Germinal è una miniserie storica franco-italiana formata da sei episodi, ideata da Julien Lilti e diretta da David Hourrègue, disponibile su Rayplay, voto: 9. Puntata pilota perfetta, con finalmente al centro il conflitto sociale, la serie sembra assicurare un notevole godimento estetico e lascia davvero molto su cui riflettere al pubblico. Non solo sono posti al centro dell’attenzione problematiche sostanziali di ordine economico, sociale, politico ed etico, ma il tutto è presentato nel modo più realistico con personaggi tipici che rappresentano in modo dialettico le diverse posizioni all’interno delle classi sociali.
Gli episodi due, tre e quattro riescono, quasi per miracolo, a mantenersi ai livelli davvero fantastici dell’episodio pilota. Vengono analizzati in maniera compiutamente realistica e dialettica il ruolo dei ceti intermedi, il confronto fra grande e piccola borghesia, la funzione dei protofascisti, le differenze fra le generazioni all’interno della classe dominante. Vengono messe bene in luce anche le contraddizioni in seno al popolo, la funzione determinante, anche etica, dell’avanguardia comunista, i rapporti interpersonali in relazioni al conflitto sociale e, infine, la cattiveria dei poveri e il disfacimento anche morale della classe dominante.
Quinto e sesto episodio introducono tutta una serie di complicazioni e di contraddizioni anche se piuttosto realistiche. Certo, ci sono un paio di cadute, in particolare nella rappresentazione del contrasto fra il giovane rivoluzionario e il rappresentante della Terza Internazionale assurdamente accusato di cretinismo parlamentare e nella visione troppo idealizzata del piccolo capitalista innovativo e avanguardista, ma per il resto la serie si mantiene a livelli elevatissimi. Si denuncia, anche se in maniera eccessiva e un po’ irrealistica, l’opportunismo estremista di sinistra degli anarchici nichilisti, ma nel complesso la rappresentazione complessiva resta realistica, i personaggi tipici sono presentati dialetticamente anche nei loro aspetti contraddittori. Anche la conclusione, nonostante la tragicità molto spinta, preserva una catarsi significativa, che apre a una prospettiva di superamento nel senso del realismo socialista, con punti di contatto con la conclusione di Furore di John Ford.
Dopesick – Dichiarazione di dipendenza è una miniserie drammatica statunitense sviluppata da Danny Strong, in otto episodi; In Italia è stata distribuita da Disney+, come Star Original, voto: 9-. Dopesick – Dichiarazione di dipendenza è stata candidata come miglior miniserie e per il migliore attore e la migliore attrice ai Golden Globe. Davvero eccellente è il primo episodio della serie, ben girato, ottimamente interpretato, avvincente ed emozionante. Esso contiene una decisiva denuncia di carattere economico, sociale e politico, ponendo al centro dell’attenzione il conflitto sociale. La serie denuncia la spaventosa diffusione di oppiacei da parte delle multinazionali, a partire dagli Stati Uniti, che hanno provocato degli effetti catastrofici, in particolare fra i ceti sociali più deboli. La serie denuncia come l’obiettivo del profitto possa completamente stravolgere qualsiasi equilibrio ed eticità sin dall’ambito naturale e immediato della famiglia. Inoltre Dopesick evidenzia come le multinazionali siano in grado di suscitare bisogni indotti fra i consumatori, imponendo i propri prodotti. Molto interessanti anche le strategie di marketing e per imporre le loro merci ai medici. Significativa anche la denuncia degli apparati dello Stato, del tutto succubi alla ricerca del profitto privato, a partire dalla Fbi che garantisce, in modo davvero criminale, la non dipendenza che provocherebbero dei pericolosi oppiacei, utilizzati per curare qualsiasi dolore. Molto interessante la sperimentazione che avviene nelle zone più deboli socialmente ed economicamente del paese, giocando sul fatto che i lavoratori, veri e propri working poors, non potendosi permettere di non andare a farsi sfruttare sul posto di lavoro, diventano consumatori e dipendenti degli oppiacei prescritti dai medici. Significativo anche come la cosiddetta comunità scientifica sia del tutto succube all’ideologia dominante e sia, dunque, pienamente corresponsabile della diffusione di queste pesanti droghe fra la popolazione, con l’idea edonistica che bisogna minimizzare i dolori.
Secondo e terzo episodio confermano in pieno il giudizio estremamente positivo dell’episodio pilota, dimostrando ancora una volta quanto possa essere corrotto il sistema ultraliberista statunitense e come, paradossalmente, proprio lì siano realizzati audiovisivi realisti e di denuncia di alcuni aspetti centrali della società capitalista. Emerge così come la corruzione nella società statunitense sia pienamente legalizzata, grazie anche alle ultime liberalizzazioni che si sono affermate dalla presidenza Reagan in poi, per cui un dirigente pubblico, che dovrebbe controllare il privato, può tranquillamente passare a quest’ultimo, attraverso le “porte girevoli”, guadagnando almeno cinque volte di più. Significativo anche il fatto che, nonostante questo marciume, esistano ancora degli individui che coraggiosamente si ribellano, lo denunciano, lo perseguono e lo fanno emergere. Interessante come, a conferma delle tesi elaborate dalla Scuola di Francoforte, nelle società capitaliste il principio del piacere e il fine naturale di una vita felice non sia precluso soltanto ai proletari, ma anche alla borghesia persino la più alta, costretta a condurre una spietata lotta di classe contro il proletariato e al proprio interno contro la concorrenza. Unico neo della serie è che, al solito, manca uno sguardo d’insieme, non c’è il concetto essenziale della totalità e tanto meno della coscienza di classe, per cui un membro della corrottissima e ultraimperialista Dea può passare per una eroina e la resistenza appare essenzialmente individualista.
Anche il quarto e il quinto episodio sono estremamente significativi e mostrano tutto l’assurdo degli ideologi della grande borghesia come Habermas che ritengono che la verità sia il risultato del dialogo all’interno della comunità scientifica. In tal modo, si finge di non conoscere il ruolo spaventoso di indirizzo che mantiene sulla sedicente comunità scientifica il grande capitale. Così si viene a scoprire che lo stesso sedicente articolo scientifico che ha aperto la strada all’abuso degli oppioidi letteralmente non esiste, ma è stato inventato appositamente dalla pseudocomunità scientifica al soldo del grande capitale finanziario. Resta il limite, anche perché almeno in parte si tratta di un limite reale, della mancanza di una opposizione dal basso, di classe, allo strapotere del grande capitale. Sino a che la denuncia viene portata avanti da impiegati dello Stato costretti nell’ingrato ruolo di eroi, in una società sempre più ingiusta e irrazionale, è evidente che lo strapotere delle grandi imprese può essere al massimo scalfito.
Il sesto e settimo episodio, pur rimanendo estremamente significativi nella denuncia del reale “potere forte” del grande capitale all’interno della società statunitense, finiscono con il risultare un po’ pesanti in quanto mancano di una reale prospettiva di superamento e del necessario spirito dell’utopia. Anche se qualche timido tentativo si fa, per esempio, narrando la redenzione del dottore caduto, anche lui, nella dipendenza da medicinali a base di oppioidi. Anche in questo caso il limite consiste, ancora una volta, nel credere di poter individuare il “principio speranza” sempre al livello necessariamente insufficiente e insoddisfacente dell’individuo.
La serie si conclude con un bilancio di quanto le battaglie condotte contro Big Pharma abbiano ottenuto – soprattutto nei rari casi in cui sono divenute mobilitazioni collettive – dei risultati comunque significativi, senza però riuscire a vincere la guerra, in quanto nello Stato imperialista statunitense i proprietari delle grandi imprese restano intoccabili ed evitano sia condanne che serie sanzioni economiche. La catarsi finale, pur mostrando l’importanza dell’impegno e della volontà di riscatto di singoli – che cercano nel loro piccolo di ricostruire una comunità fra i colpiti dagli oppiacei – rischia di rimanere la classica buona intenzione di cui sono lastricate le vie dell’inferno.
Snowpiercer è una serie televisiva statunitense, distribuita in Italia su Netflix, 3x10, voto: 8+; la terza stagione riprende il filo delle precedenti con episodi di alto livello che rimettono al centro il conflitto sociale e, in primo luogo, la resistenza contro l’oppressione classista del grande capitalista. La serie riesce così a garantire godimento estetico lasciando al contempo molto su cui riflettere agli spettatori, anche su problematiche sostanziali. L’aspetto meno convincente è l’eliminazione da parte del grande capitalista delle differenze sociali, in quanto impone un regime totalitario di tipo dispotico in cui tutti divengono suoi subalterni.
Il terzo e il quarto episodio approfondiscono le dinamiche del conflitto sociale con un’analisi accurata, problematica e dialettica dei diversi tipi sociali. Resta la difficoltà di un po’ tutta l’arte contemporanea di rappresentare dinamiche collettive e di classe attraverso dei personaggi individuali, che finiscono per svolgere una funzione troppo preminente, irrealistica e poco verosimile.
Nel quinto e sesto episodio emergono le contraddizioni in seno al popolo nel conflitto fra il principale dirigente rivoluzionario e il tipico esponente dell’individualismo anarcoide. In questa occasione emerge l’intrinseca debolezza del ceto sociale che dovrebbe costituire la base di massa delle forze rivoluzionarie dove sembra prevalere, almeno al livello di coscienza sociale, il sottoproletariato. Del resto, il processo rivoluzionario in atto non dà nessun valore e importanza alla formazione dell’uomo nuovo. In tal modo le sue basi restano decisamente fragili e ciò non può che favorire le forze della reazione.
