È uscito in questi giorni - ed è stato presentato in anteprima a Palermo al Laboratorio Andrea Ballarò / Caffè filosofico Beppe Bonetti - il libro di Antonio Minaldi I vecchi sono come i bambini (e come le biciclette) edito da Multimage (Firenze).
Antonio Minaldi è conosciuto per i suoi saggi e articoli di economia politica e filosofia del diritto, oltre che per il suo impegno ininterrotto nei movimenti antagonisti al capitalismo e all’imperialismo a partire dal ’68. È stato tra i fondatori dei Cobas della scuola e scrive per l’Agenzia di stampa internazionale Pressenza.com. Perciò questo libro, una silloge di tutte le sue poesie, composte a partire dal 1993, costituisce senz’altro una mossa spiazzante. Infatti le lotte di tanti anni, i conflitti sociali, la tensione al comunismo come utopia concreta e critica non compaiono quasi mai direttamente, benché ne costituiscano l’ineludibile ma sottinteso sfondo.
Lo stupore iniziale, però, si fa subito consentimento a quella che è forse la cifra più costante della poetica di Minaldi: il continuo rimando fra passato e presente, giovinezza e vecchiezza, entusiasmi e delusioni e di nuovo speranze: orfani siamo di noi stessi / e di tutti i nostri mancati naufragi. Una sottile malinconia trapassa in sorridente e accorta autoironia, mentre oggetti e affetti, incontri e addii, inedite scoperte e sedimentati ritrovamenti, smarrimenti conclusioni fughe scorrono con nitore cinematografico tra le righe del racconto, perduti nelle geografie della storia, personale e pubblica, ma custoditi nella più segreta memoria, e dunque in qualche modo mai trascurati.
L’altro sottofondo imprescindibile e l’altra cifra di questa poetica, che alla prima inesorabilmente si lega, è l’attenzione alla fragilità di noi esseri gettati a vivere, ossia la riflessione filosofica, sottaciuta ma presente, quale lavoro propedeutico alla scrittura poetica. Riflessione che di quando in quando affiora, senza mai appesantire la leggerezza dello sguardo che si posa su persone e cose, ora tenero ora indignato, ora accorato ora irridente.
Nell’atto dell’amare, per esempio - l’Autore confessa - senti di dover chiedere perdono / per essere venuto a questa vita.
E la meditazione fa capolino anche in aforismi come questo, di sapore nietzschiano: come ogni uomo, nella vita siamo sempre in bilico / tra fedeltà alla Terra e richiamo al Mare. (Minaldi sceglie sempre, con gentile amoroso ossequio, l’iniziale maiuscola per i protagonisti dei suoi testi, siano essi le amanti vagheggiate, le spose d’una notte o di un lungo tragitto, il Padre e la Madre o perfino oggetti cari e paesaggi, come qui appunto, la terra e il mare, metafore filosofiche, forse, della concretezza e del fluire, della certezza e dello spaesamento, dell’Essere e del Divenire).
O ancora, si chiede: È questo il progresso? / Questi numeri in ordine nel cervello / ad obliterare ciò che affiora da dentro”. Ed ecco che i lunghi studi sul capitalismo della sorveglianza si tramutano insensibilmente in interrogativo poetico, al quale il Poeta azzarda anche una risposta, quando suggerisce, nella postfazione, che etica e politica non devono essere disgiunte, come raccomandava Che Guevara, e che il punto di congiunzione può essere l’utopia, intesa, con Spinoza, come una società della “potenza senza potere”, “potenza socializzata come fondamento della società della cura”.
E infine l’amore, pressoché onnipresente in tutte le diverse raccolte, ma più concentrato nelle sezioni dedicate alle donne amate e ai luoghi esplorati o nelle rivisitazioni dell’infanzia.
Antiche parole / consunte d’arcano: / io ti amo. (Qui la musicalità è tutta nell’assonanza finale).
È l’Autore stesso, ancora nella postfazione, a confessarci la genesi del suo lavoro, o meglio lavorio interiore: “le mie poesie non sono mai completamente mie”, costituiscono un dono; nascono spontaneamente, “sono come miei figli e figlie”, vanno lasciate libere di andare.
