“Lo Stato senza diritto è una banda di briganti”. Per Cucchi, la verità è alle porte

La sentenza della Quinta Corte Suprema di Cassazione assolve le guardie di polizia penitenziaria e annulla l’assoluzione per i medici.


“Lo Stato senza diritto è una banda di briganti”. Per Cucchi, la verità è alle porte

La sentenza della Quinta Corte Suprema di Cassazione assolve le guardie di polizia penitenziaria e annulla l’assoluzione per i medici. Il GIP analizza la legittimità della sentenza della Corte d’Appello ritenendola parzialmente attendibile. Per la prima volta, dall’inizio dell’iter giudiziario, si parla di pestaggio certo e di “ clamorosa sciatteria” da parte dei medici del “Pertini”. Ci sarà un appello-bis affiancato da un nuovo processo. Le nuove prove sono contenute in due audio, che testimoniano il pestaggio inflitto a Stefano Cucchi dai Carabinieri che lo hanno arrestato.

di Alba Vastano

“Palazzaccio”, Roma 15 dicembre 2015.

Le 10 del mattino, una giornata splendida. Sembra primavera. Se la giustizia viaggiasse con il sole, oggi tutti i crimini rimasti impuniti verrebbero risolti equamente. C’è il processo Cucchi, è il terzo grado. La sentenza sarà di quelle memorabili, in qualsiasi direzione soffierà il vento della giustizia. Qualcosa sicuramente si muoverà in questa palude orfanella, nel caso di questi processi, del reato di tortura. All’aula “O. Della Torre”, si accede da un mastodontico scalone di marmo che solo a vederlo incute rispetto.

Guardie per la sicurezza ovunque. Solo con il pass e attraverso il metal detector, i visitatori accuratamente supervisionati possono accedere alle aule in cui si svolgono i processi. Operatori Tv fuori dal Palazzaccio. In aula tutta la tecnologia deve tacere. Tutto spento, tutto disconnesso. No foto. Provo ad attivare il mio registratore. Una guardia mi accompagna fuori e mi invita a spegnerlo. Ricorro, per gli appunti, alla obsoleta penna. Il silenzio è religioso. L’aula, dove è iniziato il processo per verificare la legittimità della sentenza della Corte d’Appello, è un salone al cui centro troneggiano a semicerchio in legno massiccio e antico, i seggi della Quinta corte suprema. Al centro, in alto, mandano bagliori di speranza i caratteri dorati della massima definizione della giustizia. “La legge è uguale per tutti” ricordano quelle parole.

Oggi sì, non può essere diversamente. Oggi deve essere fatta giustizia. E in religioso silenzio, sul cuoio borchiato delle sedie destinate ai pochi giornalisti presenti (nda: sorvegliatissimi peraltro), alla famiglia di Stefano Cucchi e a qualche sparuto gruppetto di fedelissimi della famiglia, si ascolta la voce lievemente microfonata degli avvocati. Sono 12, uno per ogni imputato. La durata del processo si prevede a tempo indeterminato. Solo alle 22 verrà letta la sentenza.

Il processo di terzo grado

Il rito giudiziario ha inizio in Cassazione. Il presidente del collegio, Piero Savani, è impassibile come la sua funzione richiede. Quasi un mero ascoltatore di ogni requisitoria pronunciata dai legali. Presentissimo Fabio Anselmo, il legale della famiglia Cucchi, l’uomo che ha mostrato coraggio e grinta necessari per bypassare le inadeguatezze e le contraddizioni delle sentenze precedenti, per far luce sui depistaggi che sono apparsi evidenti e le verità sommerse che sono state volutamente oscurate nel corso di questi sei lunghi anni di sofferenze per la famiglia del giovane.

Rita, Giovanni (i genitori di Stefano) e Ilaria, la coraggiosa sorella, sono in prima fila ad ascoltare. Sereni e ancora una volta fiduciosi nell’evolversi della giustizia. Questa volta ne hanno ancor più motivo. L’avvenuta esecuzione di pestaggio sul giovane finalmente verrà confermata durante la deposizione attenta e particolareggiata del procuratore Nello Rossi. Ma c’è dell’altro, c’è molto di più questa volta. Ci sono delle prove inconfutabili di pestaggio depositate presso la Procura di Roma e si aprirà un processo bis. Si moltiplicano quindi le speranze che giustizia venga fatta e che su tutto il torbido che si è concatenato nei vari passaggi che hanno visto il giovane Stefano fagocitato in un sistema di vigilanza così corrotto e martirizzante da condurlo alla morte, sia fatta luce e venga rivelata infine la verità.

