L’intesa USA-Cina sul clima mette l’UE in un angolo

Con il perdurare della crisi mutano i rapporti di forza e la divisione internazionale del lavoro. Ad esserne sconvolti sono tutti i settori economici. Ecco come cambia il business legato ai cambiamenti climatici. Il mercato dei “permessi di emettere gas a effetto serra” e le sue conseguenze paradossali. Anche per ciò che riguarda l’inquinamento del pianeta il problema è il capitalismo.


L’intesa USA-Cina sul clima mette l’UE in un angolo

Con il perdurare della crisi mutano i rapporti di forza e la divisione internazionale del lavoro. Ad esserne sconvolti sono tutti i settori economici. Ecco come cambia il business legato ai cambiamenti climatici. Il mercato dei “permessi di emettere gas a effetto serra” e le sue conseguenze paradossali. Anche per ciò che riguarda l’inquinamento del pianeta il problema è il capitalismo.

L’intesa sul clima tra USA e Cina giunge a un anno esatto dal prossimo vertice di Parigi, dove piccoli e grandi capi di stato e di governo negozieranno i termini per tentare di limitare la produzione antropica dei principali gas a effetto serra. Il presidente Obama ha promesso che entro il 2025 le emissioni negli Stati Uniti saranno ridotte del 26-28 per cento rispetto ai livelli del 2005. Contemporaneamente, il presidente Xi Jinping ha dichiarato che le emissioni generate in Cina diminuiranno a partire dal 2030 e per quella data il 20 per cento del fabbisogno energetico nazionale sarà coperto da combustibili non di origine fossile.

Lungi dal rappresentare qualcosa di significativo per superare lo squilibrio nel ricambio organico con la natura generato dal perdurare del modo di produzione capitalistico, l’intesa ha importanti risvolti economici. Il primo è la creazione negli Stati Uniti di un ETS, un sistema di scambio di “permessi” (certificati) per emettere gas a effetto serra, elemento mancante per lo sviluppo di un vero e proprio mercato mondiale del carbonio. Il secondo è l’incremento degli investimenti statunitensi in settori chiave dell’economia cinese, quali le infrastrutture per la produzione e la distribuzione dell’energia.

L’assenza fino ad oggi di un unico ETS per tutti gli stati dell’unione nordamericana non è dovuta alla maggior predilezione per le tasse ambientali, molto più onerose per i proprietari dei grandi impianti industriali. Un ETS, infatti, consente di eludere l’introduzione di tecnologie maggiormente eco-compatibili con l’acquisto di permessi per inquinare o con la riduzione delle emissioni presso soggetti o paesi terzi, e serve quindi a trasformare l’inquinamento nell’ennesima occasione di speculazione. Questo, per i capitalisti, è decisamente più allettante di una tassa o anche solo dell’inerzia, che espone al rischio di forti risentimenti e onerosi risarcimenti.

Dunque, il motivo del ritardato sviluppo di un ETS negli USA va ricercato nella loro specifica struttura produttiva, tanto è vero che il progressivo consolidarsi dell’utilizzo della CO2 come materia ausiliaria nell’industria estrattiva sta radicalmente cambiando la loro posizione al riguardo. Da inizio secolo, infatti, nuove tecnologie permettono di iniettare fluidi (tra cui biossido di carbonio) per estrarre petrolio e gas metano, anche in presenza di rocce particolarmente porose. Ciò sta rivoluzionando il mercato energetico mondiale, giacché le enormi riserve così sfruttabili localizzate in nord America consentono una tendenziale autonomia energetica degli USA. Se a questo si aggiunge la possibilità di intrappolare nei bacini la stessa CO2 utilizzata per svuotarli si capisce perché il controllo del carbonio assume, anche per lo zio Sam, una valenza strategica.

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Tuttavia, in regime capitalista, lo sviluppo di queste forze produttive provoca effetti contraddittori. Nella misura in cui il progresso favorisce l’estrazione e la produzione di gas metano, ad esempio, rende meno conveniente il ricorso a combustibili più inquinanti e quindi diminuisce la domanda dei relativi permessi. Allo stesso tempo, però, l’impiego di queste nuove tecnologie permette di erogare più certificati per inquinare, che costituiscono un’integrazione al profitto generato dall’attività sottostante.
Fino a quando l’economia tira nel modo previsto, questa contraddizione rimane sostenibile. Ma non appena la crisi economica genera essa stessa la diminuzione (relativa o addirittura assoluta) delle emissioni ecco il paradosso: il rispetto dei limiti precedentemente stabiliti diventa più agevole e con la domanda crollano anche i prezzi dei permessi per emettere gas serra. Ciò rende meno conveniente lo sviluppo e l’introduzione di tecnologie ed innovazioni eco-compatibili in quanto consente a chi deve continuare ad inquinare di farlo a prezzi di saldo (nel 2008 una tonnellata di carbonio era scambiata a 20 euro, nel 2013 a meno di 40 centesimi).

