Sarà difficile trovare Enzo Traverso comodamente sprofondato nella poltrona di qualche nostrano talk-show (casomai “Porta a porta”, sotto lo sguardo compiaciuto dell’immarcescibile conduttore), intento a dibattere con i tanti esperti televisivi di geo-politica e affari internazionali, solleciti nel riaffermare l’articolo di fede del primato morale dell’Occidente e nel distribuire con soddisfatta sapienza le perle del doppio o triplo standard. In particolare intorno alle vicende mediorientali che fanno alla fine e comunque perno sul groviglio israelo-palestinese, da sempre nodo dirimente delle tensioni che non solo dilaniano quell’area regionale, ma i cui cupi riverberi si estendono all’interezza delle vicende planetarie. Già dal titolo, infatti, il breve “testo scritto en situation” (p.43) dello storico della Cornell University di Ithaca (NY) denuncia ed esalta l’irriducibile carattere e il peso storico specifico che la minuscola realtà territoriale ha il “merito” di tradurre e trasfigurare in dimensione simbolica epocale, se non metastorica, lì agitandovisi tragicamente un problema che chiama in causa non solo gli assetti e il sistema delle relazioni mondiali interstatuali del momento, ma una questione cosmico-storica di portata “finale”. Gaza, come lapsus di sistema, luogo “epifanico” della (quasi) estrema perifrasi di una traiettoria temporale e di un ethos di lungo momento, indicatore ferreo e implacabile del destino dei popoli legato ai rapporti di forza tra gruppi, aree geografiche e sociali così come si sono venuti definendo, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, nel nuovo “ambiente” darwiniano che regola posture, progetti, attriti e geometrie variabili nelle diverse aree del mondo globalizzato e nei soggetti, vecchi e nuovi, che rivendicano il loro statuto esistenziale e imperiosamente la propria soggettivazione.
Gaza grande e terribile metafora, dunque, rappresentativa dello “stato del pianeta”, e intreccio intossicato delle grandi questioni irrisolte di e da un sistema di organizzazione della vita, segnato strutturalmente da disuguaglianze e ferocia di dominio, oggi esacerbate e ruvidamente innervate dal non casuale e stabile reinsediarsi della guerra come fattore costituente della politica, ordinario elemento regolatore e organo di normazione suprema (per qualcuno extrema ratio per fermare il tempo del proprio declino).
Non a caso, nota Enzo Traverso in questo denso, appassionato ma analiticamente rigorosissimo testo d’occasione, “la causa palestinese è diventata la bandiera del Sud globale e di gran parte dell’opinione pubblica” (p. 94), che vi individuano lucidamente la leva geo-politica, ma soprattutto politica in senso storico generale, di una presa in carico pro-positiva delle contraddizioni che dilaniano la società mondiale e sinistramente prefigurano la comune direttrice catastrofica, il collasso prossimo venturo. Infatti, “tutti hanno compreso che questa guerra segna una svolta, non solo per le sue conseguenze ma per quello che i palestinesi e gli israeliani rappresentano agli occhi del mondo”. Sorta di tragico laboratorio, nel quale si sperimentano e mettono in atto strategie d’esclusione violenta da un lato, di sopravvivenza dall’altro, in cui precipitano rovinosamente e in modo rivelativo tutte le retoriche dei “bianchi” a proposito di diritti umani e di pretesa esclusività morale di questa parte del pianeta, “quella piccola parte del mondo che chiamiamo Occidente” (p.5).
Parlare di pamphlet e di instant-book è tecnicamente giusto, sia chiaro, ma altrettanto chiaro è che la novantina di pagine che condensano lo “sguardo” dell’Autore sulla materia si sostanziano di una solida e documentata ricostruzione storico-politica, offrendo un limpido squarcio di verità, dalla quale nessun attore reale viene escluso, nella specificità e nella rilevanza relativa del suo contributo. Nel quale la dimensione genealogica, il lungo, inequivoco accumulo processuale, che possiamo convenzionalmente scandire a partire dal maggio 1948 (la Nakba) e prepara il lento e doloroso maturare dell’esplosione attuale, vi viene proposta senza semplificazioni costituendo la traccia anche metodologica per comprendere una questione, in cui l’insistita pedante proclamazione mediatica di “complessità” (dominante nella stampa nostrana immersa in una narrazione compiacente) svolge la funzione ideologica di “spostare” l’asse della questione verso un’“inintellegibilità”, funzionale al perpetuarsi dello statu quo, di fatto organica a una delle parti in causa, naturalmente la più forte.
