Mentre, fanno di tutto per sentirsi parte integrante dell’intellighenzia tradizionale e cosmopolita che esprime un’apologia indiretta della società capitalista, sforzandosi di mostrare come non esistano reali alternative preferibili. Così i loro film sono in generale manieristici e scolastici, ad esempio il film Roma è girato alla maniera del cinema d’autore degli anni sessanta europeo e giapponese. Perciò i contenuti affrontati sono delle mere occasioni per mettere in luce la propria vena formalistica. Si tratta, in altri termini, di film che non hanno sostanzialmente nulla o quasi da dire, che si esprimono con un linguaggio volutamente elitario, destinano essenzialmente agli addetti ai lavori e ai cinefili.
Del resto, l’abisso che separa il Messico proletario e sottoproletario dalla classe dominante è marcato anche razzialmente nel film, dove abbiamo una élite “bianca”, di origine e cultura occidentale, che rappresenta il popolo dei signori, e delle masse popolari di origine indigena ancora al servizio dei discendenti degli antichi padroni colonizzatori. La scelta di far raccontare la storia della propria famiglia dal punto di vista della “serva” nativa è un mero espediente, in quanto tale punto di vista è in realtà messo in scena dalla prospettiva opposta e incapace di reale dialogo con il proprio altro del regista chiaramente in rappresentanza del popolo dei signori, cui il film si rivolge in modo esclusivo. Nessun “servo” nativo e, più in generale, nessun lavoratore manuale presumibilmente tollererebbe questo insistito e generalmente fine a se stesso manierismo e formalismo.
Perciò il subalterno ci è presentato in modo “orientalistico”, ovvero secondo lo stereotipo in cui intende circoscriverlo il punto di vista “superiore” del padrone “bianco”, che si degna di considerarlo con il suo sguardo paternalistico e autocompiaciuto da nipotino di padre Bresciani.
Con tale espediente di assumere fittiziamente la prospettiva altra dei subalterni, il sostanziale disinteresse del popolo dei padroni per il mondo storico, politico, sociale ed economico, in quanto la loro ideologia è tutta rivolta a eternizzare gli attuali rapporti di produzione e proprietà – per quanto irrazionali, razzisti e reazionari possano essere – viene messo sul conto del “naturale” limite del servo che vive, al di fuori del grande mondo storico e politico, la sua “piccola storia ignobile”. Così l’ambientazione del film, in un momento cruciale della storia del paese e più in generale del mondo, fra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta, ossia quando i movimenti antimperialisti avevano raggiunto il loro apice – cui sarebbe seguita la violentissima reazione delle forze conservatrici e reazionarie – viene ricostruita unicamente dal punto di vista formalistico, di un film fatto alla maniera del cinema d’autore di quegli anni e nell’assurda cura filologica volta alla ricostruzione quasi maniacale del “piccolo mondo antico” in cui si è svolta l’infanzia del regista.
Evidentemente in un tale contesto, per quanto ovattato e anestetizzato, la grande storia, tenuta per quanto possibile fuori della porta, non può alla fine che rientrare dalla finestra. Ne odiamo prima gli echi – per quanto posti decisamente in secondo piano, sullo sfondo, quasi un disturbo prodotto dall’emergere dell’inconscio di contro a un io collettivo dominante che ha fatto di tutto per rimuoverlo – nelle marcette militaresche, nei conflitti fra i grandi proprietari creoli e i campesinos, nella funzione di classe del governo, che espropria i poverissimi contadini autoctoni e organizza il consenso e la repressione, addestrando militarmente il sottoproletariato, la plebe incanaglita dalla miseria e ignoranza in cui è costretta a vivere. La rabbia sociale di quest’ultima, del tutto astratta e indeterminata, pura espressione della pulsione di morte che si scarica all’esterno, viene strumentalizzata dal potere costituito per reprimere un movimento rivoluzionario, apparentemente di massa, ma in fondo debole in quanto essenzialmente composto da studenti.
In tal modo dal rimosso della cattiva coscienza di chi si è autoassolto – pur rimanendo naturalmente coinvolto del terrore bianco che ha impedito che i propri privilegi secolari fossero messi seriamente in questione – il conflitto sociale appare non solo sfuocato, ma capovolto. A rappresentare le forze rivoluzionarie, progressiste, del cambiamento, vediamo infatti giovani studenti, quasi tutti espressione del popolo dei signori, mentre la repressione non appare condotta dagli apparati classisti dello Stato, ma opera dei “subumani” che popolano le favelas. Quindi una ripresa della posizione reazionaria di sinistra di Pasolini, per cui nel sessantotto i veri proletari sarebbero stati gli agenti degli apparati repressivi dello Stato, mentre gli studenti avrebbero rappresentato le classi privilegiate.
