Hiroshige: visioni dal Giappone

Una significativa mostra a Roma su uno dei più importanti artisti giapponesi.


Hiroshige: visioni dal Giappone Credits: https://epicjapanart.com/2018/04/08/hiroshige-the-ukiyo-e-master-of-nature/

Fino al 29 luglio è possibile ammirare alla Scuderie del Quirinale circa 230 opere di uno dei più celebri artisti giapponesi del Mondo Fluttuante (ukiyoe), provenienti da alcune delle più prestigiose collezioni giapponesi, statunitensi e italiane. Così, a breve distanza, è stato possibile ammirare a Roma due notevoli esposizioni di due dei massimi artisti figurativi nipponici. Se Hokusai è certamente uno dei più significativi pittori e incisori della storia mondiale dell’arte, Hiroshige è un incisore e pittore di indubbio valore che ha influenzato, come il primo, in modo decisivo l’arte occidentale moderna dall’impressionismo, al post-impressionismo fino all’espressionismo di Van Gogh. Dunque se la prima mostra è stata certamente più notevole, avendo esposto le opere di un genio assoluto dell’arte orientale, la mostra alle Scuderie non è stata meno significativa, avendo esposto in modo molto meglio fruibile un artista comunque di genio. Gli spazi espositivi delle Scuderie del Quirinale sono decisamente migliori, di quelli troppo attufati dell’Ara Pacis, dove sono stati esposti diversi capolavori di Hokusai.

Hiroshige, che ha operato essenzialmente nella prima metà del diciannovesimo secolo, è della generazione successiva a quella di Hokusai. Dunque, pochi anni dividono la realizzazione dei capolavori dei due maestri, anche perché Hokusai è vissuto più a lungo di Hiroshige. Si tratta però di anni decisivi per la storia del Giappone, che dopo secoli di chiusura è costretto con le buone e con le cattive ad aprirsi al mondo occidentale. Dunque mentre Hokusai ha essenzialmente influito lo sviluppo dell’arte occidentale, il rapporto di Hiroshige è più complesso, in quanto ha tanto influenzato, quanto è stato a sua volta influenzato dalle arti visive occidentali. Anche perché Hiroshige ha avuto la fortuna di formarsi alla scuola Utagawa, che per prima ha introdotto in Giappone lo studio dello stile occidentale.

Perciò l’opera di Hiroshige è decisamente più ispirata non solo dalla prospettiva lineare di derivazione occidentale, ma anche dalle nuove strumentazioni ottiche in questa fase decisiva per l’affermarsi della fotografia. Da questo punto di vista nella mostra di Hiroshige lo spettatore occidentale si sente meno straniato, più a casa propria, non solo perché generalmente ha potuto ammirare da poco la mostra di Hokusai, ma perché il linguaggio pittorico di Hiroshige è decisamente maggiormente influenzato dalla cultura occidentale e, a sua volta, venendo dopo ha maggiormente segnato di sé lo sviluppo delle arti visive occidentali.

Inoltre, e questo è certamente un aspetto altrettanto dirimente, mentre Hokusai è sotto molti aspetti un genio assoluto ma maledetto, quasi quanto Van Gogh che ha così a fondo influenzato, al contrario la vita e l’arte di Hiroshige sono decisamente meno romantiche, più classiche, meno estreme e più conformi alla moda e al gusto dominante. Sotto certi aspetti è più vicino a un Monet, che non a caso ha sensibilmente influenzato.

Da questo punto di vista mentre Hokusai è indubbiamente un puro genio, che ha dato una regola completamente nuova all’arte, Hiroshige pur essendo certamente un grande e raffinatissimo artista oltre a opere di genio ha prodotto anche molte opere di maniera, o quanto meno più assimilabili al manierismo. Se Hokusai è indubbiamente, per utilizzare il celebre binomio goethiano, un’artista più “sentimentale”, Hiroshige è decisamente un’artista più “ingenuo”, anche se ovviamente non si tratta di un’ingenuità primigenia, ma “moderna”, come appunto quella di Goethe. Mentre l’opera di Hokusai è molto più intimamente sofferta, ha uno sfondo decisamente più tragico che la avvicina all’arte sentimentale di uno Schiller.

Se lo stile di Hiroshige è sotto certi aspetti più avanguardistico per la capacità di fare proprie le conquiste delle arti visive e anche tecniche occidentali, dall’altra parte anche per i temi trattati appare decisamente più conservatore. Innanzitutto perché la sua produzione artistica è decisamente più condizionata, nel bene e nel male, dalle logiche di mercato, che proprio allora cominciano ad affermarsi in Giappone. Inoltre è un artista che ha avuto una vita meno travagliata e tragica di quella di Hokusai, ha potuto in qualche modo sviluppare in modo più sereno la propria arte trovandosi, ben presto, sotto l’ala protettiva del potere allora dominante.

Il suo stile è, dunque, decisamente più impressionista di quello già espressionista di Hokusai. Da questo punto di vista la sua arte segna, in qualche modo, un ritorno all’ordine rispetto alla carica decisamente più rivoluzionaria e capace di rompere gli schemi di Hokusai. Perciò il vero artista d’avanguardia è piuttosto Hokusai, mentre Hiroshige ci appare un artista in ultima istanza post-avanguardista, che riscopre in qualche modo il classico, un po’ come l’arte figurativa europea degli anni trenta, rispetto a quella decisamente più estrema e innovativa degli anni venti.

