Recensioni di classe 39

Recensioni di classe a serie tv, miniserie e film recenti da vedere o da evitare


Recensioni di classe 39 Credits: https://www.serialminds.com/2021/07/16/the-white-lotus-hbo-serie-sky-atlantic/

The White Lotus è una miniserie televisiva statunitense creata, sceneggiata e diretta da Mike White, in Italia è distribuita dal canale satellitare Sky Atlantic. Voto: 7-. The White Lotus è la miniserie che ha ottenuto il maggior numero di candidature agli Emmy Awards 2022. Per quanto la serie sia decisamente ben fatta e metta in scena una critica estremamente realistica e salutare del terrificante mondo dei resort di lusso e dei plutocrati che lo popolano, The White Lotus occulta completamente che l’unico reale movente della Storia è il conflitto sociale. Perciò la serie è certamente meno significativa, riuscita, convincente e coinvolgente di Dopesick - Dichiarazione di dipendenza che, non a caso, ha ricevuto un numero di nomination inferiore, in quanto è un’opera decisamente più di lodevole rottura con l’industria culturale.

Già nel secondo episodio il tono minimal della serie mostra il fiato corto e The White Lotus diviene alquanto noiosa e ripetitiva. L’analisi al vetriolo degli ospiti del resort di lusso finisce con il divenire grottesca e sostanzialmente fine a se stessa, non essendo naturalmente presente nessuna prospettiva di superamento dell’esistente. Nel terzo episodio la serie prende un crinale sempre più pericoloso, portando alle estreme conseguenze la critica sociale dei ricchi consumatori di un resort di lusso, e rischia costantemente di precipitare in quel rimestare nel torbido, caratteristico di troppo cinema italiano, in cui tutte le vacche appaiono nere. Nel quarto e nel quinto episodio la serie riprende quota, approfondendo in modo realistico e decisamente critico alcuni personaggi tipici della classe dominante e delle classi sociali che sono parte del blocco sociale al potere o sono da quest’ultimo egemonizzati. Colpisce positivamente l’abile utilizzo da parte degli attori dell’effetto di straniamento, in ciò aiutati da regia e sceneggiatura che impediscono al pubblico di impersonarsi nei personaggi messi in scena, favorendone una comprensione riflessiva e un’attitudine critica dello spettatore. Particolarmente interessanti sono le osservazioni presenti nel quinto episodio sull’imperialismo. Il difetto principale della serie resta, come generalmente avviene, la sostanziale assenza di un personaggio positivo che possa indicare quantomeno la possibilità di una catarsi, di una prospettiva di superamento dialettico dell’esistente. La carenza di principio speranza e di spirito dell’utopia finisce con il favorire l’affermarsi della tenebra dell’immediato. L’ultimo episodio, al di là del colpo di scena alquanto prevedibile, si mantiene in linea con il resto della serie. Si conferma l’implacabile critica, sostanzialmente ineccepibile, ai ricchissimi clienti del resort e anche al personale in larga parte servile. Mentre, come prevedibile, la catarsi, per quanto comunque almeno in parte contemplata, risulta decisamente insufficiente e, quindi, insoddisfacente. Certo, considerate le premesse, un dolce fine hollywoodiano sarebbe risultato del tutto fuori luogo, d’altra parte si paga il non aver offerto nessuna sostanziale alternativa al tragico panorama dell’esistente.

