Continuiamo la panoramica sui futuri componenti del governo Trump: dopo aver visto chi saranno coloro che avranno la responsabilità di condurre la politica estera, la difesa, la politica economica e commerciale, in questa seconda parte ci concentriamo invece sulle nomine che caratterizzano i principali aspetti della politica interna, dalla sicurezza alle politiche sociali.
Cominciamo da una scelta che, analogamente a quelle compiute per la politica economica, fa emergere una nuova e aperta contraddizione, almeno in parte, con il messaggio populista cavalcato durante le elezioni. Il nuovo Segretario al Dipartimento del Lavoro, Andrew Puzder, considerato un nemico giurato dalle principali trade unions in quanto proprietario di una serie di catene di ristorazione e fast-food, e che si è particolarmente distinto in una serie di violazioni dei diritti dei lavoratori, almeno secondo le leggi della California. È inoltre un sostenitore dell’abrogazione della legge cosiddetta “Obamacare” cioè la riforma del sistema sanitario che, con tutti i suoi limiti e difetti, ha comunque consentito un minimo di copertura sanitaria per circa 20 milioni di cittadini sotto la soglia di povertà. Un provvedimento sul quale ritorniamo più sotto in questo articolo. Egli è inoltre un oppositore del movimento Fight for 15$ sorto un paio d’anni fa e che sta conducendo con successo una serie di lotte per l’incremento del salario minimo fino a 15 dollari orari, provvedimento che è già passato in alcuni stati. Un chiaro segno che l’amministrazione Trump perseguirà attivamente politiche di bassi salari e rimozione di garanzie e tutele per i lavoratori, alla faccia del presunto “operaismo” di Trump, sotto-categoria del “populismo”, attributo che si è guadagnato in campagna elettorale ma che si sta rivelando, come prevedibile, un falso mito.
Non può dirsi lo stesso per quanto riguarda la nomina di Tom Price a Segretario alla Sanità. In questo caso infatti la nomina appare assolutamente coerente con uno degli obiettivi annunciati già in campagna elettorale da Trump, cioè l’abrogazione della riforma sanitaria realizzata durante il doppio mandato di Obama, sopra citata. Tom Price è un chirurgo ortopedico, ed è anche un membro della Camera dei Rappresentanti, dove si è distinto per aver sempre osteggiato la riforma cosiddetta Obamacare e, proprio nei giorni scorsi, insieme ad altri rappresentanti repubblicani, ha presentato il progetto di abrogazione, che dovrebbe passare, nonostante sia necessaria una maggioranza qualificata in Senato, e i democratici stanno tentando di apportare una strategia di difesa del provvedimento, puntando su alcuni repubblicani centristi. Superfluo aggiungere che un provvedimento del genere non soltanto priverebbe milioni di americani di reddito basso di un’assistenza sanitaria accessibile, ma creerebbe anche un caos difficile da gestire nei rapporti con le compagnie di assicurazione che avevano aderito a Obamacare. Da qui è lecito sospettare che l’attivismo democratico per impedire l’adozione del provvedimento, più che da nobili intenzioni, si motiva con l’azione lobbistica delle grandi compagnie di assicurazione. Sia chiaro che Obamacare non possa essere considerata una grande riforma progressista (e tantomeno socialista), non avendo introdotto nulla di paragonabile ai sistemi sanitari europei eredi, sia pur malconci, dell’epoca del welfare, e non essendo ispirata a criteri di servizio pubblico e universalità. Tuttavia, in un paese come gli USA, essa aveva leggermente migliorato l’accesso a cure sanitarie di base per una fascia della popolazione, peraltro prevalentemente nera o ispanica (l’obiettivo era di 25 milioni ma le ultime rilevazioni parlano di non più di 13 milioni di beneficiari effettivi), che in passato di fatto non aveva alcuna possibilità di cura se non rivolgendosi al peloso e discriminatorio sistema delle istituzioni caritatevoli finanziate da “filantropi” privati. L’abrogazione dell’Obamacare comporterebbe il ritorno al sistema Medicare, avviato nel 2003 in un Congresso che annoverava una maggioranza repubblicana simile a quella attuale. Un sistema congegnato in maniera analoga all’attuale, con lo Stato federale che copre una parte del premio dovuto alle compagnie assicurative, con la differenza che aumenterebbe la parte a carico del paziente rispetto a quella sostenuta dal bilancio federale.
