Dopesick – Dichiarazione di dipendenza è una miniserie drammatica statunitense sviluppata da Danny Strong, in otto episodi; In Italia è stata distribuita da Disney+, come Star Original, voto: 9-. Dopesick – Dichiarazione di dipendenza è stata candidata come miglior miniserie e per il migliore attore e la migliore attrice ai Golden Globe. Davvero eccellente è il primo episodio della serie, ben girato, ottimamente interpretato, avvincente ed emozionante. Esso contiene una decisiva denuncia di carattere economico, sociale e politico, ponendo al centro dell’attenzione il conflitto sociale. La serie denuncia la spaventosa diffusione di oppiacei da parte delle multinazionali, a partire dagli Stati Uniti, che hanno provocato degli effetti catastrofici in particolare fra i ceti sociali più deboli. La serie denuncia come l’obiettivo del profitto possa completamente stravolgere qualsiasi equilibrio ed eticità sin dall’ambito naturale e immediato della famiglia. Inoltre Dopesick evidenzia come le multinazionali siano in grado di suscitare bisogni indotti fra i consumatori imponendo i propri prodotti. Molto interessanti anche le strategie di marketing e per imporre le loro merci ai medici. Significativa anche la denuncia degli apparati dello Stato, del tutto succubi alla ricerca del profitto privato, a partire dalla Fbi che garantisce, in modo davvero criminale, la non dipendenza che provocherebbero dei pericolosi oppiacei, utilizzati per curare qualsiasi dolore. Molto interessante la sperimentazione che avviene nelle zone più deboli socialmente ed economicamente del paese, giocando sul fatto che i lavoratori, veri e propri working poors, non potendosi permettere di non andare a farsi sfruttare sul posto di lavoro, diventano consumatori e dipendenti degli oppiacei prescritti dai medici. Significativo anche come la cosiddetta comunità scientifica sia del tutto succube all’ideologia dominante e sia, dunque, pienamente corresponsabile della diffusione di queste pesanti droghe fra la popolazione, con l’idea edonistica che bisogna minimizzare i dolori.
Secondo e terzo episodio confermano in pieno il giudizio estremamente positivo dell’episodio pilota, dimostrando ancora una volta quanto possa essere corrotto il sistema ultraliberista statunitense e come, paradossalmente, proprio lì siano realizzati audiovisivi realisti e di denuncia di alcuni aspetti centrali della società capitalista. Emerge così come la corruzione nella società statunitense sia pienamente legalizzata, grazie anche alle ultime liberalizzazioni che si sono affermate dalla presidenza Reagan in poi, per cui un dirigente pubblico, che dovrebbe controllare il privato, può tranquillamente passare a quest’ultimo, attraverso le “porte girevoli”, guadagnando almeno cinque volte di più. Significativo anche il fatto che, nonostante questo marciume, esistono ancora degli individui che coraggiosamente si ribellano, lo denunciano, lo perseguono e lo fanno emergere. Interessante come, a conferma delle tesi elaborate dalla Scuola di Francoforte, nelle società capitaliste il principio del piacere e il fine naturale di una vita felice non sia vietato soltanto ai proletari, ma anche alla borghesia persino la più alta, costretta a condurre una spietata lotta di classe contro il proletariato e al proprio interno contro la concorrenza. Unico neo della serie è che, al solito, manca uno sguardo d’insieme, non c’è il concetto essenziale della totalità e tanto meno della coscienza di classe, per cui un membro della corrottissima e ultra imperialista Dea può passare per una eroina e la resistenza appare essenzialmente individualista.
