Per quanto concerna la struttura della Repubblica, Mario Vegetti ne analizza – in primo luogo – il piano compositivo. Nel I libro si indaga con il metodo socratico la questione: che cos'è la giustizia; in esso, dunque, Socrate confuta le posizioni di Cefalo, Polemarco e Trasimaco. Tuttavia, quest’ultima confutazione non soddisfa Glaucone e Adimanto, che riprendono la concezione di Trasimaco nel II libro. Al che Socrate prova a spostare la questione dalla giustizia individuale a quella politica per poter comprendere meglio la prima, scritta nella seconda a caratteri più grandi, e risolvere l’arcano della giustizia individuale nel caso i due testi dovessero coincidere. Nel II e III libro Socrate sviluppa una fenomenologia della formazione della polis dalla sua forma più antica e, attraverso la sua degenerazione, alla forma più moderna che appare ingiusta dal punto di vista individuale e collettivo. Platone ne deduce che per fondare una società giusta sarà necessaria una fase di educazione del suo gruppo dirigente composto dai guardiani. Così nel terzo libro si delinea la struttura che dovrà avere la società giusta. Essa sarà divisa in due ceti fondamentali, il gruppo dirigente composto da governanti e guerrieri e il ceto produttivo, composto da contadini, artigiani e commercianti. Affinché la società sia giusta la ricchezza deve essere separata dal potere, per cui il gruppo dirigente sarà privato della proprietà individuale e sarà remunerato per la propria opera politica e militare dal surplus generato dal ceto produttivo.
Il IV libro, che delinea la città giusta, sostiene che i governanti debbano possedere la sapienza, i guardiani il coraggio e i produttori la temperanza. La città, dunque, sarà giusta quando verrà governata dai più saggi con alleati in funzione subordinata i militari e capacità di egemonia sui produttori. Allo stesso modo l’anima dovrà essere guidata dalla ragione, rafforzata dall’animosità per mantenere sotto il proprio ruolo dirigente i desideri.
Nel V libro gli interlocutori chiedono a Socrate maggiori delucidazioni sul gruppo dirigente. Platone introduce allora due misure rivoluzionarie: il ruolo paritario delle donne e, di conseguenza, la fine della tradizionale famiglia patriarcale, l’educazione comune dei figli e il governo dei filosofi.
Nei libri sei e sette Socrate delinea la figura del filosofo-re, che deve conoscere le idee e il sommo bene, attraverso l’iniziazione alla dialettica, la regina delle scienze. Nei successivi libri VIII e IX Platone tratta della decadenza della kallipolis, con il passaggio alla timocrazia nel momento in cui il coraggio non è più sottoposto alla ragione. In tal modo diviene uno strumento per soddisfare i proprio desideri mediante il denaro e si ha così l’oligarchia. L’oppressione dei più ricchi porterà a una rivoluzione dei poveri subalterni da cui nascerà la democrazia. Qui ognuno darà libero sfogo ai propri desideri. Tale individualismo ed eudemonismo sfrenato rischiano di aprire la strada a una restaurazione dell’oligarchia, per impedire la quale le masse si affideranno a un tiranno. Questi conquisterà l’egemonia perseguitando gli oligarchi, ma finirà per farsi soggiogare dal proprio smodato desiderio sessuale. Il decimo libro riprende la critica alla tradizionale formazione ellenica affidata alle belle arti e sviluppa un mito per rafforzare la fiducia per cui ai giusti spetterà un surplus di felicità nell’al di là, mentre gli ingiusti, oltre a non riuscire a raggiungere la reale felicità in questo mondo, saranno soggetti a terribili punizioni nell’altro.
