Dio è donna e si chiama Petrunya di Teona Strugar Mitevska, Macedonia, Belgio, Slovenia, Croazia e Francia 2019, voto: 7-. Il film parte decisamente male, con una impostazione postmoderna, anche se a poco a poco finisce per affrontare questioni sostanziali in modo quantomeno dignitoso. La denuncia del maschilismo, del tradizionalismo, del fondamentalismo religioso è netta, anche se un po’ troppo unilaterale, dal momento che i reprobi sono ridotti a macchiette. Complesso, a tratti contraddittorio, indubbiamente realista e in parte tipico è il personaggio principale su cui è incentrato il film. Petrunya, la protagonista – pur con i suoi indubbi limiti – è un personaggio positivo che consente alla tragicommedia del film di concludersi adeguatamente in modo catartico. In tal modo, diviene evidente come anche la realtà più degradata e provinciale si può, almeno in parte, modificare. Il limite del film è il suo essere un po’ troppo minimal e di intendere l’emancipazione quasi esclusivamente dal necessariamente limitato punto di vista individuale. Il suo pregio è di essere un’opera tutto sommato impegnata, in primo luogo sul fronte dell’emancipazione femminile.
La vita nascosta – Hidden Life di Terence Malick, biografico, drammatico e storico, Usa e Germania 2019, voto 6. Tratto da una storia vera, il film narra la resistenza di un contadino austriaco alla banalità del male dello Stato totalitario nazista. Finalmente vediamo un personaggio che si assume tutto il peso di pensare con la propria testa e che – per quanto viva in una situazione molto arretrata – riesce a comprendere che combattere per la Germania nazista significa partecipare alla lotta contro l’emancipazione del genere umano. Per questo considera nel giusto chi combatte per difendersi dall’aggressione del Terzo Reich. Peccato che il film sia pieno di cadute nel postmoderno, come l’esaltazione della vita agraria in mezzo alle montagne, separando la bellezza della natura dalla tragica limitatezza della natura umana che la abita e in cui, al contrario, trionfa la banalità del male. Significativa anche la contrapposizione fra l’eccezione di un cristiano che prende sul serio la sua fede e la massa dei fedeli e dei loro stessi direttori spirituali che si adagia sulla banalità del male. Peccato altresì che il film, intriso di religiosità, sembri incapace di distinguere l’eccezione dalla regola.
Swallow di Carlo Mirabella-Davis, drammatico, Usa 2019, voto: 4; film intenso, ma sostanzialmente privo di aspetti sostanziali, rischia di narrare una storia del tutto fine a se stessa. Swallow denuncia abbastanza realisticamente il precipitare nella nevrosi di una giovane casalinga di estrazione proletaria che ha sposato il figlio del padrone. La mania di ingoiare può essere considerata una metafora di quanto deve subire, dalla famiglia di ricchi imprenditori del marito. Questo aspetto, l’unico di un certo spessore, finisce con il passare colpevolmente in secondo piano, a causa del tentativo di curare la nevrosi con il metodo psicoanalitico che, invece di comprendere le presenti contraddizioni e di ricercarne una soluzione in direzione del futuro, pretende di ridurre le turbe psichiche tornando a un trauma vissuto nella prima infanzia e legato all’ambito familiare, tagliando fuori gli aspetti economici, sociali e ideologici. Così, una contraddizione sociale risolvibile soltanto nel futuro mediante lo spirito dell’utopia, trova una pseudosoluzione ripiombando nel passato.
Estate 85 di François Ozon, drammatico, Francia 2020, voto: 4-; ennesimo film sopravvalutato, assurdamente proclamato vincitore del Festival del Cinema di Roma. In effetti, si tratta di un film decisamente inutile, del tutto privo di aspetti sostanziali. Ci viene ancora una volta presentata la solita storia d’amore romantica, con l’unica specificità di avere come protagonisti due ragazzi.