Stefano non è morto di freddo, di fame o per patologie pregresse al suo arresto. E nemmeno perché era un drogato, così come ha dichiarato chi ha fomentato maldicenze gratuite, in tutti questi lunghi anni di calvario per la famiglia. Stefano è morto perché è stato selvaggiamente picchiato. E il gip Rossi, nella sua requisitoria in Cassazione lo afferma: “Questa persona doveva essere custodita da uomini dello Stato ed è stata invece oggetto di gravi violenze, per poi morire in un ospedale pubblico, dove è stata violata la sua dignità". Il riferimento ai responsabili arriva chiarissimo. A torturare Stefano sarebbero stati i carabinieri dopo il fermo. A non curarlo adeguatamente, omettendo le cure necessarie per evitarne il decesso, sarebbero sati i medici dell’ospedale “Sandro Pertini” a cui il giovane, drammaticamente malconcio, era stato affidato nel reparto protetto, destinato ai detenuti.

E ancora dal gip, Nello Rossi, giungono come manna per la famiglia, il suo legale e per tutti coloro che attendono giustizia sul caso, altre affermazioni: “..dai membri di corpi della polizia e dai medici, la collettività ha il diritto di esigere la massima correttezza, il rispetto umano e la piena osservanza delle leggi dello Stato di diritto, se si vuole evitare che il potere dello Stato degradi ad arbitrio ed a mera violenza e sia irrimediabilmente delegittimato agli occhi dei cittadini. Lo Stato senza diritto è una banda di briganti”, e fa riferimento a Sant’Agostino e a Benedetto XVI. Prosegue definendo il comportamento dei medici del Pertini “clamorosa sciatteria”.

Si apre quindi un nuovo scenario sul caso. Viene accolta dalla Quinta Corte Suprema la richiesta di annullare il ricorso contro la sentenza di assoluzione (emessa in Corte d’Appello il 31 ottobre 2014) verso le guardie carcerarie che avevano in custodia il giovane Cucchi. Dalla requisitoria del gip, i tre agenti (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici) non sarebbero coinvolti nel pestaggio, avvenuto precedentemente. È l’avvocato Fabio Anselmo, ascoltata la requisitoria del gip, a ritirare il ricorso contro gli agenti e a mantenere ben saldo quello contro i medici del Pertini.

La sentenza della Corte di Cassazione- Collegio della V sezione penale

Assoluzione per i tre agenti di polizia penitenziaria. Assoluzione per i tre infermieri del Pertini. Appello bis per i cinque medici dell’ospedale “Sandro Pertini”: Aldo Fierro, Luigi De Marchis, Stefania Corbi, Flaminia Bruno e Silvia De Carlo. La notizia arriva dai media, oltre le 22 ed è un toccasana. Si riapre tutto l’iter giudiziario. Sarà fatta giustizia e chi si è macchiato dell’iniqua colpa di tortura, che per la legge italiana assurdamente non è reato, pagherà. I medici che, in pieno diniego del codice deontologico e “per sciatteria” (come definisce il loro comportamento il gip Rossi) non sarebbero intervenuti su un paziente in evidenti e gravissime condizioni, al fine di salvargli la vita, potrebbero essere condannati definitivamente.

Per Fierro, primario del reparto dell’ospedale romano “Sandro Pertini” in cui avvenne la morte di Stefano e nuovamente imputato, risponde il suo avvocato, Gaetano Scalise, a contraltare la sentenza della Cassazione: “Una undicesima perizia non chiarirebbe nulla .Gli imputati sarebbero in balia di un diritto senza regole se si volesse riaprire per loro il processo solo perché altrimenti l'accertamento probatorio nell'inchiesta bis sarebbe monco per la mancanza di alcuni imputati”. Ma appello bis e processo bis decollano. Nessuno potrà fermare ormai il nuovo iter giudiziario. Specie ora che la procura ha riaperto le indagini e le nuove prove sono state depositate. Prove che inchioderanno chi, di Stefano, reo di spaccio di stupefacenti, ne ha fatto un martire, pestandolo a morte.

