Succession terza stagione della serie tv in nove episodi, su Sky, voto: 6. L’episodio pilota della terza stagione parte, come era prevedibile, con il piede giusto: è coinvolgente ed emozionante e riprende la fondamentale critica al grande capitale investito nel settore chiave, per il mantenimento dell’egemonia della classe dominante, della comunicazione. Restano i consueti limiti: la mancanza di una prospettiva di superamento del dramma rappresentato e lo scarso approfondimento su quella vera e propria fabbrica del falso costituita dall’impero mediatico di Murdoch al quale il plot della serie si ispira.
Come di consueto il secondo e il terzo episodio costituiscono una decisa caduta di tono rispetto al primo, nel senso che non aggiungono nulla di sostanziale, si ha così la sensazione del déjà-vu e la serie diviene decisamente soporifera. Anche perché non solo la vicenda non conosce sviluppo significativi, ma discorso analogo vale per gli stessi personaggi. Il sospetto che inevitabilmente viene è che tutta la terza stagione rischia di essere funzionale semplicemente ad allungare, diluendolo, il brodo.
Gli episodi quattro e cinque non introducono novità di rilievo rendendo la serie sempre più soporifera. Anche se non mancano spunti di critica molto significativi al mondo del grande capitale, a partire dal profondo razzismo e maschilismo di chi lo dirige, dai crimini che commette verso i subalterni, dal totale disinteressi degli azionisti per tali crimini, di come qualsiasi valore etico, a partire da quelli naturali della famiglia, siano sacrificati all’idolo del profitto privato. Anche l’unico personaggio apparentemente alternativo, il fratello del grande capitalista, si dimostra più un originale filantropo che un reale oppositore. Per cui intende lasciare le sue ricchezze a Greenpeace, ma al contempo non fa nulla per incriminare la sua impresa di famiglia per gli spaventosi crimini perpetrati. Emerge, inoltre, l’enorme potere nelle mani degli imprenditori che controllano i grandi mezzi di comunicazione privati, in grado di esercitare un vero e proprio potere di ricatto persino sul presidente degli Stati Uniti, per coprire e lasciare impuniti i propri gravissimi crimini.
Gli episodi sei e sette sono significativi nella denuncia della classe dominante e dirigente, in particolare repubblicana. Emerge chiaramente come la stessa scelta del presidente avvenga all’interno di nuclei ristretti di grandi capitalisti, mentre il voto popolare serve generalmente per ratificare decisioni già prese. Realmente impressionante la descrizione estremamente realista delle posizioni ultra reazionarie in particolari dei Repubblicani e della classe dominante che li sostiene. Nel settimo episodio vi è una rappresentazione molto realistica della famiglia di grandi capitalisti, in cui sostanzialmente ogni legame etico anche basilare è completamente stravolto dall’individualismo e dalla ricerca del profitto privato.
L’ottavo e il nono episodio non aggiungono nulla di significativo, al di là di un interessante rovesciamento del titolo stesso della serie. A dominare è ora il rovesciamento della prospettiva iniziale, ossia della necessità di individuare una successione plausibile al vecchio grande capitalista. Fallite miseramente le possibilità di passare la mano a uno dei figli, sempre pronti a sbranarsi, ma privi delle capacità del padre, quest’ultimo sembra disponibile a lasciare la direzione dell’azienda a un giovane creativo. Solo allora i figli, sempre divisi per il loro egoismo individualista, comprendono la necessità di unire le forze. Emerge così chiaramente la loro consapevolezza di poter fare carriera solo grazie al nepotismo del padre e sono, quindi, immediatamente pronti ad assumere anche le misure più drastiche per toglierlo di mezzo. D’altra parte anche la madre, pensando esclusivamente ai propri interessi immediati, toglie ai figli la possibilità di ricattare il padre e anche il marito – sempre dominato dalla ricca moglie – della figlia la svende al grande capitalista.
The Morning Show, seconda stagione della serie tv in dieci episodi, distribuita sul servizio di streaming Apple TV, voto: 5-. La serie mostra in modo estremamente critico il mondo televisivo in una società a capitalismo avanzato. The morning show denuncia efficacemente il cinismo da cretino assolutamente dominante nella società statunitense e inconsapevolmente ne fa emergere il fascismo quotidiano. Peccato che al solito la morale è sostanzialmente “così fan tutti” e, di conseguenza, la critica sociale tende a divenire inoffensiva naturalizzandosi. La serie è sicuramente una merce abbastanza raffinata dell’industria culturale, anche se di tanto in tanto tende a divenire soporifera per la appena sufficiente presenza di contenuti sostanziali.
Il terzo episodio procede sulla falsariga dei due precedenti, con la protagonista della prima serie che appare sempre più integrata nel contesto anestetizzante della televisione di successo e sempre meno sanamente fuori dagli schemi. Si presenta, infine, un personaggio diverso e almeno in parte positivo nel giornalista afroamericano che cerca invano di portare l’attenzione del grande network “informativo” sul quale lavora sui pericoli della diffusione del nuovo virus covid-19, scontrandosi con un muro di gomma, in quanto la notizia della diffusione della pandemia nella lontana Cina non farebbe crescere il numero dei telespettatori, che sarebbero interessati esclusivamente alle vicende del proprio paese.