Heimat è uno spazio nel tempo di Thomas Heise, Germania 2019, voto: 4-; film realizzato su misura per i cinefili snob, generalmente della a-sinistra, che non possono non considerare un capolavoro un’opera ideata per impedire ogni connessione sentimentale con le masse popolari. Tutto ciò in nome di uno sperimentalismo fine a se stesso, che vorrebbe rivendicare la sua assoluta particolarità – come se fosse un bene in sé – ma in realtà non fa che prender parte a quella distruzione della ragione – anche nello specifico filmico – così caratteristica del decadentismo dell’Europa continentale.
The Mandalorian 1x8 serie televisiva statunitense creata da Jon Favreau e prodotta da Lucasfilm. È distribuita sulla piattaforma streaming Disney+ dal 12 novembre 2019, voto: 3,5; efficace arma di distrazione di massa, merce meramente culinaria dell’industria culturale, al solito funzionale all’egemonia della classe dominante. Come di consueto si tendono a naturalizzare, trasferendoli anche nel futuro, i più brutali scenari del Far West, qui epicizzati. Il primo episodio della serie è una ripresa decisamente da epigoni degli spaghetti western, in particolare di Per un pugno di dollari di Sergio Leone, film a sua volta – a ragione – accusato di plagio del film di Kurosawa La sfida dei Samurai. Inoltre, come al solito, ci viene presentato un futuro distopico in quanto, da una parte, la mancanza di un minimo di spirito dell’utopia e di principio speranza impedisce anche solo di immaginare un futuro migliore, dall’altra, in quanto tale stereotipata immagine del futuro, è una apologia indiretta della società imperialista nella fase della sua putrescenza, che finisce per apparire il migliore dei mondi possibili. Infine, come di consueto, anche in questo caso assistiamo a un bizzarro intreccio di una civiltà supertecnologica che appare regredita, da tutti gli altri punti di vista, a un’epoca precapitalistica, fra ancien régime e medioevo. Ciò dimostra, contro l’ideologia dominante neopositivista, che la tecnologia da sola non solo non risolve i problemi dell’umanità ma che, se è male utilizzata da una società oppressiva, li può addirittura peggiorare. D'altra parte, non essendoci soluzioni progressive, ma solo assurdamente reazionarie, anche questa concezione è funzionale a sviluppare una visione meramente conservatrice dell’esistente o apertamente reazionaria.
Gli episodi successivi seguono sulla falsariga del primo, perciò, è una perdita di tempo continuare a seguire The Mandolarian.
WandaVision è una miniserie televisiva statunitense del 2021, creata da Jac Schaeffer per la piattaforma di video on demand Disney+, basata sui personaggi della Marvel Comics, voto: 2,5. Serie di supereroi nei primi episodi tendenzialmente comica, in quanto l’autoironia sembra – a ragione – l’unico strumento per far sopravvivere a loro stessi questi noiosissimi superuomini. Anche l’ambientazione negli anni Cinquanta, di cui si offre la parodia, è certamente piacevole. D’altra parte, emerge tutta la natura conservatrice e a tratti reazionaria di questo genere di commedia, dove tutte le contraddizioni, a partire da quelle di classe, di razza e di genere tendono miracolosamente a sparire. Mostrando un’immagine del tutto inverosimile e fondamentalmente truffaldina degli Stati Uniti degli anni Cinquanta, in piena caccia alle streghe.