Tanto più che su questo sfondo, per quanto confusamente classista, si erge la rappresentazione interclassista della solidarietà di genere, per cui la padrona bianca, anch’essa abbandonata dal proprio uomo, si prende cura della domestica sedotta e abbandonata. In tal modo lo stesso significato di classe dell’oppressione della donna viene lasciato sullo sfondo.
Bisogna infine considerare il punto di vista del tutto irresponsabile da cui si fa narrare la grande storia all’interno del film, ovvero dal punto di vista del cameriere, che coglie unicamente gli aspetti inessenziali, soggettivi degli eventi, perdendo di vista il significato universale di ciò che avviene. In tal modo i grandi eventi tragici del corso storico sono decontestualizzati, resta solamente il banco grondante di sangue del macellaio. A passare così del tutto sottotraccia è l’astuzia della ragione che costituisce l’elemento catartico delle grandi tragedie storiche. Per cui anche i movimenti rivoluzionari schiacciati nel sangue costituiscono dei passaggi importanti della lotta per l’emancipazione dell’umanità, dal momento che l’unica battaglia veramente persa è quella che non si è combattuta.
Appare così quanto sia fuorviante la tendenza dell’ideologia contemporanea a porre al centro della “narrazione” le mere vittime del processo storico, pretendendo di farne emergere da esse il senso nascosto, assumendone il punto di vista. Come se le classi subalterne e oppresse, le vere vittime “innocenti” fossero in grado di una comprensione più profonda o comunque altra rispetto a quella dell’ideologia dominante. Come se il vero oppositore potesse essere il radicalmente altro, l’umiliato e offeso, la plebe sempre all’opera china senza ideali in cui sperar.
Essendo priva di coscienza di classe la plebe non può che subire passivamente l’ideologia dominante e, così, a essere narrata continua a essere sempre e soltanto la storia dei vincitori. Per cui si trasmette l’opinione che chi si occupa attivamente di questioni storiche e politiche, non solo non è in grado di cambiare realmente nulla, non solo non è capace nemmeno di alleviare la situazione di oppressione dei ceti subalterni, finendo unicamente con il peggiorare le cose suscitando la “naturale” repressione dei gruppi sociali dominanti.
Da questo punto di vista decisamente migliore è la rappresentazione dei grandi movimenti di massa a cavallo fra gli anni sessanta e gli anni settanta che emerge dal bel documentario Ora e sempre riprendiamoci la vita di Silvano Agosti. Non a caso il film è girato da un regista che ha preso parte attivamente al movimento e se ne sente tutt’ora coinvolto, al contrario del regista di Roma Cuarón, che appare un osservatore distante e distaccato, incapace di comprendere ciò che avviene ed è avvenuto. Nel film di Agosti, già nel titolo, vi è l’importanza decisiva che hanno nello sviluppo del corso del mondo i grandi movimenti di emancipazione, come quello sviluppatosi a livello internazionale fra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta. Si comprende così come anche questi movimenti, queste grandi lotte, anche quando sembrano essere state sconfitte – in quanto non sono state in grado di realizzare i propri grandi ideali – nonostante la repressione che hanno suscitato da parte delle forze conservatrici e reazionarie dello Stato, hanno permesso ai subalterni di riprendere la parola, sviluppando una visione del mondo realmente alternativa a quella dominante. In tal modo, chi ha partecipato a tale movimento è divenuto – almeno fintanto che è durato – protagonista del proprio destino e ha svolto un ruolo attivo e determinante nel corso del mondo. Proprio perché non è rimasto una mera vittima passiva degli eventi, del tutto ripiegato sulla propria miseria esistenziale, ma è insorto sulla base di grandi ambizioni, divenendo parte attiva di quella grande lotta, motore di tutta la storia umana, fra le forze che mirano all’emancipazione e quelle che, al contrario, si battono per la de-emancipazione.
Il limite principale del film di Agosti, che lo rende una grande occasione sprecata, è che tale avvincente storia è essenzialmente narrata da ex rivoluzionari che – per quanto almeno nel ricordarla non appaiono pentiti, anzi la ripercorrono con una reale e sentita nostalgia – sono oggi stati compiutamente riassorbiti dall’ideologia dominante. Tanto che nel film il regista mette subito le mani avanti, per sottolineare di essere saltato anche lui per tempo sul carro dei “vincitori”, ripresentandoci in modo idealistico la prospettiva della mera vittima innocente che condanna quel grande movimento a un passato destinato a non influenzare più l’attuale epoca di restaurazione, in quanto si sottolinea non solo la sconfitta di quella lotta, ma si aggiunge – nella nuova prospettiva che si è assunta di subalternità all’ideologia dominante – un deprimente “io continuo a dire abbiamo perso… per fortuna!”.