Dopo sei episodi molto densi ed estremamente coinvolgenti, tutti incentrati sul conflitto sociale. il settimo episodio vira sull’onirico e finisce con l’annoiare. Nell’ottavo episodio la serie torna a essere estremamente coinvolgente e anche commovente, anche se le dinamiche del conflitto sociale finiscono per lo più sullo sfondo.
Anche gli ultimi due episodi confermano l’ottimo livello di questa terza stagione della serie. Il conflitto sociale, come è giusto che sia, torna a essere centrale e determinante. Altrettanto importante è la centralità che assume, anche qui in modo decisamente realistico, lo spirito dell’utopia e il principio-speranza in un mondo radicalmente migliore. Molto interessante anche lo scontro fra due blocchi sociali in una situazione di dualismo di potere e la centralità che assume la lotta per l’egemonia sui decisivi ceti intermedi, cui fanno riferimento, per lo più, tanto gli apparati repressivi quanto gli intellettuali e i tecnici. Stimolanti anche le riflessioni sulla grandezza e i limiti della democrazia, sugli alti fini che giustificano i mezzi indispensabili al loro raggiungimento e sulla necessaria dialettica fra capacità politica di egemonia e di costruire alleanze fra classi differenti e preparazione militare necessaria a impedire la violenza degli apparati repressivi del potere. Peccato che l’essenziale catarsi finale – pur non rendendo l’ultimo episodio unicamente funzionale ad allungare il brodo in vista di possibili nuove stagioni – non vada al di là di una lenta riconquista delle condizioni precedenti di vita.
In nome del cielo (Under the Banner of Heaven) è una miniserie televisiva statunitense creata da Dustin Lance Black in sette episodi, disponibile su Disney+, come Star Original, voto: 8-; serie davvero eccezionale nei primi cinque episodi, cala purtroppo molto nel penultimo e in parte nell’ultimo episodio. Si basa su una storia vera, esemplare del principale pericolo interno negli Stati Uniti d’America, cioè la violenza dei gruppi fondamentalisti religiosi di estrema destra. Molto significativi i due protagonisti, un investigatore mormone e un investigatore nativo, il primo dei quali prende progressivamente consapevolezza di tutti gli aspetti assurdi e criminali che caratterizzano la storia della sua setta religiosa, cioè i mormoni. Emerge così uno dei tanti aspetti davvero terrificanti della storia degli Stati uniti e della colonizzazione del paese che ha prodotto, fra l’altro, il genocidio dei nativi.
Cinque giorni al Memorial, miniserie drammatica statunitense del 2022, ideata da John Ridley e Carlton Cuse, in otto episodi, distribuita in Italia da Apple tv+, voto: 7. Miniserie molto interessante sulla strage conseguente all’uragano Katrina, catastrofe “naturale” – naturalmente prodotta dal modo capitalistico di produzione, che impedisce ogni sano ricambio organico fra uomo e natura – e sfruttata per ripulire la città dai poveri afroamericani e favorire la gentrificazione dell’affascinante centro di New Orleans. Si è trattato dell’ennesimo disastro non solo prevedibile, ma in buona parte previsto, che ha mostrato ancora di più il profondo razzismo indistricabilmente connesso con il classismo così caratteristico dell’imperialismo statunitense. In tale disastro tutto il sistema si dimostra colpevole e complice, dai più alti piani dell’amministrazione, fino agli ultimi esecutori, infermieri caucasici, impegnati a ripulire la scena del delitto da poveri afroamericani impossibilitati a difendersi a causa della malattia. Naturalmente si trattava di fare di quest’ultimo caso troppo eclatante, la classica mela marcia, da togliere di mezzo per preservare la presunta bontà delle altre, colpendo e scaricando tutte le responsabilità sui più umili esecutori della strage. Come spesso avviene, la “giustizia” è così classista e razzista e i gruppi di potere hanno una concezione talmente corporativa e castale per cui, alla fine, anche gli ultimi davvero impresentabili esecutori vengono del tutto scagionati e divengono niente meno che degli eroi, almeno agli occhi dei loro colleghi.
La serie ha dei punti di forza che sono al contempo dei punti di debolezza e che coincidono, a grandi linee, con la grandezza e i limiti dell’opera d’arte nel mondo contemporaneo. L’opera non può affrontare una grande questione sociale, come quella alla base del film, in modo sistematico, come pure andrebbe trattata, ma se ne può occupare, necessariamente, solo da un punto di vista particolare sensibile, attraverso le vicende di alcuni uomini in carne e ossa. D’altra parte, pur narrando eventi particolari, facendolo in modo realistico, riesce a rinviare attraverso essi all’universale.
Va notato che si corre talvolta il rischio di perdersi dietro casi particolari di scarso interesse e di incentrare troppo la vicenda sul vano sforzo di condannare quanto meno i capri espiatori di fatto selezionati dallo stesso sistema.
Inoltre la miniserie tende a presentarsi formalmente, per rafforzare il realismo, come se si trattasse di un reportage, di un’inchiesta, con gli autori che sembrano fare il possibile per evitare di prendere posizione, limitandosi a esporre gli eventi nella loro intrinseca complessità e contraddittorietà. Così abbiamo dei personaggi fin troppo particolaristici, che hanno però anche una valenza tipica. Il fatto che gli autori non prendano apertamente parte, nonostante le tragicamente sconvolgenti vicende trattate, rende più interessante e straniante la vicenda narrata, lasciando molto su cui riflettere allo spettatore. Ciò non toglie che si resta un po’ basiti per la mancanza di indignazione e di empatia dimostrata da autori e produttori. Certo la serie insegna a non pensare astrattamente, in modo intellettualistico e, quindi, a cogliere anche nell’esecutore materiale di un elevato numero di crimini oltre al freddo assassino anche un essere umano persino, a sua volta, vittima del sistema. Dall’altra parte si ha l’impressione che la serie non possa o non abbia il coraggio di mettere realmente in discussione il sistema neanche nei suoi aspetti più indifendibili e raccapriccianti.
Anche la questione della catarsi e della prospettiva di superamento nel finale della tragedia rappresentata resta aperta. Da una parte c’è l’impianto realista e la forma quasi documentaristica che impedisce di individuare e far emergere un’alternativa reale, dall’altra la serie dimostra a ragione come persino nelle stesse tragiche vicende dei colleghi possano assumere posizioni etico-morali anche radicalmente contrapposte. Così, dinanzi alle scelte criminali degli esecutori materiali, abbiamo altri medici che nelle stesse difficoltà e contraddizioni reagiscono in modo ben diverso. D’altra parte non ci si può più sempre e solo limitare a rappresentare la realtà nella sua tragica e contraddittoria complessità, ma si tratta anche di individuare la possibilità di poterla giudicare con dei criteri rigorosi all’interno di una prospettiva etico-politica. Quest’ultimo aspetto resta il principale difetto degli audiovisivi statunitensi che si confermano, d’altra parte, decisamente egemoni a livello internazionale.
The boys, serie televisiva statunitense ideata da Eric Kripke per conto di Amazon, terza stagione, voto: 7; la serie si conferma di ottimo livello, anche se permangono a fianco dei grandi meriti i notevoli limiti già riscontrati nelle precedenti stagioni. Prosegue e si approfondisce la destrutturazione e critica radicale dei supereroi. Tale efficace, pungente e divertente critica va di pari passo con una critica radicale della politica statunitense, da cui, in modo esemplare, emerge come i servizi di questo paese per finanziare i narcos contras nicaraguensi oltre a vendere armi in segreto all’Iran, hanno distribuito l’eroina nei quartieri abitati dalle minoranze razziali, i quartieri più poveri e ribelli, per anestetizzarli. D’altra parte dal momento che non vi sarebbe nessun modello migliore da contrapporre ai crimini dell’imperialismo statunitense, ben simbolizzato dai supereroi, parrebbe non restare altro che operare, come i protagonisti “positivi” della serie, al servizio della Cia, che costituirebbe, comunque, la sola alternativa ai supereroi o alla Russia.
Negli episodi dal quattro all’ottavo, la serie si mostra efficacissima nel decostruire e criticare nel modo più radicale il superomismo dei supereroi e la falsità e ipocrisia del sogno americano. Riesce a divertire lasciando diversi spunti di riflessione allo spettatore, in particolare sviluppando una efficace critica alla narrazione ideologica della storia degli Stati Uniti e criticando in modo estremamente efficace la destra repubblicana. Resta il consueto problema dell’alternativa, impossibile da ricercare sul piano internazionale, in quanto nella critica degli altri paesi domina incontrastata l’ideologia dominante filoimperialista. Anche sul piano interno non solo non c’è un soggetto sociale subalterno e oppresso pronto a dar battaglia, ma si finisce come al solito a spingere lo spettatore a immedesimarsi nella sporca dozzina che, con metodi molto discutibili, svolgerebbe il presunto “necessario” lavoro sporco. In definitiva l’unica potenziale alternativa compare nei manifesti nelle case dei personaggi afroamericani, certamente i meno negativi delle serie, che richiamano la memoria storica del grande movimento rivoluzionario di emancipazione delle Pantere nere.
Rebibbia Quarantine, serie cartoon scritta e diretta da ZeroCalcare disponibile su La 7, voto 7; commento e riflessioni critiche a caldo sulla quarantena con un efficace satira. ZeroCalcare sviluppa una interessante riflessione critica su alcuni aspetti della quarantena, con un ritmo davvero travolgente. Peccato che lo scarso investimento nel numero dei disegni animati rende la miniserie un po’ troppo ripetitiva.
