La presidente del Consiglio si accoda alle dichiarazioni dei ministri Valditara, Salvini e Delmastro sugli immigrati, sostenendo che l’aumento dell’immigrazione è in relazione con l’aumento dei reati sessuali nei confronti delle donne. La presidente del Consiglio chiarisce poi che questa affermazione è anche ovvia, perché date le condizioni di povertà e disagio che vivono la maggioranza degli immigrati essi sono maggiormente portati a delinquere e a compiere reati sessuali. Dunque, viene creata una relazione, in maniera apparentemente oggettiva e neutra, tra due fenomeni sociali: la povertà degli immigrati ed i reati sessuali che sfociano sino all’omicidio.
La prima osservazione che viene in mente è di natura tecnica. È possibile creare una relazione sociale tra questi due fenomeni senza averne cognizione da un punto di vista della ricerca sociale? I fenomeni sociali possono essere spiegati in maniere diverse: possono avere ad esempio una relazione di causalità (rapporto di causa-effetto), che è quella a cui fanno riferimento alcuni ministri e la Presidente del Consiglio nel caso degli immigrati; possono avere una correlazione, che avviene quando un fenomeno è correlato ad un altro, ma non è detto che uno sia causa dell’altro; possono avere inoltre relazioni di interdipendenza e altre ancora. Queste relazioni sono oggetto di studio da parte dei sociologi, i quali infatti, dedicano il loro tempo allo studio di certi fenomeni sociali e lo fanno con gli strumenti propri che le scienze sociali stabiliscono, al di là delle considerazioni di carattere personale e, pertanto, per loro natura arbitrarie. Questa è una prima osservazione fondamentale per capire come invece spesso, la politica, usi in maniera distorta e strumentale, considerazioni che fanno riferimento ad apparati ideologici per ammantarli di scientificità ruminando statistiche senza alcun criterio scientifico e richiamandosi ad un generico “buon senso”. Ricerche empiriche, ad esempio, se da un lato è vero che mettono in relazione il fenomeno della povertà con i reati generalmente intesi (non quindi specificatamente quelli di natura sessuale), ne evidenziano al contempo la complessità. Infatti, se è plausibile che esista una relazione di causalità tra i due fenomeni, viene anche messo in luce come questa sembra essere condizionata dalla disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, e più propriamente dalla percezione di disuguaglianza e ingiustizia sociale. Sono fattori che favoriscono la devianza. Non è dunque la povertà in sé, a generare devianza sociale, ma la disuguaglianza. Ma viene pure puntualizzato come a fronte di politiche sociali inclusive, determinate da strutture di uno stato sociale capillare, reti di protezione sociale, sistemi educativi e di promozione culturale, principi solidali diffusi, il fenomeno viene attenuato, rendendo quindi meno evidente tale relazione causale. Questi aspetti dovrebbero fare molto riflettere su dove puntare l’attenzione, su dove investire le risorse economiche, visto che le politiche repressive ed escludenti non mettono mai in discussione uno status quo e le ingiustizie sociali che esso genera, dato che tendono solo a colpevolizzare i soggetti implicati nel fenomeno deviante. A maggior ragione, bisognerebbe riflettere seriamente, quando queste disuguaglianze tra popolazione locale ed immigrati sono il frutto dei rapporti di dominio internazionale tra economie differenti, della devastazione ambientale e della guerra, che inevitabilmente produce povertà e aumento dei flussi migratori. D’altronde questo aspetto è tipico del pensiero conservatore che scarica solo sull’individuo la responsabilità della sua esistenza, colpevolizzandolo e reprimendolo, espungendo da ogni ragionamento le cause dei comportamenti sociali devianti e finendo per descrivere e spiegare la realtà sociale diseguale come data e immodificabile. Gli immigrati poveri sono un problema e sono un problema perché sono poveri. Un pensiero tautologico utile solo a distogliere l’attenzione dalle cause del problema. Detto in altre parole: la realtà sociale è diseguale e produce fenomeni devianti perché “loro” sono poveri sia economicamente che culturalmente.
