Sulla prima pagina de Il Manifesto campeggia ancora oggi la scritta “quotidiano comunista”. Proprio per questa ragione, troviamo alquanto curioso il fatto che, negli ultimi anni, sulle pagine di questo giornale si siano moltiplicati gli articoli che tendono ad attaccare i Paesi socialisti, soprattutto la Cina, ma anche la Corea del Nord e persino Cuba. Sia chiaro che non stiamo dicendo che bisognerebbe farne un’agiografia acritica, ma da un quotidiano che ancora si definisce “comunista” ci aspetteremmo quanto meno una postura più analitica e che non vada a replicare gli stessi schemi della stampa borghese. Altrimenti, tanto varrebbe leggere La Repubblica o il Corriere della Sera.
L’ultimo esempio in tal senso è rappresentato da un articolo uscito lo scorso 4 gennaio a firma di Umberto Rossi, una sorta di recensione del saggio Riflessi di guerra: Storia e antirealismo nella narrativa di Viet Thanh Nguyen, opera del ricercatore Giacomo Traina, nel quale si analizzano gli scritti di Nguyễn Thanh Việt, accademico e autore vietnamita-statunitense, che diventa il pretesto per fare del revisionismo storico circa le vicende del Vietnam nello scorso secolo.
Prima di tutto, sarebbe interessante capire chi è Nguyễn Thanh Việt, meglio noto al pubblico occidentale con il suo nome “americanizzato” di Viet Thanh Nguyen. Professore della University of Southern California, Việt proviene da una famiglia nordvietnamita che aveva chiaramente una posizione anticomunista, tanto da emigrare nella parte meridionale dopo la sconfitta definitiva dei colonizzatori francesi, nel 1954. Le vicende della famiglia di Việt non sono ben chiare, e non sappiamo dirvi se la sua famiglia fosse legata direttamente al regime coloniale francese, ma certamente erano di religione cristiana, una comunità che ha a lungo osteggiato i comunisti vietnamiti, istigata prima dalla Francia e poi dagli Stati Uniti. Fatto sta che l’autore nasce nel 1971 in quello che allora era il Vietnam del Sud, poco prima della riunificazione del Paese, nel 1975. A questo punto, non dovrebbe sorprendere il fatto che, immediatamente dopo la riunificazione, la famiglia di Việt sia emigrata negli Stati Uniti, prima in Pennsylvania e poi in California, dove si concentra la maggioranza della diaspora vietnamita.
Sebbene sia sempre stato uno scrittore prolifico, il successo letterario di Việt giunse nel 2015 con la pubblicazione di The Sympathizer [Il Simpatizzante], libro che venne poi insignito del Premio Pulitzer per la letteratura di finzione, facendo di Việt il primo asiatico-statunitense a ricevere l’importante riconoscimento. Successivamente, ha pubblicato un altro romanzo, The Committed [Il militante] (2021), la raccolta di racconti The Refugees [I rifugiati] (2017) e numerosi altri saggi, molti dei quali legati alla sua attività accademica. Nella maggioranza delle sue opere, Việt esplora il significato del suo “essere vietnamita”, ricostruendo avvenimenti storici e fornendo una visione nuova sulle vicende storiche recenti del Vietnam.
Eppure, i lavori di Việt vengono utilizzati, nel suddetto articolo de Il Manifesto, per dare adito ad una sorta di revisionismo storico che tende a mettere tutte le forze in campo sullo stesso piano (un po’ come fanno coloro che vorrebbero equiparare i repubblichini di Salò ai partigiani). “Ha iniziato così a incrinarsi quell’immagine manichea della guerra del Vietnam ereditata dagli anni Sessanta e Settanta, per cui a seconda dello schieramento si potevano osannare come eroi i vietcong o i marines”, afferma nel suo articolo Umberto Rossi, il quale poi afferma la necessità di “per decostruire il concetto ormai insostenibile della lotta del popolo vietnamita monoliticamente unito contro la dominazione straniera”.
Questo tentativo assai forzato di mettere sullo stesso piano i Việt Cộng con i marines statunitensi tende forse a dimenticare un fatto banale ma fondamentale, ovvero che è stato l’imperialismo statunitense ad occupare il Vietnam, e non il contrario. Così come, se è vero che non tutto il popolo vietnamita era unito “monoliticamente” nella lotta contro la dominazione straniera, è altrettanto vero che la maggioranza di coloro che non lo erano occupavano incarichi di prestigio al servizio prima dei colonizzatori francesi e poi degli imperialisti statunitensi, insomma facevano parte proprio di quell’ élite privilegiata contro la quale combattevano i comunisti, magari all’interno di quel governo che gli stessi vietnamiti chiamavano nguy, “fantoccio”, come ricorda Tiziano Terzani nel suo libro Giai Phong! La liberazione di Saigon.
