Il saggio di Traverso è la versione italiana dell’introduzione alla pubblicazione a Londra e New York, da parte della casa editrice Verso, de La distruzione della ragione di Lukács. L’obiettivo del saggio è di ricomprendere l’opera nel contesto storico in cui è nata e di interrogarne l’attualità alla luce del fatto che l’irrazionalismo da ideologia di estrema destra ha oggi successo anche a “sinistra”, in ideologie antiumaniste e antiuniversaliste. Traverso propone una rilettura critica di un grande autore marxista troppo spesso dimenticato. A conclusione del volume è posta la traduzione del saggio di Lukács: Grand Hotel “Abisso”, considerato un utile complemento a La distruzione della ragione.
Traverso pone sullo stesso piano questo saggio, che sarebbe espressione dello stalinismo di Lukács, con l’importanza di studiare anche le opere di autori nazisti o ultrareazionari. L’intento dell’autore è di portare avanti una critica impietosa, in primo luogo, del socialismo reale. Per Traverso “rileggere La distruzione della ragione è quindi parte di una necessaria storicizzazione critica dello stalinismo” [1]. Al punto che Traverso definisce l’opera di Lukács “un’esplicita apologia filosofica dello stalinismo” (22).
Traverso mostra in seguito (cfr. pp. 27-31) che l’opera di Lukács conclude una interpretazione critica del nazismo come irrazionalismo, che si era sviluppata fra diversi dei principali intellettuali tedeschi nel mondo occidentale. Traverso ne conclude: “le discrepanze fra Lukács e Adorno, Arendt e Strauss, erano certamente molto significative, ma tutti si erano ritrovati nello stesso campo durante lo spartiacque storico della Seconda guerra mondiale, in un conflitto ideologico che, ben oltre due alleanze militari e politiche, opponeva due visioni del mondo: le forze dell’Illuminismo contro quelle dell’irrazionalismo, l’alleanza provvisoria fra il comunismo e la democrazia liberale contro il fascismo” (31). Anzi Traverso giunge alla conclusione che “il manicheismo de La distruzione della ragione rispecchia quello dei vincitori della seconda Guerra dei trent’anni” (37). Questa contestualizzazione delle tesi dell’opera di Lukács è decisamente in contraddizione con la sua precedente sostanziale liquidazione come “esplicita apologia filosofica dello stalinismo”.
Finalmente l’autore prova alla pagina 38 a dare conto dei suoi giudizi tranchant, almeno altrettanto manichei dell’opera che intende criticare. La tesi di Lukács parte dalla critica della cultura della Restaurazione, quale culla dell’irrazionalismo. Tale parabola si sviluppa con la reazione ideologica alla Comune di Parigi che porta all’aperto irrazionalismo di Nietzsche. I passaggi successivi sarebbero stati il vitalismo e l’esistenzialismo heideggeriano. Le critiche di Traverso sono rivolte alle forzature delle tesi di Lukács che, sostanzialmente metterebbe in evidenza esclusivamente gli aspetti negativi degli autori che intende criticare. Inoltre l’autore si dimostrerebbe dogmatico nella sua condanna della decadenza della cultura borghese, non includendo in tale critica la sua stessa opera giovanile premarxista. Si tratta di critiche finalmente determinate e sensate. D’altra parte, è evidente che se si vuole mostrare come la filosofia borghese da rivoluzionaria fino ai tempi di Hegel, diventi progressivamente controrivoluzionaria dopo la conquista del potere, è naturale che si dia conto dell’andamento complessivo del fenomeno, senza dare conto di tutte le secondarie controtendenze. Allo stesso modo, considerate le difficoltà incontrare da Lukács nel furore della guerra fredda all’interno delle suo stesso campo, per le sue posizioni critiche e antidogmatiche, diviene anche comprensibile la sua necessità di mostrarsi fedele alla linea condannando in blocco la filosofia borghese dell’epoca dell’imperialismo e cercasse, al contempo, di occultare le sue stesse colpe giovanili, per non essere alla mercé dei suoi dogmatici critici. D’altra parte la critica di dogmatismo potrebbe essere facilmente rigirata a Traverso che si dimostra inflessibile nel criticare Lukács – in quanto si sarebbe dimostrato servile nei confronti dello stalinismo, pur avendo rischiato la vita per le sue posizioni non allineate – e naturalmente non dice nulla del suo continuo autocensurarsi e del suo insistito accanimento, del tutto adialettico, contro il socialismo reale, dal momento che altrimenti non potrebbe certo continuare a insegnare nell’università della potenza imperialista più aggressiva del mondo.
Certo, sicuramente, Traverso ha ragione nel sostenere che la deriva ideologica che ha portato al nazismo è stata meno lineare di come è stata descritta da Lukács. Ancora più ragionevole è la constatazione che “nonostante i suoi limiti il libro di Lukács possiede tuttavia una forza critica incontestabile” (53).