Questo pensiero, che non aggiunge nulla alla riflessione critica sull’esistenza umana, fonda dunque il suo vigore sociale nel classismo e nella xenofobia. Talvolta trova spiegazioni e consensi persino nel razzismo, quando crea una netta separazione identitaria tra “noi” e gli “altri” che finiscono per essere considerati subumani, perché appartenenti a culture inferiori, soprattutto se provenienti dal continente africano dove il colore della pelle funge da effetto distintivo e stigmatizzante. Ciò detto senza minimamente giustificare atti criminali né tanto meno ascriverli a forme di ribellismo sociale che, invece, potrebbero avere contenuti legati ad un bisogno di trasformazione politica dell’esistente fondato sulla giustizia sociale. Spesso, infatti, la criminalità rappresenta la perdita di ogni riferimento civile determinato dalla disintegrazione di un patto sociale, oppure riproduce gli stessi apparati di potere escludenti e si apparenta con il potere politico ed economico dominante.
In riferimento poi alla specifica relazione causale tra immigrazione e omicidi di donne è bene analizzare con meno superficialità e più attenzione le statistiche a disposizione.
Concentrando la nostra attenzione sul reato più estremo nei confronti delle donne, ossia solo sugli omicidi, analizzando alcuni dati scopriamo infatti che: il 94,3% delle donne italiane è vittima di italiani, il 43,8% delle donne straniere di propri connazionali. Le statistiche quindi ci dicono che la percentuale di donne italiane uccise dagli stranieri è percentualmente minore di quella delle donne straniere uccise dagli italiani. In generale i dati Istat ci dicono che gli uomini italiani uccidono con più frequenza le donne, 44,3%, a fronte degli uomini stranieri, 37,9%. Come ampiamente riportato in letteratura, gli omicidi in generale - e molti altri tipi di reato – sono prevalentemente interetnici. Ciò è verificato anche in questo caso, e il dettaglio disponibile (italiani/stranieri) fornisce interessanti informazioni, anche se non permette un’analisi approfondita per singola cittadinanza: il 70,9% dei 285 omicidi di cui si conosce l’autore avviene tra italiani, e il 16,8% tra stranieri (non necessariamente della stessa nazionalità). Oltre a questi si verifica un 6,7% di omicidi in cui l’autore è italiano e la vittima straniera, e un 5,6% di autore straniero e vittima italiana (Fonte: Istat 2023). Per avere un quadro ampio, va aggiunto che in Italia la percentuale degli stranieri è di circa l’8,7% sul totale della popolazione, ai quali va sommato circa l’1% di irregolari per un totale complessivo di 9,7% di stranieri. È evidente quindi, dai dati Istat, che le “potenzialità” omicide degli stranieri, soprattutto nei confronti delle donne, rispetto agli italiani, è inferiore di parecchi punti percentuale. Balza agli occhi che il 56,2 % di omicidi di donne straniere è commesso dagli italiani, mentre solo il 3,7% di donne italiane viene ucciso dagli stranieri. I dati delle statistiche, quindi, parlano di fatti esattamente opposti a quelli descritti dal Governo e i suoi Ministri e dovrebbero lasciare perplessi in primo luogo i loro sostenitori. Parlare di “potenzialità” omicide in funzione di un’appartenenza ad una categoria sociale dovrebbe farci rabbrividire, perché ci proietterebbe in una visione distopica dove dei fattori statisticamente rilevanti finiscono per diventare socialmente discriminanti e predittivi rispetto ad una potenziale devianza sociale di alcune categorie di persone. Questione che si manifesta in tutta la sua virulenza come nel caso degli immigrati che, dopo essere stati soccorsi in mare, sono stati deportati in Albania nei centri di Identificazione e Permanenza per i rimpatri. Al di là dell’inconsistenza attuale dei numeri di questa vera e propria pantomima (massima presenza di 20 persone ospitate in un dato momento) che ricorda una propaganda di regime, il paradosso è che questa narrazione tossica dovrebbe, statistiche alla mano, essere raccontata esattamente al contrario, facendo emergere un dato preoccupante per le donne straniere, visto che vengono solitamente uccise da uomini italiani in maniera sproporzionata rispetto ai propri connazionali. Sebbene quindi i fatti racconti un’altra storia, per essere seri dovremmo tener conto della percentuale della popolazione italiana e, inoltre, dovremmo ragionare sulle cause di questa realtà rappresentata da una ricostruzione statistica, comunque assurdamente rovesciata. Se non si analizzano le condizioni di vita, di assoggettamento delle donne straniere alla criminalità, compresa quella italiana, così come tante altre variabili che potrebbero interferire col fenomeno, non possiamo trarre conclusioni affrettate e sostenere certe tesi. Diversamente, assumendo proprio questa visione semplicistica, tipica dei tratti distintivi di questo governo, bisognerebbe sostenere che, a fronte dei dati statistici, le donne straniere devono essere terrorizzate dalla potenzialità omicida degli uomini italiani…