Nel quarto e nel quinto episodio prosegue la denuncia di quanto siano marci in particolare i vertici delle grandi industrie culturali e di come tale marciume finisca per contaminare anche i piani più bassi. Peccato che manchi quasi del tutto un’analisi critica dei contenuti mediati dalle grandi fabbriche del falso. Prosegue inoltre la riflessione sui problemi relativi alla inclusione delle minoranze etniche e al movimento per l’emancipazione delle donne. Anche se spesso si finisce per dare troppa importanza al politically correct piuttosto che indagare sulle cause reali – economiche e sociali – delle discriminazioni etniche, sessuali e sessiste così profondamente radicate negli Stati uniti.
La seconda stagione purtroppo non decolla e finisce con l’apparire sostanzialmente inutile. Si dimostra sempre più una merce – per quanto piuttosto bene confezionata – dell’industria culturale, tanto che alla fine finisce con l’annoiare. L’unico aspetto significativo del sesto e settimo episodio è il far emergere quanto il mondo sia cambiato grazie al movimento Me too e come la società patriarcale sia stata finalmente costretta ad arretrare.
Gli episodi sette e otto, pur mantenendo un sano naturalismo - rispetto all’ideologia postmoderna, si focalizzano troppo sulle vicende particolari dei propri personaggi che hanno il grande difetto di non essere sufficientemente tipici. Mentre i grandi eventi come la diffusione del covid e il tragico fatto che i paesi capitalisti occidentali non abbiano fatto nulla per prevenirla - con la completa complicità dei grandi mezzi di comunicazione di massa, passano del tutto in secondo piano. Resta soltanto un accenno significativo su come l’epidemia di ebola si fosse diffusa negli Stati Uniti e, ciò nonostante, questo dramma sia stato completamente occultato dall’ideologia dominante. Resta il dubbio se senza la puntuale denuncia della Repubblica popolare cinese anche la diffusione del covid sarebbe stata ancora di più, di quanto è avvenuto, nascosta dalle autorità dei paesi capitalisti occidentali.
L’ultima puntata è al solito più movimentata e appassionante delle precedenti. Vi è il confronto con la malattia, il diffondersi della pandemia e i personaggi principali sono umanizzati e resi più complessi. Anche il pericoloso moralismo, che strumentalizza il movimento per l’emancipazione delle donne, viene a ragione criticato. Peccato che, come già osservato, le tematiche socio-economiche e politiche vengono estromesse e anche la significativa critica alla televisione viene, almeno in parte, attenuata.
L’amica geniale. Storia di chi fugge e di chi resta, serie tv di Daniele Luchetti 3x8, disponibile su RaiPlay, voto: 4,5. La terza stagione parte nel migliore dei modi con i primi due episodi, contestualizzando la vicenda nelle grandi lotte sociali e politiche della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta. Emerge con chiarezza lo sfruttamento, in particolare delle donne, nelle fabbriche, lo sfruttamento dei giovani intellettuali nelle università, la deriva revisionista e riformista dei partiti storici della sinistra e l’insorgere di una nuova generazione di rivoluzionari. Emergono anche i limiti del sottoproletariato napoletano, il ruolo di provocatori dei fascisti, il controllo della malavita organizzata sulle stesse attività imprenditoriali. Peccato che nella serie prevalga il luogo comune che gli studenti sarebbero dei radical chic, che non conoscerebbero i reali problemi degli operai, dai quali non avrebbero nulla da apprendere per le durissime condizioni di vita che impediscono a questi ultimi lo sviluppo di una coscienza di classe. Anzi la denuncia delle tragiche condizioni di sfruttamento da parte di comunisti e studenti rivoluzionari viene vista come contraria agli interessi dei lavoratori, in quanto favorirebbe la repressione di padronato e fascisti. Nonostante questi limiti, almeno la serie ha il sano buon senso di non pretendere di poter astrarre dai conflitti economico-sociali e politici.
Il terzo e quarto episodio, pur rimanendo avvincenti e godibili, perdono quasi interamente lo sfondo storico, sociale e politico dei precedenti. Resta la denuncia della violenza fascista in collusione con la malavita e la denuncia della famiglia patriarcale e di come uomini anche progressisti condannino le mogli alla schiavitù domestica. Per il resto vi è un sostanziale riflusso nel privato e una denuncia davvero reazionaria dell’estremismo radical chic della sinistra extra- parlamentare.
Il quinto episodio rappresenta una decisa caduta di tono di un anticomunismo becero davvero imbarazzante. Come si poteva intuire si mostra, quasi si trattasse di una necessità, lo scivolare della sinistra rivoluzionaria extra-parlamentare nel terrorismo, che viene rappresentato nel modo più inverosimile, ideologico e pienamente subalterno all’ideologia dominante. Alla fine il problema del terrorismo viene affrontato come se fosse una responsabilità della sinistra radicale e non una risposta, per quanto avventurista e controproducente, al terrorismo nero e di Stato. Anche del movimento femminista si mostrano solo gli aspetti contraddittori meno significativi. Anche il sesto episodio, per quanto fortunatamente non si occupi più di questioni economiche e sociali, torna a essere abbastanza avvincente anche se a tratti ancora piuttosto inverosimile.
Gli ultimi due episodi confermano che generalmente le serie con il passare delle stagioni divengono sempre meno interessanti e inverosimili. Nel settimo episodio vi è ancora una spaventosa caduta nell’affrontare, peraltro in modo del tutto superficiale, la tragica stagione dei cosiddetti “anni di piombo”, occultando le grandi conquiste prodotte dalle lotte dal basso per quanto riguarda l’estensione dei diritti economici e sociali. Ormai la serie nell’ultimo episodio si è distaccata completamente dalle vicende del mondo storico e politico essendo tutta incentrata sul bieco pregiudizio sessista per cui le donne si innamorerebbero proprio degli uomini “destinati necessariamente” a farle soffrire.