The White Lotus è una miniserie televisiva statunitense creata, sceneggiata e diretta da Mike White, in Italia è distribuita dal canale satellitare Sky Atlantic. Voto: 7-. The White Lotus è la miniserie che ha ottenuto il maggior numero di candidature agli Emmy Awards 2022. Per quanto la serie sia decisamente ben fatta e metta in scena una critica estremamente realistica e salutare del terrificante mondo dei resort di lusso e dei plutocrati che lo popolano, The White Lotus occulta completamente che l’unico reale movente della storia è il conflitto sociale. Perciò la serie è certamente meno significativa, riuscita, convincente e coinvolgente di Dopesick – Dichiarazione di dipendenza che, non a caso, ha ricevuto un numero di nomination inferiore, in quanto è un’opera decisamente più di rottura con l’industria culturale.
Già nel secondo episodio il tono minimal della serie mostra il fiato corto e The White Lotus diviene alquanto noiosa e ripetitiva. L’analisi al vetriolo degli ospiti del resort di lusso finisce con il divenire grottesca e sostanzialmente fine a se stessa, non essendo naturalmente presente nessuna prospettiva di superamento dell’esistente. Nel terzo episodio la serie prende un crinale sempre più pericoloso, portando alle estreme conseguenze la critica sociale dei ricchi consumatori di un resort di lusso, e rischia costantemente di precipitare in quel rimestare nel torbido, caratteristico di troppo cinema italiano, in cui tutte le vacche appaiono nere. Nel quarto e nel quinto episodio la serie riprende quota, approfondendo in modo realistico e decisamente critico alcuni personaggi tipici della classe dominante e delle classi sociali che sono parte del blocco sociale al potere o sono da quest’ultimo egemonizzate. Colpisce positivamente l’abile utilizzo da parte degli attori dell’effetto di straniamento, in ciò aiutati da regia e sceneggiatura che impediscono al pubblico di impersonarsi nei personaggi messi in scena, favorendo una comprensione riflessiva e un’attitudine critica da parte dello spettatore. Particolarmente interessanti sono le osservazioni presenti nel quinto episodio sull’imperialismo. Il difetto principale della serie resta, come generalmente avviene, la sostanziale assenza di un personaggio positivo che possa indicare quantomeno la possibilità di una catarsi, di una prospettiva di superamento dialettico dell’esistente. La carenza di principio speranza e di spirito dell’utopia finisce con il favorire l’affermarsi della tenebra dell’immediato. L’ultimo episodio, al di là del colpo di scena alquanto prevedibile, si mantiene in linea con il resto della serie. Si conferma l’implacabile critica, sostanzialmente ineccepibile, ai ricchissimi clienti del resort e anche al personale in larga parte servile. Mentre, come prevedibile, la catarsi, per quanto comunque almeno in parte contemplata, risulta decisamente insufficiente e, quindi, insoddisfacente. Certo, considerate le premesse, un dolce fine hollywoodiano sarebbe risultato del tutto fuori luogo, d’altra parte si paga il non aver offerto nessuna sostanziale alternativa al tragico panorama dell’esistente.
Candy - Morte in Texas miniserie televisiva statunitense del 2022, creata da Nick Antosca e Robin Veith, distribuita in Italia da Diseny+ come Star Original, 5 episodi, voto: 6,5; avvincente miniserie tratta da una storia vera. Un brutale omicidio in Texas non è opera del barbone o vagabonda subito individuato come capro espiatorio, ma di una “insospettabile” signora per bene che, prima di portare i bimbi a catechismo uccide con 43 colpi d’ascia, l’“amica” incinta. Per quanto sia giusto cercare di ricostruire i meccanismi psicologici dell’assassinio, la assoluzione finale lascia molto da riflettere sulla giustizia degli Stati uniti, dove con un ambizioso avvocato e una buona reputazione si riesce a farla franca anche dopo aver portato a termine un efferato omicidio, mentre un proletario, ancora peggio se afroamericano viene condannato a morte, o ucciso sul posto per molto meno.
Lupin è una serie televisiva francese prodotta da Gaumont e pubblicata su Netflix, in dieci episodi, candidata come miglior serie drammatica ai Golden globe, voto: 6,5; sullo sfondo delle avventure di un ladro “gentiluomo” che segue le orme di Lupin, si staglia la significativa denuncia della storia di discriminazione di una famiglia emigrata nel mondo occidentale dall’Africa. La falsa e pretestuosa accusa che colpisce il padre condiziona pesantemente la vita del figlio ed è anche responsabile della sua scelta di seguirne, almeno apparentemente, le orme. Significativa la denuncia dei pregiudizi che portano a condannare i più umili e deboli, sebbene per il resto la serie, nei primi due episodi, appare carente di contenuti sostanziali e, quindi, non sembra in grado di suscitare reale interesse e godimento estetico nello spettatore.
Nel terzo e quarto episodio finalmente la serie decolla, emerge in primo piano la corruzione e la collusione dei “poteri forti”, dai dirigenti degli apparati repressivi dello Stato, ai “grandi” imprenditori, in realtà dei perniciosissimi parassiti sociali. Appare evidente come gli esponenti del grande capitale vivano alle spalle dei lavoratori subordinati, sfruttando a loro vantaggio il razzismo che contribuiscono a diffondere. Valida è anche la volontà di rivalsa dei subalterni e di chi ha subito discriminazioni razziali, peccato che la sacrosanta lotta di classe dal basso è portata avanti in modo individualistico e sostanzialmente inverosimile da un singolo. Si tratta, naturalmente, di una soluzione in fin dei conti impraticabile, irrealistica e, in ultima istanza, sostanzialmente scarsamente in grado di incidere.
Nel quarto e quinto episodio, invece, le questioni sostanziali passano in secondo piano e finiscono così con il rimanere troppo sullo sfondo. In tal modo la serie diviene noiosa e soporifera.
Negli episodi successivi Lupin torna a essere una serie godibile e lascia, inoltre, meritoriamente emerge l’importanza di presentare come eroi positivi i figli di emigrati africani. Emergono anche i profondi e nefasti legami fra mondo del capitale finanziario, classe politica dirigente e apparati repressivi dello Stato, pronti a non indagare sui gravissimi delitti dei colletti bianchi e a perseguitare sino all’ultimo, senza pietà, reati che trovano una evidente giustificazione economica e sociale nelle tragiche condizioni di vita dei ceti subalterni. Restano, inoltre, tutti i dubbi già prima evidenziati, sulla prospettiva e la praticabilità di una emancipazione individualista come quella promossa dalla serie.
Nell’episodio finale ritroviamo, nel bene e nel male, le principali caratteristiche dell’intera serie. Quest’ultima si conferma godibile e approfondisce la critica della classe dominante e degli apparati repressivi dello Stato supportati anche da nazisti. Valida la figura del protagonista ribelle al sistema, anche se la sua capacità di incidere come singolo resta necessariamente limitata a una vendetta sostanzialmente personale.
Winning time – L’ascesa della dinastia dei Lakers, serie televisiva statunitense ideata da Adam McKay, Jim Hecht e Max Borenstein per HBO, in Italia trasmessa nel 2022 da Sky Atlantic, voto: 6+; serie certamente godibile, ben confezionata e senza cadute nel postmoderno. In Winning time vi sono alcuni spunti significativi sulla discriminazione degli afroamericani negli Stati Uniti. Interessante anche il confronto-scontro fra le generazioni cresciute nelle lotte degli anni Sessanta e Settanta e quelle già fuori dal mondo e dalla storia che maturano negli anni Ottanta. Peccato che la serie sia una sostanziale apologia di quest’ultima generazione. Altro grande limite è lo sguardo soggettivo sullo squalo che, sfruttando di fatto la prostituzione, si è acquistato la squadra e che non è praticamente mai presentato in modo realistico, ma sempre in forma edulcorata. Infine, per quanto a tratti anche avvincente, la tematica sportiva al centro della serie è priva di elementi realmente sostanziali.
Halston è una miniserie televisiva statunitense del 2021, prodotta da Ryan Murphy e basata sulla vita dell'omonimo stilista, distribuita da Netflix, voto: 6+. Si tratta, dunque, della rappresentazione realistica della visione del mondo di uno stilista di successo, il problema, naturalmente, è che la sua visione distorta e soggettiva viene presentata come la sola e, quindi, come se si trattasse di una realtà oggettiva. Così sparisce completamente dalla rappresentazione il mondo dei lavoratori salariati, degli sfruttati, dei subalterni, naturalmente cancellati da una merce, come la serie Halston, dell’industria culturale della potenza imperialista più retriva, aggressiva e reazionaria, sebbene si tratti di una merce sofisticata e di qualità. Altrettanto naturalmente si tratta di una merce ben confezionata e certamente piacevole, che ha il consueto effetto droga, cioè tende a portare lo spettatore a vedere tutti gli episodi, quando già uno è più che sufficiente per fare tesoro di quel poco di sostanziale che Halston è in grado di mediare.
Succession è una serie televisiva statunitense ideata da Jesse Armstrong e prodotta da Will Ferrell e Adam McKay. Siamo arrivati alla terza stagione in nove episodi, in Italia trasmessa su Sky Atlantic, voto: 6. L’episodio pilota della terza stagione parte, come era prevedibile, con il piede giusto: è coinvolgente ed emozionante e riprende la fondamentale critica al grande capitale investito nel settore chiave, per il mantenimento dell’egemonia della classe dominante, della comunicazione. Restano i consueti limiti: la mancanza di una prospettiva di superamento del dramma rappresentato e lo scarso approfondimento su quella vera e propria fabbrica del falso costituita dall’impero mediatico di Murdoch al quale il plot della serie si ispira.
Come di consueto il secondo e il terzo episodio costituiscono una decisa caduta di tono rispetto al primo, nel senso che non aggiungono nulla di sostanziale, si ha così la sensazione del déjà-vu e la serie diviene decisamente soporifera. Anche perché non solo la vicenda non conosce sviluppo significativi, ma discorso analogo vale per gli stessi personaggi. Il sospetto che inevitabilmente viene è che tutta la terza stagione rischia di essere funzionale semplicemente ad allungare, diluendolo, il brodo.
Gli episodi quattro e cinque non introducono novità di rilievo rendendo la serie sempre più soporifera. Anche se non mancano spunti di critica molto significativi al mondo del grande capitale, a partire dal profondo razzismo e maschilismo di chi lo dirige, dai crimini che commette verso i subalterni, dal totale disinteresse degli azionisti per tali crimini, di come qualsiasi valore etico, a partire da quelli naturali della famiglia, siano sacrificati all’idolo del profitto privato. Anche l’unico personaggio apparentemente alternativo, il fratello del grande capitalista, si dimostra più un originale filantropo che un reale oppositore. Per cui intende lasciare le sue ricchezze a Greenpeace, ma al contempo non fa nulla per incriminare la sua impresa di famiglia per gli spaventosi crimini perpetrati. Emerge, inoltre, l’enorme potere nelle mani degli imprenditori che controllano i grandi mezzi di comunicazione privati, in grado di esercitare un vero e proprio potere di ricatto persino sul presidente degli Stati Uniti, per coprire e lasciare impuniti i propri gravissimi crimini.
Gli episodi sei e sette sono significativi nella denuncia della classe dominante e dirigente, in particolare repubblicana. Emerge chiaramente come la stessa scelta del presidente avvenga all’interno di nuclei ristretti di grandi capitalisti, mentre il voto popolare serve generalmente per ratificare decisioni già prese. Realmente impressionante la descrizione estremamente realista delle posizioni ultra reazionarie in particolari dei repubblicani e della classe dominante che li sostiene. Nel settimo episodio vi è una rappresentazione molto realistica della famiglia di grandi capitalisti, in cui sostanzialmente ogni legame etico anche basilare è completamente stravolto dall’individualismo e dalla ricerca del profitto privato.
L’ottavo e il nono episodio non aggiungono nulla di significativo, al di là di un interessante rovesciamento del titolo stesso della serie. A dominare è ora il rovesciamento della prospettiva iniziale, ossia della necessità di individuare una successione plausibile al vecchio grande capitalista. Fallite miseramente le possibilità di passare la mano a uno dei figli, sempre pronti a sbranarsi a vicenda, ma privi delle capacità del padre, quest’ultimo sembra disponibile a lasciare la direzione dell’azienda a un giovane creativo. Solo allora i figli, sempre divisi per il loro egoismo individualista, comprendono la necessità di unire le forze. Emerge così chiaramente la loro consapevolezza di poter fare carriera solo grazie al nepotismo del padre e sono, quindi, immediatamente pronti ad assumere anche le misure più drastiche per toglierlo di mezzo. D’altra parte anche la madre, pensando esclusivamente ai propri interessi immediati, toglie ai figli la possibilità di ricattare il padre e anche il marito – sempre dominato dalla ricca moglie – della figlia dell’impresario svende quest’ultima al grande capitalista.
The Gilded Age, serie televisiva statunitense creata da Julian Fellowes e ambientata durante la Gilded Age degli Stati Uniti, nel decennio degli anni '80 del 1800 a New York, prima stagione in 9 episodi, in Italia in onda su Sky serie, voto: 6. Serie godibile, ma molto discutibile in quanto descrive in modo acritico e sostanzialmente apologetico un periodo tragico della storia degli Stati Uniti. Al centro della vicenda troviamo infatti la lotta della donna della famiglia dei nuovi ricchi, capitalisti privi di scrupoli, che vogliono essere accettati nell’esclusiva cerchia degli aristocratici, composta dalle famiglie dei più antichi immigrati, generalmente d’origine fiamminga. Il film intende rilanciare il sogno americano di una società aperta secondo cui, grazie allo spirito di intraprendenza, si potrebbe – pur partendo dal fondo – raggiungere meritocraticamente i vertici della società. Nella serie non emerge per niente come per uno che magari corona il sogno americano ce ne sono almeno altri novantanove che falliscono tragicamente e restano oppressi, subalterni e sfruttati per tutta la vita. Inoltre non si vede come l’età dell’oro si sia potuta affermare solo attraverso il genocidio degli amerindi e una politica estera sempre più aggressiva e imperialista, senza contare l’enorme sfruttamento degli immigrati, alimentando ad arte il razzismo. Certo nella serie si sfiorano alcune questioni sostanziali, come la tragica condizione degli afroamericani, anche se da un punto di vista assolutamente atipico di una famiglia benestante che, a propria volta, sfrutta il lavoro servile di altri afroamericani. Certo la serie è indubbiamente piacevole, ci sono degli spunti di critica sociale alla Balzac, anche se a un livello naturalmente decisamente più basso e commerciale.
A casa tutti bene di Gabriele Muccino, Italia 2022, serie tv, distribuita su Sky Serie e in streaming su Now, voto: 6; davvero viviamo in tempi oscuri, si dovrebbe dire parafrasando Brecht, dal momento che ci siamo ridotti a prestare attenzione all’opera di un regista sostanzialmente integrato nell’industria culturale, peraltro di scarsissima qualità come quella italiana. La serie che riprende un film privo di fatto di spessore, ha qualche spunto lodevole nella critica sociale di una famiglia di parvenu. D’altra parte fermandosi a metà strada fra una serie brillante e una drammatica finisce con il non brillare in nessuno dei due generi.
Nel secondo episodio A casa tutti bene perde verve e diviene alquanto noiosa anche perché, sostanzialmente, male interpretata. Inoltre il materiale del film da cui è tratta non era certo sufficiente per poter sviluppare un'intera serie. Si assiste così, di fatto, a una ripresa all’“amatriciana” della decisamente più brillante ed efficace serie statunitense Succession.
Nel terzo episodio compare uno sfondo giallo che rianima la vicenda, insieme al confronto-scontro fra il ramo ricco e il ramo povero della famiglia. Naturalmente è del tutto assente un qualche personaggio positivo che dia un respiro più ampio a una vicenda piuttosto asfittica.
Nel quarto e quinto episodio il tono drammatico diviene prevalente, anche se non ci sono sorprese e colpi di scena e i personaggi sono piuttosto stereotipati, schematici e poco sfaccettati. La serie è abbastanza godibile anche se prevalgono gli aspetti culinari e A casa tutti bene lascia poco su cui riflettere allo spettatore. Piuttosto inaccettabili i personaggi femminili, in massima parte subalterni agli uomini, e che sembrano avere come massima aspirazione quella di farsi sposare o di preservare a ogni costo il rapporto di coppia.
Nel sesto e settimo episodio la serie finalmente decolla e diviene avvincente ed emozionante. Le contraddizioni e gli elementi di critica sociale emergono in modo sempre più deciso. In questo quadro a tinte fosche pare non esserci modo di arrivare al necessario superamento dialettico dell’esistente. Anche perché il mondo del lavoro e il conflitto sociale e di classe restano quasi completamente estranei alle vicende narrate.
L’ottavo e conclusivo episodio delude le aspettative che si erano sviluppate nelle ultime puntate, anche perché gli autori sembrano essere maggiormente interessati a lanciare una possibile seconda stagione, piuttosto che giungere a una catarsi soddisfacente. Peraltro, ripensandoci a serie conclusa, si comprende che le aspettative sorte negli episodi precedenti, se avevano contribuito a rendere la serie interessante, erano in realtà prive di un contenuto effettivamente significativo. Certo, resta valida la brillante trovata metaforica del cadavere sepolto in giardino, mentre la dinamica dell’omicidio resta alquanto inverosimile e autoassolutoria.