Pertanto sono i rapporti sociali tra gli uomini – nello specifico la necessità di subordinare gli investimenti eco-sostenibili alle condizioni di produzione, realizzo e appropriazione del plusvalore – che frenano l’impiego pieno e lo sviluppo duraturo delle forze produttive dedicate all’abbattimento dei gas serra. Detto altrimenti, in regime capitalistico la diminuzione delle emissioni è insufficienteper mitigare il riscaldamento globale e allo stesso tempo eccessiva rispetto alla capacità di assorbimento dei certificati per inquinare da parte del mercato.

Nell’impossibilità di prendere coscienza dell’immanente contraddittorietà del sistema, per combattere l’eccessiva sovrapproduzione dei permessi per inquinare e rivitalizzarne i prezzi, le autorità dei maggiori ETS (UE, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud) hanno iniziato ad introdurre limiti all’uso di certificati, soprattutto quelli prodotti da investimenti nei paesi più o meno dominati o concernenti certi settori economici(1) costringono l’UE a rivedere al ribasso i propri impegni sul clima, dall’altro aumentano la competitività ambientale dei grandi impianti industriali statunitensi e le convergenze con gli obiettivi cinesi. Protezionismo e bassi prezzi, infatti, colpiscono soprattutto gli investimenti ivi localizzati, giacché è nel paese del Dragone che si produce il 40 per cento di tutti i permessi (Cer e Eru) generati nei paesi c.d. “in via di sviluppo” o “in transizione”. Per tanto, al fine di trovare mercati di sbocco alternativi e assicurare il costante ammodernamento del proprio apparato industriale, le autorità di Pechino hanno trovato conveniente avviare l’unificazione dei propri mercati regionali del carbonio e accordarsi con il governo USA per esportare l’eccedenza di certificati e incrementare l’afflusso dei loro investimenti e la cooperazione scientifica e tecnologica. L’intesa raggiunta, infatti, apre settori e infrastrutture cinesi agli investimenti statunitensi, in particolare l’uso, la cattura e l’immagazzinaggio del carbonio, l’efficientamento energetico, le ristrutturazioni della rete elettrica (smart grids), la promozione delle rinnovabili. L’intesa, inoltre, rafforza la cooperazione bilaterale sulle politiche e le tecnologie di pianificazione urbana e sugli ambiti maggiormente sanzionati dalle autorità europee, come ad esempio la ricerca riguardante gli utilizzi alternativi degli idrofluorocarburi ed in particolare del più nocivo di essi, il trifluorometano.

Note:

(1) Gli alfieri del libero mercato, in attesa che la produzione riparta, e con essa ripartano l’inquinamento e la domanda di permessi per inquinare, si sono visti costretti a:
(a) Estendere la validità temporale dei certificati per inquinare, con l’effetto di diluire insieme alla loro sovrapproduzione anche l’effetto di mitigazione del riscaldamento globale che tali permessi dovrebbero rappresentare;
(b) bandire i permessi generati dalla riduzione di particolari gas a effetto serra (monossido di azoto, trifluorometano);
(c) bandire i permessi esteri generati da investimenti in centrali nucleari o grandi centrali idroelettriche prive di particolari standard riconosciuti a livello internazionale;
(d) bandire i permessi esteri generati da investimenti nel settore agricolo e forestale;
(e) stabilire un prezzo minimo per l’importazione dei permessi, tassando chi acquista permessi ad un prezzo inferiore;
(f) obbligare la conversione dei permessi provenienti dai Pvs o dai paesi ex-socialisti in permessi nazionali per rispettare i vincoli, rendendo quei certificati meri titoli speculativi;
(g) frazionare il mercato del carbonio attraverso l’introduzione di specifici limiti di mitigazione per settore il cui raggiungimento costituire una conditio sine qua non per l’accettazione di ulteriori permessi generati da progetti in quel settore.

 

 

04/12/2014 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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