Anche il quarto e il quinto episodio sono estremamente significativi e mostrano tutto l’assurdo degli ideologi della grande borghesia come Habermas che ritengono che la verità sia il risultato del dialogo all’interno della comunità scientifica. In tal modo, si finge di non conoscere il ruolo spaventoso di indirizzo che mantiene sulla sedicente comunità scientifica il grande capitale. Così si viene a scoprire che lo stesso sedicente articolo scientifico che ha aperto la strada all’abuso degli oppioidi letteralmente non esiste, ma è stato inventato appositamente dalla pseudo comunità scientifica al soldo del grande capitale finanziario. Resta il limite, anche perché almeno in parte si tratta di un limite reale, della mancanza di una opposizione dal basso, di classe allo strapotere del grande capitale. Sino a che la denuncia viene portata avanti da impiegati dello Stato costretti nell’ingrato ruolo di eroi, in una società sempre più ingiusta e irrazionale, è evidente che lo strapotere delle grandi imprese può essere al massimo scalfito.
Il sesto e settimo episodio, pur rimanendo estremamente significativi nella denuncia del reale “potere forte” del grande capitale all’interno della società statunitense, finisce con il risultare un po’ pesante in quanto manca di una reale prospettiva di superamento e del necessario spirito dell’utopia. Anche se qualche timido tentativo si fa, per esempio, narrando la redenzione del dottore caduto, anche lui, nella dipendenza da medicinali a base di oppioidi. Anche in questo caso il limite è ancora una volta nel credere di poter individuare il “principio speranza” sempre al livello necessariamente insufficiente e insoddisfacente dell’individuo.
La serie si conclude con un bilancio di quanto le battaglie condotte contro big pharma abbiano ottenuto – soprattutto nei rari casi in cui sono divenute mobilitazioni collettive – dei risultati comunque significativi, senza però riuscire a vincere la guerra, in quanto nello Stato imperialista statunitense i proprietari delle grandi imprese restano intoccabili ed evitano sia condanne che serie sanzioni economiche. La catarsi finale, pur mostrando l’importanza dell’impegno e della volontà di riscatto di singoli, che cercano nel loro piccolo di ricostruire una comunità fra i colpiti dagli oppiacei, rischia di rimanere la classica buona intenzione di cui sono lastricate le vie dell’inferno.
Lupin (Netflix) 1x10, Francia 2021, candidata come miglior serie drammatica ai Golden globe, voto: 6,5; sullo sfondo delle avventure di un ladro “gentiluomo” che segue le orme di Lupin, si staglia la significativa denuncia della storia di discriminazione di una famiglia emigrata nel mondo occidentale dall’Africa. La falsa e pretestuosa accusa che colpisce il padre condiziona pesantemente la vita del figlio ed è anche responsabile della sua scelta di seguirne, almeno apparentemente, le orme. Significativa la denuncia dei pregiudizi che portano a condannare i più umili e deboli, sebbene per il resto la serie, nei primi due episodi, appare carente di contenuti sostanziali e, quindi, non sembra in grado di suscitare reale interesse e godimento estetico nello spettatore.
Nel terzo e quarto episodio finalmente la serie decolla, emerge in primo piano la corruzione e la collusione dei “poteri forti”, dai dirigenti degli apparati repressivi dello Stato, ai “grandi” imprenditori, in realtà dei perniciosissimi parassiti sociali. Appare evidente come gli esponenti del grande capitale vivano alle spalle dei lavoratori subordinati, sfruttando a loro vantaggio il razzismo che contribuiscono a diffondere. Valida è anche la volontà di rivalsa dei subalterni e di chi ha subito discriminazioni razziali, peccato che la sacrosanta lotta di classe dal basso è portata avanti in modo individualistico e sostanzialmente inverosimile da un singolo. Si tratta, naturalmente, di una soluzione in fin dei conti impraticabile, irrealistica e, in ultima istanza, sostanzialmente scarsamente in grado di incidere.
Nel quarto e quinto episodio, invece, le questioni sostanziali passano in secondo piano e finiscono così con il rimanere troppo sullo sfondo. In tal modo la serie diviene noiosa e soporifera.