Ciò nonostante esigono una accuratissima ricerca formale: la metrica e l’uso delle rime, avverte Minaldi rifacendosi a Borges, sono “una sorte di garanzia per non uscire fuori dal seminato”, misura oggettiva contro gli sfoghi eccessivi del soggettivismo, o meglio ancora “una metafora della libertà che si rende responsabile verso le regole che essa stessa si è data”, una sorta di imperativo categorico kantiano in chiave letteraria.
Ecco allora che la sua scrittura, sia essa un fluido discorrere in armonia oppure una cadenza pulsante nel suo ritmo battente, risulta sempre di facile ascolto (la poesia nacque orale, per essere ascoltata con sostegno di strumenti a corde e percussioni), si offre liquida e spontanea, a tal punto non traspare né mai reca fastidio l’estrema accuratezza nella scelta di rime e ritmi, di metri e figure retoriche di lingua e di senso.
E veniamo al titolo, che potrebbe apparire criptico o, al contrario, troppo ingenuo. Il suo disvelamento è in un haiku: Vecchi e bambini / col pianto e col sorriso / rivelano il mondo. E la bici? La bici è anch’essa metafora o, più correttamente, correlativo oggettivo (alla maniera montaliana) “di quell’andamento lento che è l’esatto opposto della corsa folle imposta dal dominio capitalista della grande finanza”. “È vecchia la mia Bicicletta, e nessuno prova a rubarla perché non vale niente. Ma è forte e senza fronzoli”. In tutti e tre i casi, vecchi bambini e biciclette, traspare l’aspirazione all’autenticità, all’essenza nascosta nell’esistenza, all’illuminazione del segreto della Vita attraverso la consapevolezza della Morte, come Heidegger insegna.
Impreziosisce il libro la varietà dei generi letterari abilmente affrontati (con i codici e i registri linguistici corrispondenti): dal bozzetto narrativo all’istantanea che coglie uno scorcio imprevisto del nostro costume (o malcostume) sociale, dalla lirica amorosa alla tagliente denuncia, dall’introspezione alla satira, talvolta amara ma quasi sempre indulgente, verso questa nostra povera umanità corrotta e innocente.
Anche l’uso della punteggiatura cambia. Nelle poesie narrative è varia ed eloquente, crea pause, battute, esplicitazioni, costruendo quasi un prosimetro accattivante (ad esempio, ne Le carte, che appartiene alle raccolte più recenti). Nelle poesie d’amore può anche scomparire del tutto, o ridursi a singoli punti che marcano un emistichio, ma non compaiono mai alla fine della strofa o del componimento, suggerendo così sospensione e indeterminatezza. Nelle rime ironiche dell’Intermezzo, poi, viene addirittura rivoluzionata, in una fantasmagoria di segni che fa uso spregiudicato del trattino.
La prima sezione, Ricordi e narrazioni, racchiude bozzetti costruiti alla maniera degli idilli leopardiani, che utilizzano un lessico quotidiano, sia pure trasfigurato dalla metrica, e perfino il dialogo, breve stringente icastico, fortemente figurativo.
Le poesie d’amore della seconda sezione, Alle donne amate e a tutte le altre, invece, sono componimenti più densi di figure retoriche e dall’andamento musicale, per il ripetuto uso di allitterazioni, assonanze, consonanze e per la scelta sapiente e sicura, mai casuale, delle rime (interne, baciate, alternate) e dei metri (prevalentemente endecasillabi sdruccioli o piani). Tale raffinata ricerca, arricchita talvolta da affettuose citazioni di Maestri come Dante, Foscolo, Ungaretti, non rende mai la lettura faticosa, bensì la arricchisce di stimoli e rimandi. Verrebbe da dire che si tratta di poesie barocche, ossia del bel barocco siciliano novecentesco di Lucio Piccolo e Gesualdo Bufalino, sovraccariche di sontuose e sensuali elencazioni di profumi e sentimenti, sguardi e toccamenti nei quali l’amplesso vitale corteggia la morte; poesie spesso chiuse, come per montaliana frequentazione, con il suggello di un aforisma o capovolte con un finale a sorpresa, come nella sinfonia n. 94 di Haydn, dalla nostalgia struggente allo sbottare di una rabbia annoiata che desta immediata ilarità (nella raccolta Luoghi, I boulevard di Parigi, ma anche Le ragazze di san Pietroburgo).