Se sul fronte della salute si piange, su quello della scuola non ci sarà certo da ridere: in questo caso la prescelta di Trump per la poltrona di Segretario del Department of Education, è una donna, Betsy DeVos, 58 anni, imprenditrice miliardaria, attivista e filantropa, ex presidente del Partito repubblicano in Michigan, schierata naturalmente a favore dell'istruzione privata. Anche in questo caso comunque non siamo in presenza di “tradimento” elettorale. L’argomento non era stato particolarmente dibattuto da Trump, ma in ogni caso era apparso chiaro che non si era mai espresso a favore dell’accesso per tutti all’educazione, soprattutto quella universitaria, che era stato invece uno dei cavalli di battaglia di Bernie Sanders e gli aveva consentito un forte sfondamento di consensi soprattutto tra i giovani, tema poi prontamente recuperato da Clinton ma ovviamente con molto minore credibilità. Betsy DeVos è presidente della Federazione Americana per i bambini e, in tale veste, ha promosso la distribuzione di buoni alle famiglie bisognose per mandare i figli in scuole private. È quindi da prevedere un ulteriore rafforzamento della scuola privata con il fine di smantellare definitivamente quel poco di scuola pubblica ancora funzionante che esiste nel paese . E se è pur vero che la scuola è una materia fortemente regolata anche dai singoli stati e dai livelli locali di amministrazione, in ogni caso la politica federale determina la direzione verso la quale procede il sistema, e laddove si creano e si consolidano forti aggregazioni di interessi economici (vedi università e altre istituzioni scolastiche private), questi poi finiscono con l’influenzare le scelte anche ai livelli di amministrazione locale. Ciò avviene attraverso un duplice binario: l’attività lobbistica da un lato, ma anche una strategia aggressiva di marketing e comunicazione nei confronti delle famiglie che, pur di assicurare ai propri figli un futuro migliore, non esitano ad indebitarsi e ad indebitare gli stessi figli per fargli frequentare i college più prestigiosi: e non è strano se le graduatorie, sulla cui neutralità è lecito dubitare, sono dominate sempre di più dalle università private. D’altronde si pagano rette considerevoli anche nelle università pubbliche. Da non trascurare infine l’interesse di banche, compagnie assicurative e istituzioni finanziarie che in questo modo vedono naturalmente crescere un business molto lucroso.
Per la posizione di Segretario agli Interni la scelta di Trump è caduta su Ryan Zinke, deputato repubblicano del Montana, il quale, dopo venti anni di arruolamento in marina, si è poi messo in politica ed ha fatto dell’indipendenza energetica nazionale uno dei suoi cavalli di battaglia. Ciò lo ha portato spesso a scontri con associazioni ambientaliste, in particolare su tematiche relative alla gestione dei terreni di proprietà federale che, soprattutto in alcuni stati meno popolosi e ricchi di risorse minerarie ed energetiche, come il suo, coinvolgono gli appetiti dei grandi gruppi del petrolio e del gas. Queste sue posizioni, che a volte è persino giunto a giustificate anche in termini ambientalistici (es. favorire il pieno utilizzo delle risorse esistenti e ridurre gli sprechi), lo hanno anche portato a volte in rotta di collisione con alcuni settori del partito repubblicano, che sostenevano la cessione di terreni federali ai singoli stati per progetti di rimboschimento o per creazione di aree naturali protette. Nonostante ciò Zinke annovera tra i suoi sostenitori e finanziatori anche l’associazione delle industrie delle attività all’aperto, che in stati come in Montana rappresenta una delle principali fonti dell’economia locale. Ciò tuttavia non gli ha impedito di essere un sostenitore del gasdotto Keystone, una di quelle devastazioni territoriali e socio-economiche osteggiate da associazioni ambientaliste.
Un’altra nomina che conferma quale sia la linea della futura amministrazione Trump in materia di energia e ambiente, è quella di Rick Perry, 66 anni, ex governatore repubblicano del Texas, che va a guidare lo strategico Dipartimento dell'Energia. Da notare che lo stesso Perry propose, alcuni anni fa, propose l'abolizione di questo dicastero. Perry rappresenta l’uomo di riferimento per le lobby dei grandi petrolieri texani, e, sulla scorta di questo sostegno aveva tentato l’avventura delle primarie, mettendosi quindi contro Trump, ma anche contro l’altro texano doc, Ted Cruz, non riuscendo ad averla vinta. Analogamente al profilo di Zinke, anche Perry e’ considerato un avversario convinto dagli ambientalisti. Non e’ certo un caso, tanto per fare un esempio, che solo da alcuni giorni abbia rassegnato le dimissioni dal consiglio di amministrazione della Dakota Access Pipeline Company, il progetto forse più eclatante, per dimensioni e simbolismo, tra quelli in corso, di devastazione ambientale e territoriale che da anni ha trovato una fiera resistenza da parte delle popolazioni indigene dei nativi Sioux-Dakota, in quelle che considerano terre sacre, insieme ad associazioni ambientaliste movimenti per i diritti civili e, da ultimo, anche diversi sindacati.