Genius: Aretha, miniserie, di National Geographic trasmessa in Italia da Disney plus, dedicata ad Aretha Franklin, voto: 6. Discreta miniserie che racconta la vita per certi aspetti tipica della cantante afroamericana; Aretha ha l’impostazione naturalista tipica dei prodotti dell’industria cinematografica a stelle e strisce, con tutti i suoi pregi e difetti. L’idea del Genius è decisamente borghese, come piccolo borghese è la storia della lotta della cantante per abbandonare il jazz per conquistarsi fama e soldi attraverso il pop. Nella cosiddetta musica popular e nelle canzoni di successo della Franklin ritroviamo tutta l’ambiguità del termine popolare per come viene utilizzato dall’ideologia dominante, per connotare una merce sostanzialmente gastronomica spacciata dall’industria culturale. Per quanto si tratti di un’impresa capitalistica nella sua fase di decomposizione, si tratta della più importante e dominante industria culturale, con tutti i suoi pregi e limiti. La serie è mediamente interessante in quanto intreccia alcune questioni storiche sostanziali con una vicenda particolare, anche se non propriamente tipica. D’altra parte gli autori della serie evitano eccessi di ideologia postmoderna che la indebolirebbero in quanto si tratta di una merce destinata a un ampio pubblico. Ciò fa sì che diversi temi significativi siano affrontati con una certa verosimiglianza e ciò consente altresì di far emergere diverse contraddizioni reali che rendono così interessante l’analisi della realtà. Abbiamo innanzitutto la questione centrale per l’artista di discernere sino a che punto ci si può spingere per raggiungere il successo e rivolgersi a un grande pubblico scendendo a patti con le dinamiche dell’industria culturale. Abbiamo poi la questione del rapporto dell’artista di successo con le grandi dinamiche del mondo storico e sociale del proprio tempo. In entrambi i casi si tratta di temi di indubbio spessore, anche se la soluzione che ci viene proposta – in modo adialettico e sostanzialmente agiografico dal punto di vista della protagonista – appare non all’altezza della posta in gioco. Certo nel secondo caso, sopra evidenziato, la serie si anima in quanto la realtà con cui si deve confrontare la ormai celebre cantante è il grande sviluppo, alla fine degli anni Sessanta, del movimento per l’emancipazione, in primo luogo degli afroamericani. Tale tematica incrocia, peraltro, anche la prima, in quanto Aretha Franklin nel momento in cui decide di partecipare attivamente alle lotte politiche e sociali è costretta a sacrificare il tempo dedicato all’industria culturale, da cui deriva il suo successo e la possibilità di poter raggiungere un ampio pubblico. Appare, inoltre la difficoltà oggettiva – già presente nella figura del padre quale intellettuale religioso afroamericano di successo – di trovare un accordo fra il prender parte alla lotta per l’emancipazione di una minoranza, particolarmente martoriata, di cui si è parte e l’esigenza di difendere i privilegi acquisiti, anche grazie a una brillante carriera, dinanzi alla lotta anche violenta di quella che ci viene presentata come una moderna plebe. Da qui il sostegno dato alla battaglia per i diritti civili, portata avanti da Martin Luther King attraverso la nonviolenza e la religione, in cui si mescolano anche inconsapevolmente posizioni opportuniste e revisioniste da una parte e progressiste dall’altra. La serie sfiora anche la tragedia del movimento di emancipazione degli afroamericani con le sue contraddizioni interne, dovute alla prospettiva tutto sommato reazionaria del ritorno in Africa e all’avventurismo della sfida allo Stato imperialista dal punto di vista militare, necessariamente suicida. Emerge anche lo sfruttamento da parte dell’industria culturale dei suoi dipendenti, soprattutto se donne e afroamericane. Infine, emerge l’emancipazione di Aretha dal suo marito-protettore, ma anche da una partecipazione alla politica attiva che metterebbe in questione la sua prospettiva di carriera nella società civile. Infine, emergono le contraddizioni dei predicatori afroamericani, nei quali si mescolano lotta per l’emancipazione del “proprio popolo”, oppio per il popolo, maschilismo e ipocrisia. All’inizio degli anni Settanta vi è finalmente una svolta in senso radicale, anche se permane nella protagonista la consueta ambiguità in quanto questa fase è segnata dalla relazione sentimentale con un imprenditore di “sinistra” ed è legata alla voglia di emergere della cantante nella società civile. Interessante come l’impegno “politico” porti Aretha Franklin a smettere di bere alcolici, dei quali era divenuta dipendente. Tale dipendenza era peraltro sfruttata dall’industria culturale per meglio tenerla sotto controllo. Gli ultimi due episodi risultano penosi e segnano il progressivo declino della cantante che procede di pari passo con la fine dei grandi movimenti sociali sviluppatesi nella seconda metà degli anni Sessanta e nella prima metà degli anni Settanta. Così negli anni Ottanta la smania del successo porta la cantante a vendersi compiutamente non solo all’industria culturale, ma alla cricca mafiosa e di estrema destra di Las Vegas, contribuendo con la sua produzione di disco music al diffondersi dell’idiozia nella musica. Naturalmente nell’impianto naturalista della serie non vi è traccia né di una critica sociale, né di una critica storica e culturale, ma si mira esclusivamente a dimostrare l’assioma, presupposto sin dal titolo, del genio.
Esterno notte, miniserie tv, presentata in anteprima al cinema, di Marco Bellocchio, dramma storico, Italia 2022, con Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, voto: 6-; opera davvero deludente, anche perché le recensioni lette e il precedente Buongiorno notte avevano lasciato ben sperare. Al contrario Bellocchio si conferma uno dei registi più assurdamente sopravvalutati della storia del cinema. Anche i pochi aspetti critici e significativi nella ricostruzione cinematografica del caso Moro, vengono meno. Il film diviene una apologia indiretta dei protagonisti politici della classe dominante che, proprio al contrario, erano significativamente criticati in Buongiorno notte. La ricostruzione storica, in particolare nel rappresentare una società polarizzata per cui vi sarebbe stata una sinistra apologetica del terrorismo e un centro-destra, supportato anche da Berlinguer, schierato a difesa del sistema, appare del tutto inverosimile dal punto di vista storico. Peraltro se appare lodevole il non aver ceduto alle troppe teorie complottistiche nella ricostruzione storica, manca sicuramente una seria analisi delle azioni e reazioni sul piano politico nazionale e internazionale dinanzi a una vicenda di indubbio rilievo. Colpisce, infine, come fossero di fatto già presenti in nuce allora i difetti capitali dell’attuale sinistra, la cui componente moderata è divenuta l’ala di centro-sinistra dello schieramento filoimperialista, mentre la sinistra radicale resta prigioniera di una logica minoritaria, settaria e avventurista.
La seconda parte del film segna una decisa svolta e la serie recupera diversi degli aspetti critici presenti nel film da cui è tratta e ne inserisce alcuni nuovi. Per quanto ancora inverosimile la quarta puntata offre un salutare cambio di prospettiva, analizza le contraddizioni interne alla lotta armata e, finalmente, presenta una alternativa reale fra la “sinistra” ultraopportunista e questurina e la “sinistra” avventurista e di fatto anarchica. Ciò apre la strada anche alla possibilità di una conclusione diversa, che porti a compimento la tragedia del rapimento Moro, con cui si apre e di fatto si chiude la serie. La quinta puntata, dal punto di vista della moglie e più in generale della famiglia Moro è la più intensa e a tratti anche la più critica. In essa spicca in particolare l’ottima interpretazione di Margherita Buy, che si affianca alla molto valida prova attorica di Gifuni. Nell’ultimo episodio spicca, in particolare, la contestazione di massa a Cossiga.
Irma Vep – La vita imita l’arte è una miniserie televisiva statunitense e francese del 2022 scritta e diretta da Olivier Assayas, basata sul suo omonimo film del 1996, voto: 5+. Il sottotitolo formalista è un’infelice trovata della produzione italiana. La serie, remake di un film che a sua volta è un remake di una delle prime serie della storia del cinema, è interessante e in parte affascinante per i diversi piani di film nel film che si intersecano. Ha degli spunti da commedia sofisticata, ma come spesso avviene si allunga inutilmente il brodo e si ha poco di sostanziale da comunicare, finendo, inevitabilmente, con l’annoiare il pubblico.
American Crime Story, serie televisiva giunta alla terza stagione, ognuna indipendente dalle altre, è intitolata Impeachment e composta da dieci episodi. In Italia la stagione è andata in onda in prima visione sul canale satellitare Fox, voto: 5. Interessante serie che denuncia il livello infimo dal punto di vista culturale della popolazione statunitense, l’attitudine da predatore sessuale del presidente Clinton e come la destra repubblicana abbia strumentalizzato il caso Lewinsky per portare acqua al mulino della propria politica reazionaria. Ancora una volta dobbiamo purtroppo constatare come il nostro paese e, più in generale, il continente europeo, siano indietro rispetto agli Stati Uniti d’America per quanto riguarda una rappresentazione critica della realtà da parte degli audiovisivi. In Italia sarebbe letteralmente impensabile una serie del genere. La serie sviluppa una significativa indagine psicologica e sociologica da cui emergono i grandi limiti, l’ipocrisia e il moralismo della società statunitense. Più la serie va avanti e più perde di mordente, in quanto ben dieci episodi incentrati esclusivamente su questa vicenda sono davvero troppi, anche perché non si allarga l’analisi critica sulle colpe di fondo dei Clinton e dei loro accusatori repubblicani, o sul personaggio di estrema destra che strumentalizza Monica Lewinsky. Inoltre la serie è troppo incentrata su quest’ultima figura e sull’interpretazione adialettica e apologetica che se ne dà. Gli ultimi episodi sono del tutto superflui, utili solo per allungare in modo tafazziano il brodo. La serie finisce così con il divenire sempre più noiosa, in quanto i dieci episodi dovevano essere ridotti a un massimo di quattro. Peraltro diviene sempre più chiaro che la pretesa dei repubblicani di fare la storia con l’impeachment a Clinton era solo una distopia. Interessante come la sorte dei principali protagonisti di questa tragicommedia abbiano dei destini del tutto conformi alla posizione che occupano nella piramide sociale. I più deboli, anche se principalmente vittime, finiscono rovinati, i più ricchi e potenti anche se decisamente più colpevoli fanno carriera. Emerge infine tutto l’assurdo puritanesimo degli statunitensi, che fa il gioco, con la sua ipocrisia, dell’imperialismo americano e dei falchi repubblicani, in quanto lo scandalo sessuale svia dalle gravissime colpe reali della presidenza Clinton e rafforza l’opposizione di destra che, anche sulla questione femminile, ha posizioni decisamente più reazionarie dei democratici.
Barry, serie tv brillante statunitense ideata da Alec Berg e Bill Hader, distribuita in Italia nel 2021 da Sky, in otto episodi, voto: 5. La serie è stata acclamata dalla critica e ha vinto 10 premi su 39 candidature. Tale successo della serie resta davvero un mistero. Per quanto generalmente di basso livello le serie brillanti difficilmente appaiono così poco significative persino nell’episodio pilota. Come generalmente accade la serie non fa ridere, almeno un pubblico italiano, e non tocca nessun aspetto significativo della realtà. Interessante che il killer depresso protagonista della serie sia un ex marine reduce da aggressioni imperialiste. Negativo è invece il fatto che la professione di killer, per quanto significativamente posta su un piano analogo a quella dei marine all’estero, viene in qualche modo normalizzata. Infine il male assoluto è rappresentato dalla solita banda della criminalità organizzata straniera, con una piccola variante, in quanto i consueti russi sono sostituiti da ceceni.