L’accusa più significativa che Traverso rivolge a Lukács, sviluppando alcune critiche di Adorno, è di aver ridotto la “dialettica a teleologia e la storia intellettuale a una forma di causalità deterministica” (55). Inoltre Traverso sottolinea che “molti pensatori critici – compresi quelli marxisti – furono capaci di pensare con e attraverso i materiali altamente infiammabili forniti dalle critiche di Nietzsche, Heidegger e Schmitt alla modernità, all’universalismo, all’umanesimo, alla democrazia, alla razionalità” (57). Resta però una questione determinante, che Traverso non prende nemmeno in considerazione, cioè ha ragione o torto Lukács nel mostrare come evidentemente il pensiero filosofico borghese è mutato radicalmente nel momento in cui questa classe, da essere la classe universale nella rivoluzione contro il feudalesimo, ha conquistato una parte del potere scendendo a patti con l’aristocrazia. Così un pensiero ancora rivoluzionario nella dialettica hegeliana è divenuto già con il secondo Schelling e poi con Schopenhauer fino a Nietzsche e Heidegger una ideologia in larga parte conservatrice e reazionaria. Certo questa tesi generale, come tutte le generalizzazioni potrebbe essere criticata sostenendo che la realtà è sempre più complessa di ogni universalizzazione. In tal modo, però, si finirebbe per sostenere la tesi reazionaria postmoderna per cui bisognerebbe contrastare ogni universalizzazione.
Un’altra critica significativa, fra tante davvero poco generose, è che “è l’irrazionalismo nazista a rivelare la sua genealogia, la quale si spiega attraverso alcuni snodi storici decisivi – in primo luogo quello della Grande guerra – e non può essere dedotta teleologicamente dai suoi «precursori»” (62). Altro rilievo critico significativo lo si trova quando Traverso osserva: “l’irrazionalismo nazista andava al di là di una deviazione filosofica: era una sintesi di gestione e genocidio, di razionalità produttiva e realizzazioni socialmente irrazionali, di razionalità dei mezzi (l’amministrazione, il management e le procedure scientifiche) e irrazionalità degli obiettivi (il dominio della razza)” (65).
D’altra parte assolutamente inaccettabile e del tutto infondata è la conclusione che ne trae l’autore per cui “sia l’ontologia esistenziale di Heidegger che la teoria della razionalità strumentale di Weber potrebbero servire a svelare il retroterra dell’irrazionalismo nazista, più di quanto non faccia Lukács nel suo libro” (ibidem). Qui si arriva al paradosso di dare la propria preferenza persino a un autore che non ha mai rinnegato la sua adesione al nazismo, pur di dimostrarsi intransigenti nella critica del socialismo reale di cui, in qualche modo, Lukács sarebbe il più significativo rappresentante filosofico. Naturalmente, anche in tal caso, dimostrando di portare avanti lo stesso tipo di dogmatismo rimproverato a Lukács – che sarebbe colpevole di non essersi fatto uccidere per denunciare, quando era al potere, lo stalinismo – mentre nel caso di Traverso non si dice una parola sulle affinità fra l’imperialismo nazista e quello del paese per il quale lavora. Se dovessimo usare lo stesso metodo di adialettica intransigenza che rivolge nei suoi pesantissimi attacchi a Lukács e alla sua grandissima opera – un’opera che Travaglio mai sarà in grado, nemmeno lontanamente, di realizzare – dovremmo accusare questo saggio di essere, per usare la sua stessa terminologia, “una esplicita apologia filosofica” dell’imperialismo occidentale in generale e statunitense in particolare, in quanto per non rischiare di perdere il posto non lo mette mai in discussione.