Nei successivi episodi la realtà si rivela ben peggiore delle apparenze dei primi episodi e la serie finisce, purtroppo, per prendersi sul serio. Così la sitcom ultraconformista, banale e puramente culinaria cui avevamo assistito – in cui, però, non si manca di sottolineare l’asservimento degli impiegati al padrone, che ha su di loro un potere assolutistico, e la precarietà del lavoro che rende la forza lavoro (naturalmente non organizzata e combattiva) in totale balia del padronato – si rivela essere nient’altro che il mondo “perfetto” in cui la protagonista dotata di poteri magici illimitati ha deciso di far rivivere il proprio rapporto con il marito deceduto. La completa assenza di qualsiasi grande ambizione, l’assoluta mancanza di ogni spirito dell’utopia e persino di un briciolo di principio speranza, rende questo sedicente mondo incantato una esemplare riproduzione di quella reazionaria visione del mondo, che la più tossica delle industrie culturali statunitense è in grado di produrre. A rendere tali aberrazioni ancora capaci di egemonia concorre l’ottima capacità di creare mezzi di distrazione di massa particolarmente godibili per masse completamente alienate, reificate e private di un briciolo di coscienza sociale. Peraltro la società statunitense – presentata in tutta la sua brutale banalità – può avere una qualche efficacia solo spacciando l’unica reale alternativa (una società che ha tentato l’assalto al cielo con la transizione al socialismo)per un mondo spaventoso e assolutamente invivibile.
Peraltro il paradiso conformista al quale la coppia di supereroi fa di tutto per conformarsi, è in realtà per tutti gli altri un universo ultra-totalitario. Anche se tale universo concentrazionario viene, comunque, giustificato dal fatto che Vanda l’avrebbe costruito per amore e per non essere in grado di rielaborare la morte del marito. Infine, ciliegina sulla torta, il film finisce con il riabilitare persino la caccia alle streghe, mostrando come a Salem, dove vi fu l’ultimo tragico atto, vi erano realmente streghe e anzi, queste ultime, sarebbero presenti anche al giorno d’oggi.
Quello che i social non dicono – The Cleaners (di Hans Block e Moritz Riesewick, documentario Germania, Brasile e Italia 2018, voto: 2+;) è un film su una tematica sostanziale, che avrebbe potuto essere non solo molto interessante, ma al contempo anche molto istruttiva. Peccato che è stato realizzato nel peggiore dei modi, le enormi responsabilità delle multinazionali, che controllano e censurano buona parte dell’informazione a livello mondiale, scompare quasi completamente. A tratti sembra commissionato proprio dai proprietari dei social, tanto il film appare indirettamente apologetico. Pare evidente che chi ha realizzato il documentario non solo è decisamente incompetente, ma non ha nessuna bussola per distinguere il bene dal male in ciò che viene censurato. Inoltre, non vi è nessuna denuncia dello sfruttamento dei lavoratori del Terzo mondo, che anzi sembrano fieri di essere sfruttati dalle multinazionali statunitensi.
Hunted – Chi ha paura del lupo cattivo? di Paronnaud, Belgio, Francia, Irlanda 2020, thriller, voto: 2; come accade, purtroppo, sempre più spesso, in troppi film europei c’è un qualcosa di malsano. Nel caso in questione abbiamo un film del tutto gratuito, con un uso assolutamente spregiudicato della violenza, sostanzialmente fine a se stessa. Con una trama del tutto inverosimile e priva di qualsiasi contenuto sostanziale, il film è una mera merce di mediocrissima qualità dell’industria culturale, un’opera puramente di evasione, in fin dei conti alienante. Hunted non solo non è in nessun modo un bel film, ma non è nemmeno piacevole come lo sono prodotti del genere, puramente culinari, statunitensi. Infine, l’unico messaggio che trasmette è del tutto irrazionale, ideologico e reazionario. La tesi esplicita del film è che mentre gli uomini sarebbero, non di rado, cattivi, la natura non umana sarebbe buona e pronta a venire in aiuto delle donne, martirizzate dagli uomini. Per cui l’unica reale via di uscita e presunta catarsi del film sarebbe il ritorno della donna – per fuggire il mondo degli uomini violento e cattivo – a uno stadio primigenio e puramente bestiale, senza alcuna traccia della civiltà umana. Si tratta, naturalmente, di una soluzione non solo impraticabile, ma decisamente distopica.