La terza sezione, Deposizioni, è davvero originale. Qui la sfida è tradurre i quadri di Pontormo, Beato Angelico, Rosso Fiorentino, Van der Wayden, Caravaggio in poesie; trasformare i colori in suoni, le linee in parole; ma soprattutto aprirsi alla suggestione reiterata del nesso fra morte e trascendenza, perdita dell’effimero e guadagno dell’eterno (immaginario o reale che sia, non è dato sapere), abbandono e ritrovamento degli affetti, vanità dei giorni e sostanza terrena, solida duratura.
La serie seguente degli Haiku conferma il rigoroso e appassionato rispetto delle regole della prosodia, giapponese stavolta, che forse per Minaldi (ma non per lui solo, per chiunque si attenti sulla strada della poesia) costituisce una rassicurazione contro l’eccedere di emozioni che altrimenti finirebbero nell’indicibilità. Distillare, in tre versi di diciassette sillabe in tutto, l’empatia con la natura, secondo l’ordine donatoci delle stagioni, è l’esatto opposto dell’occidentale pretesa di antropizzarla fin nella rappresentazione artistica. E, sempre secondo l’antica tradizione nipponica, l’haiku si fa cameo meditativo che concentra la nostra astratta precarietà in gesti minimi di calore solidale e ripiegata solitudine.
Dopo la sezione Le mie cose, incontriamo i Luoghi, raccolta davvero musicale e pittorica, con poesie costruite come canzoni: Parigi con le sue anafore sospese che preludono alla quartina finale con il fondo acquoso e triste delle pupille scrutate allo specchio, Le valli di Comacchio con la sua musica dell’acqua (tanto per rubare un altro titolo ad Haydn…), l’assaggio di nirvana di Nepal.
Poi, improvviso, esplode, quasi redatto da un’altra mano, l’Intermezzo: ancora si declina il tema della vecchiaia, in una società egotica e onnivora che non ti vede, non ti riconosce e nella quale nessuno esiste davvero. Pure, qui, l’amarezza si stempera nell’autoironia socratica, unica autenticamente salvifica.
Concludono alcune sequenze cronologiche. Le poesie del periodo 1993-1996, definite dall’Autore L’inizio, potrebbero dirsi sperimentali: una ricerca di moduli variati ed espressioni differenti, paesaggi bozzetti ritratti, sogni, lotte amori, denunce e aforismi. Poesie sperimentali, talora alla maniera della beat generation (E dire che io) talaltra rivisitazioni di classici (Infinito periferico), ma sempre nel rispetto del metro e con un uso misurato ed efficace di sinestesie chiasmi spezzature e altre figure. C’è persino un componimento in quartine di rime incrociate (Gli oleandri). Bella anche la pittura impressionistica di Pausa estiva, che si chiude con un distico introspettivo.
Più mature le liriche delle raccolte più recenti, Eros, Thanatos e altre dal 2008 al 2013, e le Ultime Nate che chiudono il libro. Bellissima La croce del Sud, dedicata a un compagno molto amato e perduto, ma rimasto incancellabile esempio. Interessante anche Senza parole, con le sue anafore ossessive e la costruzione analogica. Affiorano altrove un erotismo delicato e melanconico (Questi anni che passano), la meditazione sulla morte più toccante quando non è esplicitata ma sottesa alla nuda narrazione (Il vicino di casa) e una nuova attenzione alla poetica prescelta (Poesie, Alle poesie mai nate, Scrivere): Dire tutto il dicibile / risparmiando parole! / Inarrivabile essenza / e nostra dannazione; e ancora la paternità, una spiritualità laica ed atea e perfino il dar voce, in dialetto, alla serena ma non rassegnata fatica contadina.
Le ultimissime composizioni, però, tradiscono il male di vivere o più ancora l’inquietudine di fronte alla prospettiva dell’inesistenza, a volte per caso, secondo congiuntura / […] nell’eterno ciclo del dono e della pena; di fronte all’inganno esistenziale o semplicemente all’esserci: misure dell’essere, in alternanze d’essenze / […] e stupidità di morte indicibile e vile, senza mai dimenticare comunque la gratitudine: