I nodi della crisi di governo

Nessuno dei possibili sbocchi di questa crisi di governo sarà risolutivo della grave crisi economica e sociale. Servirebbe sviluppare la coscienza di classe per rivendicare un vero cambiamento.


I nodi della crisi di governo Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/26/Palazzo_Chigi_-_Roma_%282010%29.jpg

La crisi di governo provocata da un Salvini suonato pone il paese di fronte a diversi possibili sbocchi: un governo che eviti l’aumento delle aliquote Iva e scriva la legge finanziaria per poi andare al voto; o, molto peggio, un governo tecnico che invece risani i conti secondo il modello Monti, includendovi anche l’aumento dell’Iva, quindi lacrime e sangue senza che nessuna forza politica ne risponda (meglio sarebbe dire che tutte le forze politiche dovrebbero risponderne in solido); o elezioni in autunno, precedute o meno dalla decisione di ridurre il numero di parlamentari, decisione che comunque sarebbe operativa nella successiva legislatura… O chissà quale altra bislacca soluzione che esca fuori dal cilindro del Presidente della Repubblica e degli indecorosi partiti rappresentati nell’attuale Parlamento. Non è da escludere neppure, tanto è il trasformismo che domina nei palazzi della politica, che si riesca a fare il miracolo di mettere insieme un governo di legislatura. Darebbe d’aiuto il fatto che i programmi con cui i maggiori partiti si sono presentati alle elezioni dell’anno scorso concordavano o erano molto vaghi sulle cose che davvero contano.

Anche riguardo alla composizione della eventuale maggioranza di fine legislatura, sia questa fine ravvicinata o meno, e del quadro che può venire fuori dopo l’eventuale voto, ci si può sbizzarrire. Un Pd lacerato dalle bordate renziane oscilla fra l’ipotesi di un accordo con i 5 stelle, eventualmente con qualche altro cespuglio, e il voto anticipato, raccomandandosi a San Mattarella perché gli levi le castagne dal fuoco e mettendo nel conto la possibilità di una fuoriuscita dei renziani esclusivamente per interessi di bottega: Renzi ha la maggioranza dei parlamentari Pd e con le elezioni anticipate la perderebbe; Zingaretti ha l’interesse opposto di rinnovare la compagine parlamentare. A Salvini che è per il voto subito, gli resta da pensare a un futuro con Berlusconi e la destra eversiva al pari suo. È questa anche l’ipotesi degli altri partiti di destra, che si differenziano fra di loro solo su chi dovrà guidare il governo, sul coalizzarsi già alle elezioni o subito dopo e bizantinismi vari.

I 5 stelle, dissanguatisi con la sudditanza ai diktat della Lega nel corso dell’esperienza di governo, temono le elezioni come la peste e sono disposti a tutto come del resto ci si può aspettare da una formazione qualunquista e priva di idee. Altre formazioni di centro contano quanto il due di briscola, mentre dei cespugli a sinistra del Pd meglio tacere in quanto contano come il due di picche quando briscola è cuori. In ogni caso, nonostante che il loro orizzonte non vada oltre il centrosinistra, nonostante i guai da esso provocati nelle varie esperienze di governo degli ultimi decenni, sono disposti ad associarsi a un Pd derenzizziato in qualunque accrocchio di governo. Fatte le dovute proporzioni, non c’è molta differenza con i 5 stelle dal punto di vista del vuoto di idee.

È penoso constatare che tutte queste schermaglie prescindono dai problemi reali del paese che nessuno sa come affrontare e che quindi verranno in ogni caso affrontati dal “pilota automatico” evocato in un’altra simile occasione da Draghi, cioè dai poteri economici transnazionali. È fuori da ogni ipotesi, quindi, una collocazione internazionale dell’Italia non allineata agli Usa e alle potenze europee e una sua fuoriuscita dalla Nato e dalle varie guerre in atto.

Se riusciamo a ripulire la mente dalle false emergenze inculcate dai media, il problema numero uno è probabilmente la grave crisi economica e occupazionale. La disoccupazione, per esempio, è all’11 per cento secondo le statistiche ufficiali, ma molto di più se si tiene conto degli inattivi scoraggiati che rinunciano a cercare lavoro presso i centri dell’impiego o a chi ha in mano solo qualche miseria di lavoretto ma ciò è sufficiente per non essere conteggiato fra i disoccupati, secondo le regole pelose delle nostre statistiche. La disoccupazione giovanile supera il 30 per cento. Nel meridione questi dati sono ancora più tragici. E la situazione è destinata a peggiorare se si considera che la recessione bussa alle porte perfino della forte Germania e che provengono segnali non proprio tranquillizzanti a seguito delle guerre economiche di Trump.

Se rimaniamo all’interno del quadro delle istituzioni e della moneta europea, così come ogni forza politica dichiara di volere fare, non ci sono margini per rivitalizzare l’economia ampliando la domanda secondo i criteri keynesiani. In ogni caso tali politiche non risolverebbero il problema senza un contemporaneo rafforzamento degli strumenti di politica economica, cioè senza la presenza di un forte ruolo dello Stato che sia in grado di fare da traino di uno sviluppo più equilibrato e compatibile con le emergenze ambientali e di intervenire profondamente nel modello di accumulazione capitalistica attraverso investimenti pubblici volti a potenziare il carattere sociale dell’economia, a salvaguardare l’ambiente, a sostenere la ricerca e l’innovazione. Infatti se le decisioni vengono delegate al “mercato” è normale che si punti immediatamente allo sfruttamento del lavoro, per una crescita puramente quantitativa a prescindere dai reali bisogni degli uomini e dell’ecosistema, bisogni che il capitale può prendere in considerazione solo come mezzo per succhiare sempre più plusvalore, quando, per esempio, investire nella green economy costituisce un business. Altrettanto si potrebbe dire della necessità di ridurre in maniera generalizzata l’orario di lavoro e di redistribuire il carico fiscale attraverso imposte patrimoniali e imposte sul reddito fortemente progressive.

Ma queste ipotesi, pur mantenendosi in un quadro riformistico, sono del tutto assenti nel dibattito politico perché ormai la rappresentanza “democratica” è una foglia di fico dietro cui si nascondono i poteri reali che, attraverso i sistemi elettorali truccati, la privatizzazione progressiva della formazione, l’uso dei media e della corruzione, curano che venga chiuso ogni spazio alle forze non embedded nel liberismo imperante.

Del resto ogni conquista sociale comporta riduzione dei margini di profitto e quindi, senza porre argini allo strapotere del capitale, anche qualora venisse attuata, comporterebbe il suo riassorbimento o la fuga dei capitali dai settori produttivi per rivolgersi alla finanza, agli investimenti all’estero e ai paradisi fiscali.

Parlando di politiche liberiste non possiamo fare a meno di ritornare sul il carattere dell’Unione Europea, nella cui carta costitutiva sono iscritte tali politiche.

C’è chi spera che in seguito alla crisi dell’economia tedesca possa esserci un ripensamento sulle scelte economiche. Non sono in grado di escluderlo, ma neppure mi faccio troppe illusioni sia perché un po’ di recessione e di disoccupazione in certi casi può essere un toccasana del capitale (il famoso esercito industriale di riserva di Marx), sia perché le priorità degli interessi dei creditori, il rigore finanziario, il pareggio di bilancio e i limiti all’indebitamento pubblico, la lotta all’inflazione, la tutela della concorrenza, l’indipendenza della banca centrale dalla politica sono parte integrante della Costituzione europea, anzi sono l’essenza della Costituzione europea, che per essere modificata prevede l’unanimità o una maggioranza qualificata difficilissima da raggiungere. In sostanza la rinuncia agli strumenti di politica economica e sociale e la caratterizzazione delle istituzioni come sentinella degli interessi del capitale sono un tabù irrimovibile.

Quindi non ci facciamo troppe illusioni sullo sbocco della crisi. Morto un Papa se ne fa un altro. Sgonfiatosi un pallone gonfiato ce ne viene proposto subito un altro. I precedenti di Craxi, Berlusconi e Renzi sono istruttivi.

Il lavoro da fare deve essere volto a contenere i danni nell’immediato e preparare una prospettiva attraverso la ripresa delle lotte, una riunificazione di quelle in atto, disperse in mille obiettivi parziali, e la ricomposizione di un blocco sociale imperniato sulle classi lavoratrici che metta in discussione il modello di sviluppo, introducendo elementi forti di programmazione economica pubblica e di perequazione sociale. Visti gli attuali rapporti di forza uno dei principali elementi su cui servirebbe lavorare è quello della coscienza, un ruolo pedagogico da sviluppare all’interno delle lotte rivendicative e in iniziative specifiche per arginare lo strapotere del capitale e dei suoi lacchè nella comunicazione e nella formazione. Anche gli obiettivi riformistici, se perseguiti nell’intento di spostare i rapporti di forza e di promuovere la presa di coscienza delle classi sfruttate, possono essere d’aiuto, pur nella consapevolezza che da soli non possono essere la soluzione del problema. Giudichi il lettore se è possibile muoverci in questa direzione senza un autorevole Partito comunista.

24/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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