Genius: Aretha, miniserie, di National Geographic trasmessa in Italia da Disney plus, dedicata ad Aretha Franklin, voto: 6. Discreta miniserie che racconta la vita per certi aspetti tipica della cantante afroamericana; Aretha ha l’impostazione naturalista tipica dei prodotti dell’industria cinematografica a stelle e strisce, con tutti i suoi pregi e limiti. L’idea del Genius è decisamente borghese, come piccolo borghese è la storia della lotta della cantante per abbandonare il Jazz per conquistarsi fama e soldi attraverso il pop. Nella cosiddetta musica popular e nelle canzoni di successo della Franklin ritroviamo tutta l’ambiguità del termine popolare per come viene utilizzato dall’ideologia dominante, per connotare una merce sostanzialmente gastronomica spacciata dall’industria culturale. Per quanto si tratti di un'impresa capitalistica nella sua fase di decomposizione, si tratta della più importante e dominante industria culturale, con tutti i suoi pregi e limiti. La serie è mediamente interessante in quanto intreccia alcune questioni storiche sostanziali con una vicenda particolare, anche se non propriamente tipica. D’altra parte gli autori della serie evitano eccessi di ideologia postmoderna che la indebolirebbero come merce destinata a un ampio pubblico. Ciò fa sì che diversi temi significativi siano affrontati con una certa verosimiglianza e ciò consente altresì di far emergere diverse contraddizioni reali che rendono così interessante l’analisi della realtà. Abbiamo innanzitutto la questione centrale per l’artista di discernere sino a che punto ci si può spingere per raggiungere il successo e rivolgersi a un grande pubblico scendendo a patti con le dinamiche dell’industria culturale. Abbiamo poi la questione del rapporto dell’artista di successo con le grandi dinamiche del mondo storico e sociale del proprio tempo. In entrambi i casi si tratta di temi di indubbio spessore, anche se la soluzione che ci viene proposta - in modo adialettico e sostanzialmente agiografico dal punto di vista della protagonista - appare non all’altezza della posta in gioco. Certo nel secondo caso, sopra evidenziato, la serie si anima in quanto la realtà con cui si deve confrontare la ormai celebre cantante è il grande sviluppo, alla fine degli anni Sessanta, del movimento per l’emancipazione, in primo luogo degli afroamericani. Tale tematica incrocia, peraltro, anche la prima, in quanto Aretha Franklin nel momento in cui decide di partecipare attivamente alle lotte politiche e sociali è costretta a sacrificare il tempo dedicato all’industria culturale, da cui deriva il suo successo e la possibilità di poter raggiungere un ampio pubblico. Appare, inoltre la difficoltà oggettiva – già presente nella figura del padre quale intellettuale religioso afroamericano di successo – di trovare un accordo fra il prender parte alla lotta per l’emancipazione di una minoranza, particolarmente martoriata, di cui si è parte e l’esigenza di difendere i privilegi acquisiti, anche grazie a una brillante carriera, dinanzi alla lotta anche violenta di quella che ci viene presentata come una moderna plebe. Da qui il sostegno dato alla battaglia per i diritti civili, portata avanti da Martin Luther King attraverso la non violenza e la religione, in cui si mescolano anche inconsapevolmente posizioni opportuniste e revisioniste da una parte e progressiste dall’altra. La serie sfiora anche la tragedia del movimento di emancipazione degli afroamericani con le sue contraddizioni interne, dovute alla prospettiva tutto sommato reazionaria del ritorno in Africa e all’avventurismo della sfida allo Stato imperialista dal punto di vista militare, necessariamente suicida. Emerge anche lo sfruttamento da parte dell’industria culturale dei suoi dipendenti, soprattutto se donne e afroamericane. Infine, emerge l’emancipazione di Aretha dal suo marito-protettore, ma anche da una partecipazione alla politica attiva che metterebbe in questione la sua prospettiva di carriera nella società civile. Infine, emergono le contraddizioni dei predicatori afroamericani, nei quali si mescolano lotta per l’emancipazione del “proprio popolo”, oppio per il popolo, maschilismo e ipocrisia. All’inizio degli anni Settanta vi è finalmente una svolta in senso radicale, anche se permane nella protagonista la consueta ambiguità in quanto questa fase è segnata dalla relazione sentimentale con un imprenditore di “sinistra” ed è legata alla voglia di emergere della cantante nella società civile. Interessante come l’impegno “politico” porti Aretha Franklin a smettere di bere alcolici, dei quali era divenuta dipendente. Tale dipendenza era peraltro sfruttata dall’industria culturale per meglio tenerla sotto controllo. Gli ultimi due episodi risultano penosi e segnano il progressivo declino della cantante che procede di pari passo con la fine dei grandi movimenti sociali sviluppatesi nella seconda metà degli anni Sessanta e nella prima metà degli anni Settanta. Così negli anni Ottanta la smania del successo porta la cantante a vendersi compiutamente non solo all’industria culturale, ma alla cricca mafiosa e di estrema destra di Las Vegas, contribuendo con la sua produzione di disco music al diffondersi dell’idiozia nella musica. Naturalmente nell’impianto naturalista della serie non vi è traccia né di una critica sociale, né di una critica storica e culturale, ma si mira esclusivamente a dimostrare l’assioma, presupposto sin dal titolo, del genio.