Negli episodi successivi Lupin torna a essere una serie godibile e lascia, inoltre, meritoriamente emerge l’importanza di presentare come eroi positivi i figli di emigrati africani. Emergono anche i profondi e nefasti legami fra mondo del capitale finanziario, classe politica dirigente e apparati repressivi dello Stato, pronti a non indagare sui gravissimi delitti dei colletti bianchi e a perseguitare a sino all’ultimo, senza pietà, reati che hanno una evidente giustificazione economica e sociale nelle tragiche condizioni di vita dei ceti subalterni. Restano, inoltre, tutti i dubbi già prima evidenziati, sulla prospettiva e la praticabilità di una emancipazione individualista come quella promossa dalla serie.
Nell’episodio finale ritroviamo, nel bene e nel male, le principali caratteristiche dell’intera serie. Quest’ultima si conferma godibile e approfondisce la critica della classe dominante e degli apparati repressivi dello Stato supportati anche da nazisti. Valida la figura del protagonista ribelle al sistema, anche se la sua capacità di incidere come singolo resta necessariamente limitata a una vendetta sostanzialmente personale.
Quando eravamo re di Leon Gast, documentario, Usa 1996, distribuito da Cineteca di Bologna, voto: 6+; documentario ben realizzato – con un’ottima colonna sonora – a tratti interessante, godibile e avvincente. Dal film emerge tutta la subalternità ideologica della componente moderata del movimento di liberazione degli afroamericani, ben impersonato dall’eccezionale atleta Mohamed Ali. Quest’ultimo ha certamente assunto una posizione decisamente rivoluzionaria ed eroica, quando si è rifiutato di andare a combattere le forze antimperialiste in Vietnam, sostenendo che i reali nemici degli afroamericani sono i razzisti e filoimperialisti del loro stesso paese. In tal modo, pur giunto all’apice di una eccezionale carriera, il pugile ha affrontato con coraggio la condanna al carcere e il dover rinunciare al lavoro proprio nel momento in cui aveva conseguito la piena maturità. Dall’altre parte in Quando eravamo re Mohamed Ali finisce per farsi strumentalizzare dal peggior tiranno criminale filoimperialista d’Africa, il generale fellone Mubuto, colpevole del tradimento e del barbaro assassinio di Lumumba, simbolo vivente della lotta di liberazione antimperialista dell’Africa e del suo, a oggi essenzialmente abortito, processo di unificazione. Peraltro, nonostante l’amicizia con Malcom X, Mohamed Ali continua a far parte dei Fratelli musulmani sebbene fossero stati proprio loro a perpetrare l’assassinio del grande rivoluzionario afroamericano. Oltre a tutte queste ambiguità ideologiche – di cui gli autori del film appaiono del tutto inconsapevoli – il documentario essendo tutto incentrato su un incontro di boxe per quanto epico, finisce per essere ripetitivo e anche un po’ noioso. Anche la presentazione adialettica, apologetica e, dunque, acritica di questo grande campione sportivo finisce per essere, alla lunga, un po’ stucchevole.
America Latina di Damiano D’Innocenzo e Fabio D’Innocenzo, con Elio Germano, thriller, Italia 2021, candidato a miglior fotografia, attore protagonista e colonna sonora ai premi David di Donatello, voto: 5; film che – pur amando rimestare nel torbido e dipingere tutto con il monocolore di ordinanza del peggiore cinema italiano: il grottesco – fa comunque emergere il lato oscuro, criminale e sempre potenzialmente nazista del benpensante borghese.
The Batman di Matt Reeves, azione, drammatico, Usa 2022, campione di incassi, voto: 4. Merce ben confezionata dell’industria culturale a stelle e strisce trasmette un contenuto, a conti fatti, agghiacciante. In una società moderna sempre più corrotta, con gruppi di esclusi sempre più ampi, per impedire il risentimento esclusivamente distruttivo (dell’ordine costituito) da parte della “nuova plebe”, l’unica alternativa sarebbe un governo oligarchico e autoritario con sinistri aspetti fascistoidi.