Dopo questa breve esposizione dei temi portanti della Repubblica Vegetti approfondisce, problematizzando le tematiche affrontate e ponendo giustamente in luce la struttura dialogica delle opere platoniche. Vegetti insiste sul fatto che i personaggi protagonisti delle opere di Platone non sono né semplici personaggi storici, né mere proiezioni del pensiero del loro autore, ma mantengono sempre una loro relativa autonomia, pur essendo il prodotto della genialità di Platone. In tal modo, Vegetti assume una posizione doverosamente critica di tutte le tendenze a interpretare in senso dogmatico le opere destinate, necessariamente, a rimanere aperte di Platone.
Nel terzo capitolo Vegetti ripercorre in senso analitico i temi fondamentali esposti in precedenza della Repubblica. Mentre nel quarto capitolo affronta la storia delle interpretazioni della Repubblica: da quelle antiche a quelle medievali e moderne, soffermandosi – in particolare – sulla fortuna e sfortuna dell’opera nell’ottocento e nel novecento.
Conclude questa eccellente guida alla lettura della Repubblica – opera del più significativo interprete contemporaneo del capolavoro di Platone – una ricca e argomentata appendice bibliografica, strutturata tematicamente.
Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, opera del grande filologo e storico Luciano Canfora, pubblicata da Sellerio editore a Palermo, è un libro indubbiamente interessante, affascinante e decisamente discutibile come la grande maggioranza degli scritti di questo significativo autore.
Canfora parte volendo mostrare che il nesso fra teoria e prassi, posto come caratteristico del suo pensiero da Marx, era già operante fra i filosofi del mondo greco antico. Non avendo fonti sufficienti per andare a fondo nella storia dei presocratici – anche se in tutti costoro, a esclusione di Democrito, vi era uno strettissimo nesso dialettico fra teoria e prassi – Canfora parte dal caso più noto, dibattuto ed esemplare, ovvero Socrate, considerato il prototipo del filosofo antico. Come è noto quest’ultimo, sebbene si fosse per tutta la vita di fatto rifiutato di prendere partito, di sostenere una parte, piuttosto che l’altra, volendosi rivolgere con il suo filosofare all’intera polis, fu duramente perseguitato, fino alla condanna a morte da parte del ceto politico e fu sempre considerato con sospetto dai politicanti di cui – con il suo interrogare ironico – aveva spesso mostrato l’insipienza. Peraltro la sua stessa condanna a morte non può che continuare a essere uno dei cardini della critica alla democrazia, in quanto ne mette radicalmente in discussione il principio di maggioranza. In effetti, Socrate non solo fu inquisito e condannato a morte dalla fazione opportunista di coloro che avevano restaurato la democrazia ad Atene – sebbene la sua esecuzione fosse stata già pianificata dal precedente governo oligarchico – ma fu condannato con una larga maggioranza di una amplissima giuria popolare, di cui erano parte individui di un po’ tutti i ceti sociali, estratti a sorte. Del resto, la critica alla democrazia è uno degli aspetti più significativi da una parte di Socrate-Platone, dall’altra di Canfora. Peraltro nel primo capitolo vi è una ricostruzione del contesto storico, politico, sociale e culturale, in cui matura la condanna a morte di Socrate, davvero magistrale.
Sicuramente ben contestualizzato, avvincente e interessante è anche il secondo capitolo, intitolato: L'esule: vita randagia del cavaliere Senofonte. D’altra parte il tema stesso del capitolo rende evidente quella forzatura interpretativa che caratterizza in particolare questo, per altri aspetti lodevole, volumetto di Canfora. Senofonte ha certamente svolto un ruolo molto significativo come storiografo, per quanto decisamente conservatore, ma considerarlo un filosofo in qualche modo esemplare è davvero discutibile. Certo alcuni suoi scritti sono ritenuti fonti importanti del suo maestro Socrate, ma hanno un taglio e un interesse decisamente più politico che filosofico. Tanto che, come è stato a ragione fatto notare, se si dovesse dar credito a Senofonte sarebbe davvero difficile comprendere perché Socrate sia stato da sempre considerato un grandissimo filosofo, tanto nelle opere del primo il pensiero del secondo è ridotto al senso comune conservatore.