Per utilizzare le categorie della Critica del giudizio di Kant, potremo dire che l’arte di Hiroshige è più legata all’equilibrio prodotto dall’esperienza estetica del bello, mentre l’opera di Hokusai già si avvicina a un’opera che favorisce l’esperienza più profonda e sofferta del sublime dinamico. Così mentre l’arte di Hiroshige indubbiamente ci piace in quanto soddisfa la nostra esigenza di ordine, di ritrovare la razionalità anche in ciò che non è un nostro prodotto, come la natura, l’arte di Hokusai ci provoca godimento estetico proprio perché è in grado di rafforzare in noi la superiorità della nostra morale interiore su tutto ciò che esteriormente appare tanto più potente di noi.

Non a caso l’arte di Hokusai raggiunge il suo vertice nelle raffigurazioni dell’enorme mole del Monte Fuji, un abnorme vulcano che rappresenta anche il più alto rilievo del Giappone, dove hanno sede gli dèi naturali dell’antichissima visione del mondo mitologico-religiosa giapponese, quali rappresentanti delle smisurate potenze della natura. Non a caso la sua opera più nota è la grande, abnorme onda che sta per abbattersi sulla costa di Kanagawa e che rischia di travolgere e spazzare completamente le fragili imbarcazioni umane che hanno la sventura di trovarsela dinanzi. Al contrario quando Hiroshige prova a confrontarsi con lo stesso tema dell’onda anomala, non provoca in noi l’esperienza sublime dello Tsunami raffigurato da Hokusai, ma piuttosto, nonostante tutto, l’esperienza del bello, come si deduce già dal titolo Il mare a Satta nella provincia di Suruga. In tale opera, pur avendo in primissimo piano delle onde altrettanto anomale, esse fanno da enormi quinte che aprono una prospettiva decisamente più classica e tranquillizzante, ossia un mare in contrasto assolutamente piatto in cui veleggiano tranquillamente le imbarcazioni umane, del tutto al di fuori del pericolo, con su lo sfondo la classica visione del monte Fuji, che dà un senso di stabilità e di quiete dopo la tempesta. Quindi abbiamo da una parte la più classica tempesta romantica pronta a distruggere fisicamente le incaute presenze umane nelle sue vicinanze, ma che provocano nello spettatore, posto al riparo, quel senso di superiorità morale, che ci conferma della nostra capacità interiore, razionale e spirituale di andare al di là delle più sfrenate forze della natura. Dall’altra abbiamo essenzialmente la raffigurazione della quiete dopo la tempesta, dove il valore di quest’ultima è in funzione di contrasto per meglio far emergere il successivo ritorno all’ordinario dominio tecnico dell’uomo sulla natura.

Del resto. non a caso la vetta dell’opera di Hiroshige non si raggiunge nella raffigurazione del sublime matematico del Monte Fuji, ma piuttosto nelle Cento vedute famose della città di Edo, l’odierna Tokio, la città allora più grande del mondo, ossia l’emblema della capacità dell’uomo di costruire una “seconda natura” fondata sul finalismo razionale.

D’altra parte, nella pittura di Hiroshige è sempre il paesaggio, tanto naturale, quanto urbano ad avere assoluta preminenza sulla presenza umana. A dimostrazione di un suo sostanziale naturale allineamento alla tendenza dominante di tutta l’arte giapponese di passare, senza soluzione di continuità, da una visione del tutto panica della natura, diremmo noi rinascimentale e spinoziana, ma in realtà fondata sull’antichissima concezione del mondo mitologico-religiosa giapponese, alla visione di un orizzonte urbano dominato essenzialmente dalla tecnica. Natura e tecnica sono in entrambi casi raffigurati come delle totalità organiche di cui l’uomo è parte, non il centro, né il dominatore, secondo le concezioni affermatesi in occidente con l’Umanesimo, il Razionalismo e culminate nell’Illuminismo, nel senso più ampio che danno al termine i francofortesi.

Abbiamo, così, da un lato la riscoperta della tradizione più antica della cultura giapponese, di questa visione organica e tutta vivente della natura, in cui ogni elemento naturale è in ultima istanza una teofania e in cui l’uomo è perfettamente e, altrettanto organicamente, integrato come parte del tutto, da cui deriva e in cui soltanto raggiunge il proprio vero significato. Prevale qui l’attitudine quietista e contemplativa dell’uomo che supera così la propria limitata finitudine, sempre preda delle tenebre del quotidiano, elevandosi all’infinitezza dell’uno-tutto, del Deus sive Natura. Dall’altra parte ritroviamo l’uomo come particolare altrettanto organicamente amalgamato nel paesaggio urbano, che proprio in questa nuova totalità, tecnica e artificiale assume il proprio senso, superando i proprio limiti di singolo finito, che non ha in sé la propria verità.

In questa visione del mondo la figura umana spicca essenzialmente nella forma ornamentale della geisha o della raffinatissima cortigiana, o come strumento dello sguardo ironico che dall’artista si trasmette al pubblico. Un’ironia essenziale all’affermazione dell’autocoscienza in quanto tende a superare, a cogliere nella sua limitatezza ogni aspetto della vita quotidiana della cui cura sono prigionieri gli uomini inferiori, di basso rango, condannati a un’esistenza deietta.

Arriviamo così ai grandi limiti di un artista per altro così eccelso, dotato e raffinato. Innanzitutto il classismo e il maschilismo, per cui tutti i membri delle classi lavoratrici sono considerati ironicamente come semplici strumenti al servizio delle classi dominanti. Mentre le donne sono rivalutate solo come oggetto di piacere da parte dell’uomo. In secondo luogo la completa mancanza di una prospettiva storica, che consente di ricomprendere i singoli aspetti del reale come momenti del suo sviluppo. Così le opere di Hiroshige possono essere paragonate una serie di istantanee, scattate dal Grand Hotel sull’abisso in cui sta per precipitare, del tutto inconsapevolmente, l’Epoca Edo (1600-1868) di cui Hiroshige è l’ultimo, inconsapevolmente tragico, cantore.

05/05/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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