Aleggia costantemente nelle pagine del libro di Traverso la sana lezione “orientalista” di Edward Said, col suo caratteristico rimando alla postura occidentale verso gli “esotismi” e i barbarismi dei popoli “altri”, fonte di continua legittimazione della paterna attenzione degli europei nei riguardi di quelle civiltà. E il significativo richiamo alla contestualità/corrispondenza tra fioritura fine-ottocentesca dei nazionalismi continentali e progetto fondativo del sionismo (formalizzato da Theodor Herzl nel 1896) getta una luce chiarificatrice e obliqua, circa la volontà di permeare reciprocamente dimensione etno-religiosa e dimensione propriamente politica, dando forma a un’originale creazione statuale, il celebre futuro focolare che, sul modello nord-americano, disinvoltamente presuppone la teorica della “terra senza popolo per un popolo senza terra”, da cui è possibile dedurre certe odierne, patenti, pulsioni sterministe e genocidarie. Soprattutto quando le si sente incarnate nel linguaggio stesso degli attuali governanti, i cui smottamenti lessicali (“animali umani”, i palestinesi, nelle parole del ministro della Difesa di Israele, Yoav Gallant), autorizzano quegli echi paradossali e sinistri, di cui Israele ben conosce la tristissima ascendenza storica e sui quali si rifiuta di svolgere una riflessione approfondita.
D’altro canto, nota Traverso, anche volgendosi ai famosi accordi di Oslo, qua e là evocati ed esaltati come generica possibilità inevasa di dare soluzione a entrambe le domande di sicurezza, non è un mistero che essi vennero “immediatamente sabotati da Israele, divenendo la premessa per la colonizzazione della Cisgiordania, l’annessione di Gerusalemme Est e l’isolamento dell’Autorità palestinese” (p. 82). E che il retropensiero dell’Eretz Israel (la “Grande Israele”, del mito ri-fondativo) attraversa robustamente il corpo della società di quel paese, via via soppiantando qualsiasi ipotesi di condominio di quell’area, sostenuta, con credibilità decrescente, dalle sue sempre più gracili (e confuse) fasce progressiste di popolazione e da una establishment occidentale, che mentre rimuove ostinatamente le proprie storiche responsabilità sul vero antisemitismo, oggi “spostandole” disinvoltamente sul mondo arabo (1), mai abdica alla propria complicità strategica con le scelte della preziosa “testa di ponte” mediorientale, disinvoltamente descritta come “unica democrazia” della regione.
Decisivo, poi, lo snodo immediatamente precedente dei famigerati “accordi di Abramo, che miravano patentemente a una totale e definitiva eclissi della questione: “Israele si stava preparando a ‘negoziare la pace’ con i suoi vicini arabi sulle spalle dei palestinesi e i suoi leader riconoscevano apertamente l’obiettivo di continuare a espandere gli insediamenti in Cisgiordania” (p.58)
È così che si arriva al 7 ottobre, che funge da “apertura” di una fase inedita, ma anche “ha una lunga genealogia” trattandosi di “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”. Infatti, “un semplice sguardo alla cronologia permette di capire come si sia arrivati al ‘pogrom’ del 7 ottobre” (p.13). Cui fa seguito il pieno dispiegamento di una vera e propria studiata pratica genocidaria, difficile da smentire, ormai persino giuridicamente, almeno sul piano programmatico, se si sta al solenne rimando biblico delle parole pronunciate il 20 di quel mese dal leader israeliano Netanyahu (2).