Nell’episodio tre e quattro la serie diviene certamente più godibile, giocata tutto sullo scontro-incontro fra le due “Americhe” quella dei marine e quella di una scuola per attori di Los Angeles. La satira sociale investe in maniera abbastanza efficace entrambi i gruppi e coinvolge anche il mondo della malavita organizzata. Interessante come il killer ex marine risulti del tutto impacciato e insicuro nel mondo per lui alieno della scuola di recitazione. D’altra parte questo mondo, per quanto incomparabilmente migliore del mondo da cui proviene l’ex marine, non può rappresentare una verosimile alternativa per la parte consistente di statunitensi conservatori, reazionari e liberisti impiegati nell’apparato militare industriale.
Nell’episodio cinque la serie si stabilizza, confermandosi piacevole, ma sostanzialmente priva di contenuti sostanziali. Inoltre la caratterizzazione della malavita, naturalmente straniera e proveniente dalla Federazione Russa appare decisamente razzista, mentre la completa assenza di straniamento porta il pubblico a solidarizzare con il protagonista, nonostante si tratti di un pericoloso e sanguinario criminale.
La serie delinea bene la connotazione sociale tipica dei marine, cioè il loro essere espressione di un sottoproletariato privo di coscienza di classe, violento, privo di morale ed eticità e dipendente dalle droghe e dalla pornografia. Interessante anche come lo stesso ceto medio riflessivo statunitense abbia posizioni radicalmente filoimperialiste in politica estera, tanto da considerare i marine come eroi che si sacrificano al loro posto in conflitti giusti e necessari. In questo caso violenza e morte diverrebbero necessarie e socialmente utili. Infine anche nell’individuazione dei nemici – che sono sempre i cattivi che è bene uccidere con ogni mezzo necessario, anche se a farlo sono dei mercenari al servizio di altri criminali – si seguono pedissequamente le direttive dell’imperialismo a stelle e strisce. Così la poliziotta, non appena sente un uomo parlare con un accento russo, estrae immediatamente la pistola, dal momento che non potrebbe che trattarsi di un pericoloso criminale. Peraltro sembrerebbe accettabile anche collaborare con la malavita cecena se si tratta di colpire gli odiati boliviani, che sembrerebbero aver sostituito i fidi alleati colombiani nel traffico della droga.
La prima serie si conclude con l’esplodere della contraddizione fra il protagonista che si vuole ritagliare una nuova vita come attore e il vecchio marine, divenuto a tutti gli effetti un assassino, con cui il protagonista non riesce a chiudere, anche perché non risulta possibile occultare il proprio passato.
La seconda stagione si conferma, come di consueto, meno verosimile e incisiva della prima, anche perché non ha più molto di significativo di nuovo da aggiungere se non delle continue variazioni su temi già collaudati. Si confermano anche gli aspetti più deteriori, come l’assumere come rappresentanti del male assoluto degli stranieri, scelti sempre fra i maggiori nemici dell’imperialismo, anche se nel caso di Barry la scelta è più sofisticata dal momento che sono individuati nei boliviani al posto dei cubani, nella mafia cecena al posto della russa e nei birmani al posto dei cinesi. Si conferma, altresì, la nota più positiva, cioè la demitizzazione dei contingenti imperialisti all’estero, mostrati per quello che realmente sono: delle belve umane assetate di sangue e pronte a esaltare chi uccide piè sospetti nemici. Colpisce la presumibilmente non voluta autoironia per cui il killer statunitense è così superiore da dover istruire i membri della mafia ceceni, che appaiono nei suoi confronti dei poveri sprovveduti. Interessante anche come il protagonista affermi di aver recuperato la propria identità e il sentimento di appartenenza a una comunità dopo aver assassinato un afghano nel paese che ha invaso, solo in quanto colpevole di un movimento sospetto.
La commedia diviene, finalmente, a tratti esilarante. Emerge in modo più chiaro ed evidente la natura criminale del protagonista, già al tempo in cui era arruolato nei marine. Emerge ancora di più l’attitudine criminale delle truppe d’occupazione imperialiste. Peccato che la satira della malavita organizzata in primo luogo e del mondo degli attori in secondo non siano minimamente all’altezza di una serie così di successo. Ciò rende anche la seconda stagione decisamente sopravvalutata.
Dark Winds è una serie televisiva statunitense del 2022 creata da Graham Roland 1x6, disponibile sul Web, voto: 5-; la serie, pur contenendo dei significativi aspetti di denuncia del genocidio dei nativi nordamericani, portata avanti fino agli anni più recenti negli Stati uniti d’America, è tutta volta a criminalizzare, in modo del tutto irrealistico, le frange più estreme, dedite alla lotta armata per l’emancipazione degli amerindi. Così se ancora pochi decenni fa le donne native venivano rese sterili contro la loro volontà dopo il primo parto, e i bambini nativi erano rinchiusi in scuola cristiane volte a cancellare la loro cultura, il problema principale sembrerebbe costituito da degli estremisti avventuristi guerriglieri, che si macchierebbero di crimini del tutto inverosimili. Al contrario a difendere gli interessi dei nativi, visto che il governo federale sostanzialmente se ne disinteressa, sarebbero i corpi di polizia autoctona.
The Morning Show, seconda stagione della serie tv in dieci episodi, distribuita sul servizio di streaming Apple tv+, voto: 5-. La serie mostra in modo estremamente critico il mondo televisivo in una società a capitalismo avanzato. The morning show denuncia efficacemente il cinismo da cretino assolutamente dominante nella società statunitense e inconsapevolmente ne fa emergere il fascismo quotidiano. Peccato che al solito la morale è sostanzialmente “così fan tutti” e, di conseguenza, la critica sociale tende a divenire inoffensiva naturalizzandosi. La serie è sicuramente una merce abbastanza raffinata dell’industria culturale, anche se di tanto in tanto tende a divenire soporifera per la appena sufficiente presenza di contenuti sostanziali.
Il terzo episodio procede sulla falsariga dei due precedenti, con la protagonista della prima serie che appare sempre più integrata nel contesto anestetizzante della televisione di successo e sempre meno sanamente fuori dagli schemi. Si presenta, infine, un personaggio diverso e almeno in parte positivo nel giornalista afroamericano che cerca, invano, di portare l’attenzione del grande network “informativo” nel quale lavora sui pericoli della diffusione del nuovo virus SARS-CoV-2, scontrandosi con un muro di gomma, in quanto la notizia della diffusione della pandemia nella lontana Cina non farebbe crescere il numero dei telespettatori, che sarebbero interessati esclusivamente alle vicende del proprio paese.
Nel quarto e nel quinto episodio prosegue la denuncia di quanto siano marci in particolare i vertici delle grandi industrie culturali e di come tale marciume finisca per contaminare anche i piani più bassi. Peccato che manchi quasi del tutto un’analisi critica dei contenuti mediati dalle grandi fabbriche del falso. Prosegue inoltre la riflessione sui problemi relativi alla inclusione delle minoranze etniche e al movimento per l’emancipazione delle donne. Anche se spesso si finisce per dare troppa importanza al politically correct piuttosto che indagare sulle cause reali – economiche e sociali – delle discriminazioni etniche, sessuali e sessiste così profondamente radicate negli Stati Uniti.
La seconda stagione purtroppo non decolla e finisce con l’apparire sostanzialmente inutile. Si dimostra sempre più una merce – per quanto piuttosto bene confezionata – dell’industria culturale, tanto che alla fine finisce con l’annoiare. L’unico aspetto significativo del sesto e settimo episodio è il far emergere quanto il mondo sia cambiato grazie al movimento Me Too e come la società patriarcale sia stata finalmente costretta ad arretrare.
Gli episodi sette e otto, pur mantenendo un sano naturalismo – rispetto all’ideologia postmoderna – si focalizzano troppo sulle vicende particolari dei propri personaggi che hanno il grande difetto di non essere sufficientemente tipici. Mentre i grandi eventi come la diffusione del Covid-19 e il tragico fatto che i paesi capitalisti occidentali non abbiano fatto nulla per prevenirla – con la completa complicità dei grandi mezzi di comunicazione di massa – passano del tutto in secondo piano. Resta soltanto un accenno significativo su come l’epidemia di Ebola si fosse diffusa negli Stati Uniti e, ciò nonostante, questo dramma sia stato completamente occultato dall’ideologia dominante. Resta il dubbio se senza la puntuale denuncia della Repubblica Popolare Cinese anche la diffusione del Covid sarebbe stata ancora di più, di quanto è avvenuto, nascosta dalle autorità dei paesi capitalisti occidentali.
L’ultima puntata è al solito più movimentata e appassionante delle precedenti. Vi è il confronto con la malattia, il diffondersi della pandemia e i personaggi principali sono umanizzati e resi più complessi. Anche il pericoloso moralismo, che strumentalizza il movimento per l’emancipazione delle donne, viene a ragione criticato. Peccato che, come già osservato, le tematiche socio-economiche e politiche vengono estromesse e anche la significativa critica alla televisione viene, almeno in parte, attenuata.
L’amica geniale. Storia di chi fugge e di chi resta, serie tv di Daniele Luchetti, in otto episodi, disponibile su RaiPlay, voto: 4,5. La terza stagione parte nel migliore dei modi con i primi due episodi, contestualizzando la vicenda nelle grandi lotte sociali e politiche della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta. Emerge con chiarezza lo sfruttamento, in particolare delle donne, nelle fabbriche, lo sfruttamento dei giovani intellettuali nelle università, la deriva revisionista e riformista dei partiti storici della sinistra e l’insorgere di una nuova generazione di rivoluzionari. Emergono anche i limiti del sottoproletariato napoletano, il ruolo dei provocatori dei fascisti, il controllo della malavita organizzata sulle stesse attività imprenditoriali. Peccato che nella serie prevalga il luogo comune che gli studenti sarebbero dei radical chic, che non conoscerebbero i reali problemi degli operai, dai quali non avrebbero nulla da apprendere per le durissime condizioni di vita che impediscono a questi ultimi lo sviluppo di una coscienza di classe. Anzi la denuncia delle tragiche condizioni di sfruttamento da parte di comunisti e studenti rivoluzionari viene vista come contraria agli interessi dei lavoratori, in quanto favorirebbe la repressione di padronato e fascisti. Nonostante questi limiti, almeno la serie ha il sano buon senso di non pretendere di poter astrarre dai conflitti economico-sociali e politici.