Proprio la liberazione di Sài Gòn rappresenta un altro esempio della genuflessione culturale al soft power statunitense dell’autore dell’articolo, al punto tale che, in un passaggio successivo, Rossi parla de “la caduta della città allora chiamata Saigon”, facendo proprio il vocabolario degli imperialisti nordamericani, che parlano appunto di Fall of Saigon, anziché di liberazione (Giải phóng Sài Gòn), come invece faceva Terzani e come fanno tuttora i vietnamiti, per i quali il 30 aprile è festa nazionale. A tal proposito, si afferma anche che “non ci fu alcun lieto fine perché, dopo la vittoria del Nord, si ebbe un’autentica fuga di massa da un paese devastato e impoverito, col sud «punito» dal governo del Nord ora diventato nazionale”.
Certamente, dopo la fine della guerra vi fu un forte esodo dal Vietnam, ma a fuggire furono soprattutto gli nguy di cui sopra. Per costoro, non vi sono dubbi, “non ci fu alcun lieto fine”, così come non vi fu un lieto fine per i repubblichini il 25 aprile 1945, o per i corrotti del regime di Fulgencio Batista a Cuba il 1º gennaio 1959. Inoltre, si lascia surrettiziamente intendere che il governo del Partito Comunista operò una sorta di repressione nei confronti dei propri concittadini meridionali, cosa storicamente non vera e smentita dallo stesso Terzani (vi erano certo dei campi di rieducazione, ma non vi fu alcuna repressione di massa), mentre il Vietnam era “devastato e impoverito” da decenni di guerra quasi ininterrotta e di sfruttamento a causa della colonizzazione francese e dell’invasione statunitense, e non certo dalle politiche del governo comunista.
Ci si dimentica, ad esempio, che nel Vietnam del Nord sotto il controllo comunista l’alfabetizzazione era stata estesa praticamente a tutta la popolazione, mentre al momento dell’unificazione il Sud aveva un tasso di alfabetizzazione pari al 5%. Il governo di Hà Nội, lungi dal voler “punire” il sud, fu costretto a rimettere in pratica una campagna di alfabetizzazione per milioni di persone, oltre a dover allineare il sistema economico delle due metà del Paese, compito assai arduo visto che nel frattempo nel nord era già in vigore da tempo un’economia pianificata di tipo socialista, mentre il sud restava basato su un’economia prettamente feudale ed arcaica, con la sola eccezione della sviluppata citta di Sài Gòn, i cui servizi erano stati resi efficienti per servire gli interessi di francesi e statunitensi, oltre che dell’élite locale.
Leggendo l’articolo di Umberto Rossi, quello che colpisce è che, mentre si prodiga nel revisionismo storico sul Vietnam socialista, in nessun passaggio vengono citate le dure critiche effettuate da Nguyễn Thanh Việt nei confronti dell’imperialismo statunitense. Chiariamo: Việt, come detto, proviene da una famiglia anticomunista, e nel corso del tempo non ha fatto mancare le critiche nei confronti del governo vietnamita, ma, essendo un intellettuale ed un accademico di indubbio valore, è anche stato fortemente critico contro ogni forma di colonialismo e di imperialismo, prendendo anche posizione a favore della causa palestinese, firmando anche un appello al boicottaggio delle istituzioni culturali israeliane, ma di questo non v’è traccia nell’articolo del sedicente quotidiano comunista.
Việt, ad esempio, afferma di aver sentito la necessità di scrivere sulle vicende del Vietnam del XX secolo dopo aver guardato vari film statunitensi sull’argomento in cui la parte vietnamita non veniva rappresentata o veniva rappresentata come incapace di agire. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, in particolare, Việt ha affermato che “Hollywood è un ministero della propaganda non ufficiale” in grado di portare avanti una guerra psicologica e culturale non meno importante di quella fatta con le armi al fine di “esercitare il dominio americano”. “Questi film mi stavano bombardando in un senso intellettuale ed emozionale”, ha proseguito Việt, individuando in questo modus operandi un modello di dominio, potere e soggiogamento che si ripete nel tempo.