Non pago dei suoi attacchi a qualsiasi vestigia di socialismo reale, Traverso giunge a sostenere “che Lukács guardava a Stalin nello stesso modo in cui Carl Schmitt guardava a Hitler” (70). Abbiamo un ennesimo parallelismo fra comunismo e nazismo, il quale è invece sempre contrapposto alle “democrazie liberali”. Non pago della sua professione di fedeltà ai più biechi luoghi comuni della propaganda ideologica statunitense fra i due speculari totalitarismi, Traverso arriva a sostenere: “modernizzare la Russia era un’ambizione razionale, ma realizzare questo obiettivo attraverso il ritorno allo schiavismo e al lavoro forzato fu una scelta intellettualmente irrazionale ed economicamente catastrofica. La «razionalità irrazionale» sovietica rovescia esattamente la «contro-razionalità» o, per dirla con Horkheimer e Marcuse, la «irrazionalità razionale» nazista” (71). Paradossalmente Traverso finisce per riprodurre, su scala decisamente allargata, le semplificazioni adialettiche che rimprovera a “La distruzione della ragione” di Lukács, improvvisando una sua versione de “La distruzione della ragione”, evidentemente necessaria a far carriera nel paese imperialista più aggressivo di sempre, ponendo di fatto sullo stesso piano stalinismo e nazismo, per occultare che il nazismo è in realtà una forma di imperialismo. Si arriva così a sostenere, con l’ennesima cattiva generalizzazione adialettica, che “il nazionalsocialismo e lo stalinismo erano due forme antinomiche di irrazionalismo, ma entrambi partecipavano alla stessa dialettica dell’Illuminismo, allo stesso processo di «autodistruzione della ragione»” (72). Naturalmente dopo aver rimproverato a Lukács di non tenere nel giusto conto le prese di posizione antifasciste di Croce e Jaspers, contrappone come modello positivo al filosofo ungherese pensatori come Adorno e Horkeimer, di cui non si mostrano mai i lati negativi, le contraddizioni, i compromessi con l’irrazionalismo e l’imperialismo.
È davvero imbarazzante che l’autore non colga l’attualità della critica di Lukács all’irrazionalismo, nella necessaria critica al postmodernismo quale ideologia dominante, almeno al di fuori dei paesi anglosassoni in cui prevale il neopositivismo. Quindi dal momento che l’ideologia dominante non può che essere l’ideologia della classe dominante, il postmodernismo è oggi espressione dell’imperialismo europeo. Traverso, naturalmente, non coglie affatto il profondo irrazionalismo dell’ala “sinistra” dell’imperialismo, che scambia per la “nuova sinistra”. Anzi auspica, credendo sostanzialmente superato Marx a causa della questione ambientale, il richiamarsi della sinistra a tematiche irrazionaliste, non comprendo minimamente gli aspetti reazionari di certo ambientalismo. Non comprende nemmeno i pericoli dovuti al fatto che larga parte della sedicente intellettualità di sinistra ha introiettato tanti aspetti dell’irrazionalismo. Del resto, abbandonando il marxismo, non si può che essere egemonizzati dall’ideologia dominante, alla quale lo stesso autore del libro per molti aspetti è decisamente subalterno.
In conclusione possiamo osservare che in lingua inglese almeno è uscita una riedizione de La distruzione della ragione a settanta anni dalla sua prima edizione. Il prezzo da pagare all’ideologia dominante è stato di farla precedere da una introduzione volta a scoraggiare la lettura dell’opera, presentandola come un relitto dello stalinismo, con il quale le democrazie occidentali si sarebbero dovute alleare per battere il nazismo, ma ormai del tutto superato. D’altra parte, ancora più catastrofica è la situazione italiana, in cui si pubblica soltanto l’introduzione volta a scoraggiare la lettura dell’opera – necessaria, però, alla sua ripubblicazione nei paesi anglosassoni – mentre nel nostro paese ci si è guardati bene dal ripubblicarla. Al suo posto, per spacciare come un libro la traduzione italiana di un introduzione scritta in inglese da un italiano, si pubblica un breve saggio di Lukács, intitolato Grand hotel “abisso”. Il suo senso è completamente travisato in senso rovescista dall’autore dell’introduzione che lo spaccia come una critica ai comunisti, complici dell’avvento al potere del fascismo, per aver sviluppato la concezione del social-fascismo. Al contrario l’opera è stata scritta contro quei pensatori borghesi “di sinistra” che, come Adorno e l’autore dell’introduzione – un epigono del francofortese – dinanzi ai pericoli per la stessa sopravvivenza del genere umano provocati dall’imperialismo, invece di contrastare quest’ultimo, si ingegnano a fare le pulci a grandi filosofi del passato che si sono battuti contro l’imperialismo del loro tempo.
Naturalmente queste critiche impietose a uno dei più importanti filosofi marxisti e comunisti, accompagnata a una altrettanto liquidatoria e postmoderna disamina del socialismo reale, sono proprie di intellettuali che, esattamente come gli intellettuali borghesi della Repubblica di Weimar, non fanno assolutamente nulla nemmeno per denunciare i rischi posti per la sopravvivenza del genere umano da parte della più aggressiva potenza imperialista del mondo, per la quale lavorano pur non essendo statunitensi. Più o meno è come leggere un autore italiano andato a lavorare in una università della Germania hitleriana che, non solo non denuncia il più pericoloso imperialismo del tempo, ma passa il tempo a gettare fango sulle forze politiche e intellettuali che lo sconfiggeranno, sebbene siano le uniche in grado di farlo.
Note:
[1] Traverso, Enzo, Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre corte, Verona 2022. D’ora in avanti citeremo questo libro direttamente nel testo indicando fra parentesi tonde il numero di pagina di questa edizione.