Il terzo e quarto episodio, pur rimanendo avvincenti e godibili, perdono quasi interamente lo sfondo storico, sociale e politico dei precedenti. Resta la denuncia della violenza fascista in collusione con la malavita e la denuncia della famiglia patriarcale e di come uomini anche progressisti condannino le mogli alla schiavitù domestica. Per il resto vi è un sostanziale riflusso nel privato e una denuncia davvero reazionaria dell’estremismo radical chic della sinistra extraparlamentare.
Il quinto episodio rappresenta una decisa caduta di tono di un anticomunismo becero davvero imbarazzante. Come si poteva intuire si mostra, quasi si trattasse di una necessità, lo scivolare della sinistra rivoluzionaria extraparlamentare nel terrorismo, che viene rappresentato nel modo più inverosimile, ideologico e pienamente subalterno all’ideologia dominante. Alla fine il problema del terrorismo viene affrontato come se fosse una responsabilità della sinistra radicale e non una risposta, per quanto avventurista e controproducente, al terrorismo nero e di Stato. Anche del movimento femminista si mostrano solo gli aspetti contraddittori meno significativi. Anche il sesto episodio, per quanto fortunatamente non si occupi più di questioni economiche e sociali, torna a essere abbastanza avvincente anche se a tratti ancora piuttosto inverosimile.
Gli ultimi due episodi confermano che generalmente le serie con il passare delle stagioni divengono sempre meno interessanti e inverosimili. Nel settimo episodio vi è ancora una spaventosa caduta nell’affrontare, peraltro in modo del tutto superficiale, la tragica stagione dei cosiddetti “anni di piombo”, occultando le grandi conquiste prodotte dalle lotte dal basso per quanto riguarda l’estensione dei diritti economici e sociali. Ormai la serie nell’ultimo episodio si è distaccata completamente dalle vicende del mondo storico e politico essendo tutta incentrata sul bieco pregiudizio sessista per cui le donne si innamorerebbero proprio degli uomini “destinati necessariamente” a farle soffrire.
Emily in Paris, serie televisiva creata da Darren Star e distribuita sulla piattaforma Netflix, seconda stagione, voto: 4,5; serie certamente piacevole, ma che non ha nulla di significativo da aggiungere alla già modesta prima stagione. Si tratta di una merce ben confezionata dell’industria culturale, di mero intrattenimento, che fa apparire bizzarri i lavoratori francesi che, al contrario degli statunitensi, hanno ancora dei diritti da far rispettare per limitare lo sfruttamento della forza-lavoro. Al contrario, il personaggio principale, con cui il pubblico è spinto in ogni modo a identificarsi, pur occupandosi di marketing di beni di lusso, appare sempre naturalmente prona a ogni forma di autosfruttamento.
Il giovane Wallander è una serie britannico-svedese trasmessa da Netflix, che vede come protagonista il celebre commissario creato da Henning Mankell; la seconda stagione si articola in sei episodi, voto: 4,5; consueta serie poliziesca di “sinistra”, che dimostra bene cosa sia l’imperialismo di “sinistra” o democratico. Vediamo così il protagonista, con cui il pubblico è portato a immedesimarsi senza remore, che si decide con convinzione a lavorare con dedizione negli apparati repressivi di uno Stato imperialista, con l’illusione autoconsolatoria che possa essere lo strumento giusto per far prevalere la giustizia sull’ingiustizia. In tal modo si mistifica la natura di classe dello Stato, quale strumento di dominio e di dittatura della classe dominante sulle classi subalterne. Tutto il resto è sostanzialmente noia, dal momento che purtroppo siamo da tempo abituati a queste assurde pretese di rappresentare un impossibile imperialismo dal volto umano.
Nel secondo e terzo episodio la serie degenera sempre di più. Oltre alla noia abbiamo le tipiche chicche dei sinistri pentiti, con il giovane poliziotto che sceglie questa strada in reazione al padre rivoluzionario, presentato come un nichilista. Dall’altra parte abbiamo l’amico immigrato che è fiero di lavorare in polizia per difendere la grande civiltà che lo ha accolto e difendere la propria famiglia, mentre il padre è morto combattendo. Abbiamo, infine, la solita logica fascistoide per cui l’“eroe” sarebbe l’agente che non rispetta alcun regolamento, contro i dirigenti che, cercando di limitare i danni creati da questo genere di poliziotti, farebbero “politica”, il che sarebbe un imperdonabile errore.
La seconda stagione prende finalmente quota a partire dal quarto e quinto episodio in cui cominciano a comparire aspetti sociali dell’indagine in corso con significativi colpi di scena. La realtà si mostra essere ben diversa dalle apparenze. La povera vittima innocente dimostra di essere tutt’altro che innocente. Il disadattato condannato per il delitto, sulla base dei pregiudizi della polizia e della fretta di sbattere il mostro in prima pagina, dimostra di essere diverso dall’animale con cui le frettolose indagini lo avevano bollato. Alla base del terribile delitto sembra esserci la regia di un membro delle classi dominanti, con forti coperture negli alti piani dell’apparato repressivo dello Stato.
La chiusura non riserva sorprese. Piuttosto penosa la scena del giovane eroe caucasico che “salva” il collega ex profugo, anche perché il motivo principale del suo stare male consisteva nel fatto che il giovane Wallander lo aveva abbandonato nel momento di necessità, per portare avanti un’azione sconsiderata per porsi ancora una volta al di là della legge in senso sostanzialmente nietzschiano.
Ted Lasso è una serie televisiva statunitense creata da Bill Lawrence e Jason Sudeikis, seconda stagione, voto: 4,5; dopo aver visto la prima metà degli episodi avevamo desistito, convinti che la serie, per quanto ancora ben confezionata, come generalmente avviene nelle seconde stagioni, non avesse proprio più nulla di significativo da esprimere e mediare. La convinzione che nella seconda stagione la serie fosse ormai sopravvissuta a se stessa era stata posta in discussione dal fatto che Ted Lasso è risultata la serie brillante o comica che ha totalizzato il massimo numero di candidature agli Emmy Awards. Nel timore che ci potesse esser sfuggito qualcosa di significativo abbiamo ripreso a vedere la serie dal settimo episodio. Tale ripresa ci ha convinto che non solo la serie sembra ormai aver esaurito qualsiasi valido motivo per continuare a sfornare nuovi episodi, ma che anche la qualità degli ultimi episodi era decisamente peggiorata.
Così la serie da essere un buon prodotto dell’industria culturale è divenuta nella settima puntata, caratterizzata da una lunga digressione dedicata al secondo allenatore, decisamente intollerabile. Nei successivi episodi la serie rientra nei binari, cioè sostanza zero e gradimento assicurato. La formula, tipica dell’industria culturale, è di produrre merci meramente gastronomiche, di pura evasione, certamente gradevoli anche se non lasciano veramente nulla su cui riflettere allo spettatore. L’industria culturale rischia di imporsi come pensiero unico in particolare nel genere comico ora anche detto brillante, dove l’unica cosa che sembra contare è assicurare un momento piacevole, rinunciando decisamente non solo al buono, ma anche al bello. Così gli aspetti più significativi della commedia, a partire dalla satira sociale, sono radicalmente negati, per difendere il pensiero unico dominante. Per meglio realizzare questa distopia è cancellata anche ogni forma di ideologia in nome del mito reazionario della fine di ogni ideologia che poi, a ben vedere è proprio un elemento cardine del postmodernismo.
Con l’undicesimo episodio la serie riprende relativamente quota ed è certamente piacevole, ma sempre del tutto disimpegnata e fuori dal tempo e dal mondo non essendoci nessun riferimento al conflitto sociale. Il dodicesimo e ultimo episodio, infine, dimostra ancora una volta che la serie non ha veramente più nulla da dire. Resta il mistero di come possa essere la serie che, dopo Succession, ha ricevuto più candidature agli Emmy Awards.
Pistol è una miniserie televisiva del 2022, creata da Craig Pearce per l'emittente statunitense FX, diretta da Danny Boyle, distribuita in Italia da Star (Disney+), in sei episodi, voto: 4; la serie ricostruisce in modo naturalistico l’operazione commerciale dietro la creazione, veramente dal nulla, di un gruppo musicale punk. La serie poteva aprire una significativa riflessione su come l’industria culturale e la Società dello spettacolo siano in grado di egemonizzare completamente anche l’opposizione giovanile nei paesi imperialisti, facendo profitto mediante lo sfruttamento del disagio sociale dello stesso proletariato, ormai deprivato di qualsiasi barlume di coscienza di classe e ridotto, nuovamente, alla moderna plebe. Peccato che di tutto ciò nella serie non vi sia traccia, in quanto domina l’immagine apologetica che l’industria culturale intende imporre di se stessa.
House of the dragon è una serie televisiva statunitense creata da Ryan Condal e George R.R. Martin. Prequel de Il Trono di Spade, voto: 4+; per quanto possa essere una merce piuttosto ben confezionata dell’industria culturale, la serie ha scarso interesse, al di là del punto di vista strettamente culinario, per il grave deficit di contenuti sostanziali. La serie sembra prendere gusto in una rappresentazione estremamente cruda degli aspetti fascisti della società medievale e dell’oppressione della donna. Quest’ultima appare a tal punto asservita, da essere entrata in pieno nel ruolo della servitrice domestica dell’uomo.