Elvis di Baz Luhrmann, biografico, Stati Uniti e Australia 2022, voto: 6; solito polpettone di discreta qualità dell’industria culturale, volto a rilanciare il sogno americano e a mettere in scena, in modo apologetico, alcuni dei personaggi più esecrabili dello star system a stelle strisce. Nel caso specifico abbiamo come sostanziale protagonista un personaggio che avrebbe impresso una svolta ulteriormente reazionaria al ruolo di manager implementando lo sfruttamento dei suoi assistiti e lavorando in modo sostanzialmente diretto al servizio della malavita organizzata. Tale allucinante personaggio viene al solito presentato, pur non potendo occultare del tutto le sue colpe per cui è stato pubblicamente condannato, come un grande protagonista del sogno americano in quanto da oscuro immigrato clandestino era diventato un manager apparentemente potentissimo. In realtà rimaneva vulnerabilissimo in quanto, per la sua smodata avidità e passione per il gioco d’azzardo, era diventato una marionetta dei poteri forti e della malavita organizzata. Tanto che aveva sfruttato in modo così smodato la sua gallina dalle uova d’oro, che ne provocherà la morte prematura ad appena quarantadue anni, dopo aver reso Elvis Presley il fantasma di se stesso, rendendolo totalmente schiavo degli stupefacenti. Il film avrebbe potuto essere un perfetto esempio di fascismo quotidiano, se avesse avuto il coraggio di mostrare come perseguendo esclusivamente i propri interessi particolari, con tutti i mezzi necessari, non solo si diviene di fatto dei criminali, ma si distrugge se stessi e la propria famiglia senza poter mai essere felici. Di tutto ciò, naturalmente, non c’è traccia nel film anche perché come generalmente avviene si rimane inchiodati al sistema Stanislavskij, cioè alla completa e acritica identificazione degli attori e dell’intera troupe nei personaggi, per quanto meschini ed esecrabili, che si intende mettere in scena. Mattatore nel film di questo ormai completamente superato e inaccettabile metodo di recitazione è Tom Hanks che ha il grande demerito di far di tutto per far incarnare lo spettatore in un personaggio di uno squallore davvero straordinario. Quest’ultimo viene presentato come un epico genio del male, tanto da essere costantemente messo a confronto con gli eccezionali personaggi negativi interpretati da Orson Welles, senza rendersi conto di quanto il paragone fosse del tutto fuori luogo, tanto che la tragedia non poteva che scadere nella farsa. Ancora più esecrabile è la scelta di assumere come punto di vista per raccontare una, in realtà, piccola storia ignobile, il punto di vista più reazionario e particolarista. Senza contare che al solito la totale mancanza del benché minimo pensiero critico, porta gli artefici del film a sentirsi dei grandi artisti e a prolungare oltre i limiti dell’umana sopportazione un plot alquanto scadente. A rendere comunque tollerabile il film è l’essere un prodotto di quella terrificante industria monopolistica culturale che dovendo imporre i suoi prodotti al grande pubblico non può ricorrere a quei formalismi ideologici reazionari cari al pensiero debole postmoderno, di cui sono sovraccarichi i sottoprodotti sedicenti d’autore, tanto cari agli a-critici della a-sinistra (imperialista).

L’assistente di volo, The Flight Attendant, è una serie televisiva statunitense basata sull'omonimo romanzo del 2018 di Chris Bohjalian. Vede come protagonista Kaley Cuoco; in Italia questa seconda stagione è distribuita sul canale satellitare Sky Serie, voto: 3; lo sfondo della serie è a dir poco rivoltante, la protagonista, senza nessuno scrupolo o rimorso, lavora part-time e sostanzialmente con lavoro a chiamata per la Cia, per la quale svolge non solo lavori naturalmente sporchi, ma eccede costantemente dal suo ruolo e dal rispetto delle regole, con la consueta apologia, da parte dell’industria culturale, dell’autosfruttamento e del vedere nello stesso diritto borghese un mero freno alla propria sconsiderata volontà di potenza. Inoltre, a rendere davvero inguardabile la serie contribuisce anche il fatto che non è in grado di garantire neanche un minimo godimento estetico, finendo così per annoiare inevitabilmente il malcapitato spettatore.

 

12/08/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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