Cosa ancora più grave, la visione critica del cinema statunitense proposta da Việt, in particolare rivolta contro il regista Francis Ford Coppola ed al suo Apocalypse Now, che secondo l’autore “ha trattato i vietnamiti come oggetti di scena, semplice sfondo colorato di una tragedia tutta americana”, è ben presente nel libro di Giacomo Traina, ma viene quasi del tutto ignorata dal nostro Umberto Rossi, troppo occupato a criticare il Vietnam socialista per soffermarsi sul soft power statunitense. Việt, giustamente, ritiene invece che il soft power statunitense sia un elemento fondamentale dell’imperialismo nordamericano, almeno quanto il suo hard power, quello che si esplicita con le guerre.
Nguyễn Thanh Việt ha anche spesso affrontato il tema delle discriminazioni alle quali vengono sottoposti gli asiatici negli Stati Uniti, in particolare nel periodo della pandemia di Covid-19, durante la quale si è diffusa una vera e propria sinofobia, coinvolgendo anche altre persone asiatiche seppur non di origine cinese. “Il sentimento anti-asiatico negli Stati Uniti non è una novità”, ha dichiarato lo scrittore in un’intervista rilasciata alla NBC in quell’occasione. “La storia della violenza contro le persone di origine asiatica risale all'inizio dell'immigrazione asiatica nel Paese. Queste persone furono portate negli Stati Uniti e sfruttate come manodopera, diventando bersagli di razzismo, discriminazione di genere e sfruttamento", ha dichiarato. Secondo Việt, questo razzismo è strettamente legato all'atteggiamento generale degli Stati Uniti nei confronti dell'Asia, risalente al XIX secolo, quando gli Stati Uniti iniziarono a guardare verso l'Asia, in particolare verso la Cina, per sfruttarne le risorse.
La posizione di Nguyễn Thanh Việt, seppur non allineata con quella del governo vietnamita, appare dunque essere molto più critica nei confronti del mainstream statunitense e dell’imperialismo nordamericano, al punto che i suoi successi sono stati apprezzati anche in Vietnam. Non a caso, la sua decorazione al Premio Pulitzer è stata riportata da tutti i media vietnamiti, con grandi elogi nei confronti dell’autore, e alcune delle sue opere sono state pubblicate anche nella sua lingua d’origine, come la raccolta The Refugees, tradotta con il titolo di Người tị nạn e pubblicata in Vietnam dalla casa editrice Nhà sách Phương Nam. Ad ogni modo, il nome di Nguyễn Thanh Việt è diventato noto anche in Vietnam, e nel 2022 ha rilasciato una lunga intervista pubblicata sul sito ufficiale della Facoltà di Letteratura dell'Università di Scienze Sociali e Umane di Hồ Chí Minh City.
Per quanto riguarda la questione dei campi di rieducazione, poi, lo stesso Nguyễn Thanh Việt ne ha parlato in un’intervista rilasciata proprio a Giacomo Traina e pubblicata sulla rivista accademica ACOMA, dalla quale si evince che quanto descritto, seppur attribuito ai comunisti vietnamiti, vuole in realtà essere un modo per criticare le tecniche utilizzate ancora oggi proprio dalla CIA: “Non sapevo se utilizzassero o meno le tecniche della CIA nei campi di rieducazione. Ho soltanto pensato che vi fosse una buona possibilità che lo facessero, dato che presumibilmente quelle stesse tecniche di interrogatorio erano state applicate ai prigionieri Việt Cộng e nordvietnamiti durante la guerra, questa era la mia ipotesi”, ha dichiarato Việt, il quale afferma di aver ripreso le tecniche dal manuale KUBARK, il libro di riferimento utilizzato dalla CIA per torturare ed estorcere confessioni ai nemici nel corso del conflitto del Sud-Est asiatico.
Tornando, in conclusione, all’articolo de Il Manifesto, se da un lato è legittimo e necessario esercitare una critica nei confronti di qualsiasi sistema di governo, incluso quello vietnamita, dall’altro risulta problematico quando tale critica riproduce narrazioni che di fatto rafforzano il soft power occidentale. Nguyễn Thanh Việt, pur essendo distante dalle posizioni del governo vietnamita, offre un'analisi lucida e profonda delle dinamiche imperialiste e delle discriminazioni sistemiche negli Stati Uniti, elementi che avrebbero meritato di essere evidenziati con maggiore attenzione.
Alla luce di quanto emerso, si rende evidente che la lettura proposta da Umberto Rossi sulle pagine de Il Manifesto non solo si allontana da un approccio realmente analitico, ma rischia anche di avvalorare una visione distorta della storia e del presente, facendo - volens nolens - il gioco della narrazione dominante.