Altri due personaggi da tenere d’occhio, in quanto stretti consiglieri del Presidente con incarichi che li reneranno particolarmente influenti nelle decisioni dell’amministrazione, sono Jared Kushner, genero del presidente eletto, vuole a tutti costi un ruolo nella nuova amministrazione e ha incaricato i suoi legali di studiarne la fattibilità senza violare la legge contro il nepotismo, e Stephan Bannon che in molti considerano il vero “ideologo” e stratega politico di Trump.
Conclusioni
Dopo aver esaminato nello specifico le singole scelte compiute da Trump per le principali posizioni del suo governo e le probabili conseguenze sulla linea politica che verra’ adottata dalla nuova amminstrazione federale USA nei rispettivi ambiti d’azione, possiamo tracciare, su un piano di analisi piu’ generale, alcune riflessioni.
Prima di farlo però è giusto ricordare che le nomine di Trump per le posizioni al vertice di dipartimenti (che corrispondono ai nostri ministeri) dovranno comunque essere confermata dal Senato, in una sessione prevista per il 15 gennaio, ottenendo una maggioranza di 52 voti. Risultato che non sembra a rischio in considerazione della solida maggioranza repubblicana e del fatto che si tratta di nomine in grado di ottenerne il consenso. Vediamo quindi il perchè.
Il background di provenienza dei componenti del governo mostra con chiarezza che il grande capitale finanziario (Wall Street) e il complesso militar-industriale hanno ottenuto una pesante ipoteca sull’azione di questo governo che sicuramente cercheranno di giocare a proprio vantaggio.
Un’altra componente distintiva della squadra di Trump e’ il forte riferimento ideologico, possiamo dire generalizzato, alle posizione dell’ultra-destra liberista e conservatrice, un elemento che determina una continuita’ storica sia con l’ultima amministrazione Bush sia con l’era reganiana. Da questo punto di vista quindi non c’e’ nulla di sostanzialmente nuovo sotto il sole, se non l’etichetta populista che rimane confinata all’istrionismo, assolutamente mediatico, del personaggio Trump, e che risulta funzionale all’ottenimento del consenso anche su settori di classe (operaia e media) che non sarebbe stato possibile, altrimenti, far confluire su quelle posizioni politiche. Come si sa, e questo e’ tipico dei regimi politici di cosiddetta democrazia rappresentativa liberal-borghesi, cio’ che conta in campagna elettorale non è ciò che conta nel periodo successivo alla presa del potere. Da questo punto di vista si può ritenere che si tratti di un inganno ben calcolato e che, anche qualora dovesse venire svelato, nel frattempo il governo potra’ portare avanti la sua linea politica confidando anche sulla solida maggioranza repubblicana che è prevedibile si possa ricompattare, dopo l’inevitabile regolamento dei conti all’interno del suo gruppo dirigente seguito alla vittoria di Trump.
Altre componenti importanti che emergono, tra i centri di potere che Trump sta raccogliendo a suo sostegno, sono, come abbiamo visto, la lobby petrolifera e dell’energia, di origine texana, e la lobby della destra religiosa, che trova il suo saldo riferimento nel Vice Presidente Pence, figura già tratteggiata in precedenza su queste pagine.
Non appena questi scenari cominceranno a realizzarsi nella loro concretezza sarà importante comprendere quali potranno essere i più validi fattori di opposizione e resistenza sia all’interno della società americana sia in ambito internazionale. Difficile misurarsi, in un’epoca come questa, con la sfera di vetro, ma proviamo ad azzardare due ipotesi: una crescita delle lotte dei lavoratori, con piu’ o meno stabile organizzazione e coscienza di classe, sul fronte interno; l’emergenza della Cina come potenza che sfida apertamente l’ennesimo tentativo egemonico dell’imperialismo americano, questa volta targato Trump, sul piano globale. I dubbi tuttavia, nel primo come nel secondo caso, rimangono. Gli eventi dei prossimi mesi e anni ci daranno le risposte.