Le testimonianze di Rita, Giovanni e Ilaria Cucchi

“Fin dall’inizio abbiamo sempre chiesto la verità e la giustizia” - così Rita . “Non abbiamo chiesto dei colpevoli, ma i colpevoli. Mio figlio, quel 15 ottobre, quando è uscito da casa stava benissimo. Quando l’ho visto l’ultima volta, durante la perquisizione a casa, la stessa sera dell’arresto, era ancora in ottima forma. I carabinieri mi hanno detto di stare tranquilla che il giorno dopo Stefano sarebbe tornato a casa. Non ho più potuto rivederlo vivo. Se lo sono passato più di 100 persone, chissà dove e quando è stato ridotto in fin di vita. Quando l’ho visto ormai morto, per come era ridotto, ho stentato a riconoscerlo”.

“Le prove di colpevolezza sono contenute nelle registrazioni rilevate e depositate in procura” , dice Giovanni, il padre di Stefano. “La Procura ha fatto un lavoro eccezionale e costante d’intercettazione. È stato fatto un vero lavoro investigativo con la “V” maiuscola. E di questo siamo molto contenti, perché sta uscendo fuori la verità, peccato che abbiamo dovuto attendere ben sei anni e sopportare questo calvario. Oggi, come parte civile, abbiamo rinunciato al ricorso contro gli agenti plenipotenziari, perché le argomentazioni del Procuratore sono state inoppugnabili. Non risulta alcuna dimostrazione evidente della colpevolezza di questi agenti, cosa che il pm aveva tentato di dimostrare con la testimonianza di un detenuto, che purtroppo non è stato ritenuto un testimone attendibile”.

Infine, Ilaria: “Oggi è una giornata importante, un nuovo inizio. I medici sono responsabili della morte di mio fratello, se lo avessero curato non ci sarebbe alcun motivo di parlare di lui e della sua vicenda. Mi auguro che adesso, dopo il verdetto della Cassazione, gli agenti della polizia penitenziaria parlino di quello che è avvenuto a mio fratello e dicano tutto quello che sanno. Adesso vedo che la Procura ha voglia di fare chiarezza e mi sento finalmente in sintonia con i magistrati".

Inchiesta bis: l’incidente probatorio

L’inchiesta in corso porterà ad un nuovo processo che viaggerà parallelo all’appello- bis, richiesto dalla Cassazione. L’inchiesta bis si basa sull’incidente probatorio, un istituto del diritto processuale penale che si riferisce all’art.392 del codice penale. Un’eccezione alla norma “avente valore di prova”. Le nuove indagini sul caso Cucchi sono state avviate dalla Procura di Roma e condotte dal Procuratore, Giuseppe Pignatone. Coinvolgono ben cinque militari dell’Arma dei Carabinieri, iscritti nel registro degli indagati, coinvolti tutti nel pestaggio ai danni di Stefano. Negli audio una donna dell’Arma racconta all’avvocato Anselmo quanto ha saputo dalle confidenze di alcuni suoi colleghi e rivela al legale frasi che inchiodano i colpevoli, tutti appartenenti all’Arma.

Dalla testimonianza della moglie di un carabiniere coinvolto nel pestaggio: “Ricordo che Raffaele mi parlò di un violento calcio che uno di loro aveva sferrato al Cucchi. Preciso che Raffaele raccontava che il calcio fu sferrato proprio per provocare la caduta. Quando raccontava queste cose Raffaele rideva, e davanti ai miei rimproveri, rispondeva: “ Chill è sulu nu drogatu è merda”. “Gliene abbiamo date tante a quel drogato…”[1].

Prove che nessuno potrà più cancellare. Finiti i depistaggi e le omissioni. I fatti attuali smentiscono anche le vergognose parole che Carlo Giovanardi ebbe il coraggio di pronunciare a pochi giorni dalla morte del giovane Cucchi: “Solo un anoressico… tossicodipendente… epilettico… larva zombie”. Per lui Stefano era morto di droga e non c’era motivo di indagare. La pietra tombale sul calvario della famiglia Cucchi, una famiglia sana e perbene che ha dovuto subire l’atroce e misteriosa perdita di un figlio, non calerà di certo. È l’ora della verità.

Note

L’Espresso. Super testimoni del caso Cucchi, ecco gli audio - l'Espresso espresso.repubblica.it/.../testimoni-caso-cucchi-ecco-gli-audio-1.229139

19/12/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alba Vastano

"La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re. Non si rende conto che in realtà è il re che è il Re, perché essi sono sudditi" (Karl Marx)


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