Black Bird di Michaël R. Roskam, Joe Chappelle e Jim McKay, serie in sei episodi, thriller, Usa 2022, su Apple tv+, voto: 4; serie del tutto anonima, priva di ogni qualità: risulta noiosa, poco realistica, scarsamente tipica, con un protagonista pessimamente interpretato. Colpisce la cultura reazionaria dominante negli Stati Uniti che, ragionando in modo astratto e intellettualistico, è in grado di cogliere nel serial killer soltanto il criminale e non anche la vittima e il malato mentale. Inoltre l’unico supporto psicologico di cui l’autore dei crimini avrebbe certamente bisogno ci viene presentato come un personaggio del tutto negativo, che pone degli assurdi limiti, a chi mira esclusivamente a mantenerlo recluso per tutta la vita. Siamo, dunque, di fronte all’ennesima dozzinale e reazionaria denigrazione degli intellettuali dinanzi ai macisti sostenitori di legge e ordine, pur essendo in realtà, anche loro, dei notevoli delinquenti.
The Offer è una miniserie televisiva statunitense del 2022 creata da Michael Tolkin, voto 4-; miniserie rovescista che presenta il libro e il film Il padrino come un’opera coraggiosa di denuncia della mafia e per certi aspetti, addirittura, della società capitalista. Al punto che i protagonisti di tale apologia indiretta della mafia vengono presentati quasi come degli eroi della lotta alla criminalità organizzata. In effetti, il libro da cui è tratto il film non solo non costituisce una denuncia della mafia, ma è considerato un’opera sostanzialmente commissionata dalla criminalità stessa per dotarsi di un’immagine alla moda.
La casa di carta è una serie televisiva spagnola ideata da Álex Pina distribuita su Netflix in cinque stagioni dal 2027 al 2022, voto: 3,5. La serie ha avuto uno straordinario successo internazionale del tutto immotivato e davvero difficilmente comprensibile. Ha un plot che avrebbe permesso al massimo di realizzare un lungometraggio che, spalmato in ben cinque interminabili stagioni, è talmente diluito da far sparire ogni traccia di contenuto sostanziale. Peraltro anche dal punto di vista formale è di mediocrissima qualità, i personaggi sono inverosimili, del tutto atipici e i dialoghi spesso sconclusionati. Siamo all’ennesima epigonale ripresa dei Masnadieri di Schiller, con la rappresentazione tanto cara all’infantilismo piccolo-borghese del giovane che per protestare contro il corso del mondo diviene un fuorilegge.
Russian Doll è una serie televisiva statunitense (commedia, drammatica, giallo) del 2019-2022 ideata da Natasha Lyonne, Leslye Headland e Amy Poehler, distribuita da Netflix. La prima stagione è composta di otto episodi: voto: 3,5; la serie non parte certo nel migliore dei modi, con un primo episodio tutto incentrato su una trovata per cui la protagonista rivive continuamente la sera del suo trentaseiesimo compleanno che si conclude, altrettanto inevitabilmente, con la sua morte violenta. A rendere la serie ancora più noiosa, oltre all’eterno ritorno dell’identico, vi è che in questa sera costantemente ripetuta non avviene proprio nulla di significativo.
Il film vuole essere smart e porta lo spettatore a impersonarsi con un personaggio che appare estremamente smart. In tal modo, però, si rischia di finire con il normalizzare delle pratiche di vita davvero pericolose e deplorevoli, come cercare costantemente di sballarsi bevendo e drogandosi. Mentre tutti gli aspetti lodevoli mancano del tutto alla protagonista con cui lo spettatore è portato a immedesimarsi. La protagonista, in effetti, si guarda bene dal battersi per l’emancipazione del genere umano, di schierarsi a favore dei subalterni, di impegnarsi nel conflitto sociale, di assumere un’attitudine di solidarietà nei confronti degli altri sfruttati etc.
La serie, con il passare degli episodi, finisce con il perdere qualsiasi motivo d’interesse, diviene ripetitiva, sempre più inverosimile e, dunque, la cosa più sana è certamente smettere di perdere tempo a vederla e recensirla.
The Serpent è una miniserie televisiva britannica del 2021, realizzata da Mammoth Screen per BBC One e Netflix, voto: 3. La serie contribuisce vergognosamente alla mitizzazione di uno squallidissimo assassino seriale di giovani hippie, facendo il gioco di questo vigliacco e squallidissimo tagliagole. Quest’ultimo, in effetti, dopo aver scontato il carcere in India per i suoi atroci delitti, con la complicità della società dello spettacolo e dell’industria culturale, ha costruito la sua fortuna in occidente, vendendo i diritti del proprio personaggio mediatico quale presunto e sedicente genio del male assoluto. Si riproduce così su piccola scala l’aberrazione dell’ideologia dominante borghese che ha fatto degli stessi nazisti dei geni del male addirittura affascinanti. Con un’attitudine molto simile a quella nazista, il serial killer in questione trucida senza pietà le proprie vittime indifese e innocenti, ingannandole subdolamente, per la sua reazionaria ideologia che lo porta a odiare gli hippie a causa del loro pacifismo e anticonformismo. La serie, occultando questo aspetto, e riconducendo in maniera davvero criminale tali orrendi delitti alla temperie antimperialista del tempo, rende The Serpent del tutto inverosimile e insostenibile. Nascondendo il reale movente, gli spaventosi omicidi finiscono con l’apparire del tutto gratuiti e fini a loro stessi. Inoltre facendone interpretare il ruolo a un attore di successo, senza un briciolo di effetto di straniamento, l’assassino diviene addirittura affascinante. Inoltre si occultano di fatto le responsabilità degli Stati occidentali, in primo luogo attraverso le loro ambasciate, che si disinteressano di questa sanguinaria serie di crimini, in quanto colpiscono gli odiati capelloni. Allo stesso modo si occulta il ruolo di fatto connivente della dittatura militare tailandese, intenta a portare avanti una politica di terrore preventivo per impedire lo sviluppo del comunismo. Nascondendo tutti gli aspetti sostanziali e che avrebbero potuto dare un qualche rilievo a questa turpe faccenda, l’unica sedicente morale del film è che gli hippie, con la loro fiducia nel prossimo, in qualche modo si sarebbero andati a cercare gli spaventosi eventi che li travolgono.
The Boys Presents: Diabolical è una serie animata antologica per adulti statunitense del 2022 creata da Eric Kripke, Seth Rogen, Evan Goldberg, voto: 3; serie di animazione tutta incentrata su un cinismo da cretini che porta, sin da subito, alle più estreme conseguenze. La serie si rivela ben presto del tutto insostenibile.
L’assistente di volo – The Flight Attendant è una serie televisiva statunitense basata sull’omonimo romanzo del 2018 di Chris Bohjalian. Vede come protagonista Kaley Cuoco; in Italia questa seconda stagione è distribuita sul canale satellitare Sky Serie, voto: 3; lo sfondo della serie è a dir poco rivoltante, la protagonista, senza nessuno scrupolo o rimorso, lavora part-time e sostanzialmente con una forma di lavoro a chiamata per la Cia, per la quale svolge non solo lavori naturalmente sporchi, ma eccede costantemente dal suo ruolo e dal rispetto delle regole, con la consueta apologia, da parte dell’industria culturale, dell’autosfruttamento e del vedere nello stesso diritto borghese un mero freno alla propria sconsiderata volontà di potenza. Inoltre, a rendere davvero inguardabile la serie, contribuisce anche il fatto che non è in grado di garantire neanche un minimo di godimento estetico, finendo così per annoiare inevitabilmente il malcapitato spettatore.
Bridgerton è una serie televisiva statunitense creata da Chris Van Dusen e prodotta da Shonda Rhimes, basata sui romanzi di Julia Quinn, ambientati nel mondo dell’alta società londinese durante la Reggenza inglese, voto: 3. La seconda serie si mantiene, già come la prima, priva di elementi sostanziali, rimanendo tutta incentrata sulle chiacchiere di una corte che ha da tempo perduto la sua centralità sul piano politico. Anche i due protagonisti, su cui era essenzialmente incentrata la prima serie, sembrano messi da parte e persino il mistero sull’arguto commentatore dei gossip di corte è subito posto fuori gioco da una rivelazione piuttosto scontata. Anche il secondo episodio non presenta davvero nessun aspetto significativo o degno di nota, se non la capacità di conciliare il sonno dello spettatore. Nel terzo episodio la serie si conferma del tutto inutile ed emergono ancora di più la posizione assurdamente apologetica verso l’aristocrazia e il maschilismo presente anche in diversi personaggi femminili. Per il resto tutto è già così palesemente scontato, sin dal primo episodio, e di nessunissimo interesse da rendere la serie fra le più soporifere dell’anno.
Infine il quarto e il quinto episodio offrono l’ennesima conferma che non occorra più vedere questa serie per valutarla tra le peggiori dell’anno.
The Great, serie televisiva statunitense, seconda stagione, in dieci episodi, voto: 1. Al contrario della prima stagione, la seconda è assolutamente insostenibile e inguardabile. Perde qualsiasi riferimento agli eventi storici, qualsiasi realismo e verosimiglianza. Perde l’aspetto tragico e drammatico, divenendo una commedia dozzinale, che non fa ridere e risulta alquanto scurrile. Al fondo vi è l’ormai consueta russofobia, che porta a rappresentare tutti i russi, compresi i bambini innocenti, come dei folli, incivili, sadici e sanguinari.