Il terzo capitolo avrebbe dovuto costituire il momento centrale e topico del libro, essendo certamente Platone il filosofo greco che ha più apertamente e coerentemente sviluppato la dialettica fra teoria e prassi, filosofia e impegno storico, politico e socio-economico. Paradossalmente è proprio qui che, da un autore così spregiudicato come Canfora, ci si sarebbe aspettati ben altro. Al contrario, paradossalmente, Canfora finisce sostanzialmente per glissare sugli aspetti più radicali, rivoluzionari, discussi e discutibili del Platone filosofo-politico.
Il successivo capitolo, intitolato un po’ cripticamente Artistotele uno e due, offre una biografia politica dello stagirita troppo spregiudicata e romanzata – in cui lo scrittore di successo prende completamente il sopravvento sul grande filologo – e una più significativa storia dell’opera di Aristotele giunta fino a noi. Questa seconda parte finisce per essere decisamente più significativa della troppo forzata prima parte, in quanto ci illumina di quanto siano stati essenziali i più aperti e acculturati musulmani, dinanzi ai gretti e dogmatici cristiani, per quanto riguarda la nostra conoscenza delle opere di Aristotele. Inoltre, molto significativa nella ricostruzione storica è la presa di coscienza di quanto manipolati siano stati i testi aristotelici giunti sino a noi e quanto artefatta sia anche l’immagine di un Aristotele pensatore sistematico per definizione. Come osserva acutamente a tal proposito Canfora: “l'edizione di Andronico, matrice di tutto quanto nei millenni successivi è stato letto e apprezzato come opera di Aristotele, fu insidiata, in radice, da due inconvenienti: uno fattuale, e cioè la pessima qualità del testo, "depravato" da Apellicone, e uno soggettivo, e cioè il proposito di dare forma organica e compiuta a qualcosa che non era stato mai tale, nemmeno all’origine. L'Aristotele che noi leggiamo discende da quello costruito (più che ricostruito) al tempo di Augusto” [1]. Certo, si potrebbe aggiungere che, per quanto lontano sia dall’Aristotele reale quello a noi tramandatoci dalla tradizione, senz’altro resta presumibilmente meno distante dall’originale, rispetto a quello messo in scena da Canfora, ovvero una spia macedone infiltrata nella scuola di Platone, che avrebbe poi architettato l’assassinio di Alessandro Magno.
Il successivo capitolo, Epicuro e Lucrezio: il senso degli atomi, è al solito ricco di spunti interessanti e significativi, anche se non può non colpire come un filosofo noto per aver teorizzato, ben più dello stesso Aristotele, il totale disimpegno del saggio dall’agone politico, possa divenire un filosofo esemplare del carattere “impegnato” dei filosofi greci. In effetti, il capitolo testimonia le dure persecuzioni subite da Epicuro e dai suoi discepoli per le proprie idee in materia di religione.
Il capitolo conclusivo, Un mestiere pericoloso, si sofferma su come il fondamentalismo cristiano abbia messo in serio pericolo la sopravvivenza stessa dell’antica filosofia greca, nel momento stesso in cui tale religione fu fatta propria dalle classi dominante, sino a divenire religione di Stato, o meglio dell’Impero. Come ha osservato a ragione Canfora: “il pensiero filosofico non cristiano fu allora esposto ad un pericolo estremo: quello di venir cancellato per effetto di una drastica "rivoluzione culturale". Le cose non andarono così perché, nel suo lungo cammino verso l'egemonia, il cristianesimo stesso aveva assorbito non trascurabili elementi di pensiero greco, tanto da cominciare a dividersi e a dilaniarsi in "eresie" proprio per effetto degli elementi filosofici che aveva assorbito in sé. Il passaggio però non fu indolore” [2].
Note:
[1] Canfora, Luciano, Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, Sellerio editore, Palermo 2000, p. 147.
[2] Ivi, p. 191.