E se si dà come immediatamente evidente l’”atrocità” dell’azione condotta da Hamas, è chiaro che essa “deve essere analizzata e non solo condannata” quindi collocata in una più ampia riflessione sulla violenza pregressa e strutturale nella storia, che abbraccia l’interezza della vicenda umana, e che da sempre dolorosamente contempla l’impiego di “mezzi che sono incompatibili” con i fini, soprattutto da parte degli offesi (com’è stato, a suo tempo, per gli stessi ebrei). Tuttavia, prosegue l’Autore, “questi mezzi incongrui e riprovevoli sono stati utilizzati in una lotta legittima contro un’occupazione illegale, disumana e inaccettabile” (p.58), dunque all’interno di una relazione macroscopicamente asimmetrica, che invocava il terrore reattivo degli esclusi. Allora il 7 ottobre rappresenta “l’estrema conseguenza di decenni di occupazione, colonizzazione, oppressione e umiliazione”, in un crudele, e inevitabile, effetto valanga che ha costretto Hamas a rimettere “tutto in gioco imponendosi come attore ineludibile del conflitto”. Cosicché, “grazie ad Hamas i palestinesi sono sembrati in grado di passare all’offensiva e non solo di subire”. Una sana posizione politica, sulla vicenda, che prenda realisticamente atto “della forza della disperazione”, impone, pertanto, “non certo di idealizzarla, ma (…) di comprenderla per coglierne le radici“ (p.59). Come ha sottolineato il Presidente delle Nazioni Unite Antonio Guterres, “il 7 ottobre non è avvenuto nel vuoto” (p.58). E il sanguinoso colpo inferto dall’organizzazione allo stato occupante ha consentito di ricollocare lo scandalo della Palestina al centro della vicenda mondiale, costringendo la cronica efferatezza del prepotere coloniale a una ruvida dialettica ancora aperta, feroce e senza esclusione di colpi, ma aperta.
Ma la globalità della problematica apertasi da quel giorno, mostra Traverso in pagine di grande densità concettuale, si irradia e disperde incontrollabilmente in ogni direzione, palesando un sovraccarico di senso, che investe bensì politica e geo-politica, ma si estende a fattori identitari e culturali, che riguardano l’ individualità di Israele, la sua storia come erede e lascito della tragedia novecentesca, l’originaria e ambigua ambizione emancipatoria, l’insieme dei valori fondativi e dei vizi d’origine, l’uso abile ma “industriale” e usurato della memoria (3), la miseria riduzionista e strumentale che stancamente replica la sovrapposizione di anti-semitismo e anti-sionismo, la rivendicazione di una metastorica extra-territorialità etica – soprattutto il suo destino, nel momento in cui la politica irresponsabile delle sue leadership si cimenta nella forzatura estrema e arrogante di una via senza compromesso possibile. Col proprio, cieco fallimento di civiltà. Sullo sfondo, quello intimamente connesso del putiniano ”Occidente collettivo”, che in Israele ha oggi la sua epitome, stretto tra altisonanti proclami di centralità metastorica e l’evidenza di una bancarotta e di una marcescenza nel tempo che non promettono nulla di buono.
Eppure, dentro e a fianco di quel paese non sono mancate le voci visionarie che contro quell’involuto vizio d’origine identitario avevano messo in guardia. Esse servono a Traverso non solo a diversificare il paesaggio di un’anima ebraica, che è molto più ricca e complessa di quanto il collo di bottiglia attuale non dica, ma anche a offrire il panorama di una ricchezza e inquietudine culturale oppositiva, che la selvaggia “critica delle armi” di Netanyahu (e dei suoi simpatizzanti, variamente dislocati) cancella nel dominio della violenza statuale e in quello della narrazione autorizzata. Ad esempio, quella di Hanna Arendt, che già nel 1948 prefigurava il disastro immanente al progetto sionista e l’”incubo” di un paese chiuso e rannicchiato nel suo feroce esclusivismo. E altri ancora, come Martin Buber, o Judah Magnes, persuasi della validità “profetica” di uno stato bi-nazionale, modello e stimolo ad “altri” e più umani rapporti tra popoli e stati, in convergenza col mai dimenticato Edward Said. A questa visionaria e paradossale provocazione sembra associarsi Enzo Traverso, con quel classico ottimismo della volontà, che allo stato delle cose, non può che richiamare le parole di Majakovskij: Per l’allegrezza / il pianeta nostro è poco / attrezzato. / Bisogna strappare la gioia / ai giorni futuri.
Note:
(1)“Sono i palestinesi a pagare il debito che l’Europa ha contratto nel corso dei secoli nei confronti degli ebrei” (p.75).
(2)“Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”. (Samuele, 15,3)
(3)Ci riferiamo al testo dello storico e attivista ebreo statunitense Norman Finkelstein L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, (ed. it. Rizzoli, 2002).