Una seconda osservazione, più generica ed ampia, riguarda considerazioni sui mali assoluti delle società contemporanee. Credo che potremmo convenire tutti che la guerra sia da ascrivere come la peggiore delle condizioni di esistenza dell’uomo. L’acquiescenza generale alla possibilità di convivere con la guerra, che pare essere diventato negli ultimi tempi un mantra contemporaneo, è una sorta di ossimoro. La massima contraddizione che l’uomo possa esprimere rispetto alle sue più nobili aspirazioni. La fattibilità di poter risolvere le controversie internazionali attraverso la guerra non è, per noi italiani, solo incostituzionale, come ci indica in modo inequivocabile l’art. 11 della nostra Costituzione, ma rappresenta anche la cessazione della ragionevolezza umana, dato che accetta omicidi di massa come modo naturale di risolvere conflitti di interessi tra parti che si contrappongono negli scenari internazionali. È proprio sotto questo aspetto che dovremmo, prima di tutto, considerare le potenzialità distruttive, omicide, dell’umanità. Come d’altronde dovremmo riflettere sul fatto che, per esprimere una capacità così distruttiva, che arriva persino a sterminare parte delle popolazioni in guerra, sono sicuramente necessarie ingenti risorse economiche. È evidente che le guerre che usano una tecnologia avanzata, ultramoderna ed altamente distruttiva, sono una caratteristica delle società più ricche. Chi è dunque in grado di promuovere e finanziare le guerre in tutto il pianeta? Oltre agli interessi predatori delle varie economie più ricche su un piano internazionale, le lobby degli armamenti, che contribuiscono a trascinare una parte dell’economia globale verso l’accettazione di questo scenario grazie agli enormi ed influenti apparati finanziari, politici ed economico-militari (vedi la Nato), sono portatrici di interessi immediati. L’enorme ricchezza di queste lobby, per dirla in maniera brutale, viene prodotta vendendo armi che sputano sentenze di morte, generando inoltre distruzione di infrastrutture, beni e servizi con lo scopo di indebolire le economie altrui. Un articolo del Sole 24 ore di aprile 2022, facendo riferimento ai dati del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) evidenzia come tra il 2010 ed il 2020 le prime 100 industrie degli armamenti abbiano fatturato circa 5.000 miliardi di dollari, con un aumento costante dal 2015 in poi. Più della metà del fatturato viene dagli Usa, a seguire Uk e Cina. L’Italia si colloca al sesto posto, ma con un incremento costante negli ultimi anni, grazie a Finmeccanica e Leonardo. Il 2023 segna il nono anno di aumento consecutivo. Per far capire l’aumento vertiginoso per le spese militari basti pensare che solo nel 2023 si sono spesi 2.500 miliardi di dollari con una tendenza continua ad aumentare. Questo banale aspetto dell’economia di guerra non può che condurci alla naturale conclusione che dovrebbero essere proprio i poveri a vivere nel terrore generato dalle classi più abbienti, perché è altrettanto banale che a pagare questi conti sia l’intera collettività, così come siano le persone più vulnerabili ad essere colpite nei teatri di guerra. Dunque, i ricchi proprietari delle aziende di armamenti, e quegli stati che ne traggono profitto, hanno una responsabilità fondamentale sugli scenari di guerra, dato che i loro piani di sviluppo economico sono intrecciati con la proliferazione dei conflitti. Produrre e vendere ogni sorta di arma che, per definizione, è potenzialmente mortale, è la loro missione principale.
Ecco quindi che, alla luce di alcune banali considerazioni, dovremmo trarne delle semplici ed opposte conclusioni rispetto a quanto sostiene questo governo: sono i popoli e le persone più povere, a partire da quelle immigrate, che devono temere quelle più ricche. Sono infatti queste ultime che hanno la maggior forza economica ed un interesse a muovere sistematicamente una guerra senza confine contro i poveri, sia nei conflitti internazionali così come all’interno dei vari paesi attraverso la criminalizzazione di una condizione sociale per poter mantenere inalterati i rapporti di dominio tra classi.