Al termine della lunga e intensa attività di Marco Pannella, forse è il caso di provare a tratteggiarne un profilo che tenga conto non solo del ruolo svolto per i diritti civili, ma anche della connotazione borghese di tutta la sua azione e del peso di questa sua scelta di campo. E di provare a riflettere sui ritardi e le carenze della direzione politica del movimento operaio italiano che gli ha lasciato campo libero.
di Stefano Paterna e Pietro Antonuccio
Il proteiforme Giacinto detto Marco è morto. E già questa per chi ormai da decenni si era assuefatto alle sue inesauribili capacità di occupare le scene con discussioni interminabili in tutti i luoghi della politica, con gli ostruzionismi parlamentari da record, con gli illimitati “fili diretti” dalle emittenti radicali, con i proverbiali digiuni in tutte le forme possibili, ecc... è una notizia.
Il dubbio che l'energia fisica e verbale di Marco Pannella non conoscesse limiti naturali era un dubbio legittimo fino al 19 maggio scorso. Tale è stato il ritmo serrato, spesso vorticoso e torrenziale, della sua non ordinaria parabola politica che lo ha visto protagonista nelle forme e nei contenuti delle iniziative, dagli anni cinquanta fino ai giorni nostri.
Caso probabilmente unico nel panorama italiano, nel corso di più di mezzo secolo Pannella ha svolto incessantemente il suo ruolo di “battitore libero” spaziando in tutte le direzioni, facendosi guidare soltanto dal suo istinto di grande istrione della politica e dalle generiche idealità borghesi di liberalismo, liberismo e libertarismo da declinare in tutte le direzioni possibili.
Colpisce, al momento della sua morte, l’unanimità di giudizi agiografici e addirittura sdolcinati, quasi una santificazione da destra e da sinistra, centro compreso, per quel che possono ancora significare queste indicazioni topografiche. Persino chi lo ha avversato con fastidio, ne tesse le lodi “post mortem”. Un coro mellifluo cui è impossibile unirsi.
Per quanto ci riguarda non possiamo non partire dalla constatazione del fatto che Marco Pannella è stato dichiaratamente un viscerale anticomunista, è stato sempre un nostro avversario e tale rimane dopo la sua scomparsa. Questo però non ci esime dalla fatica di tratteggiarne un profilo, di cercare di capire perché, oltre che avversario, in molte occasioni fu anche un compagno di viaggio, molesto, provocatorio, ma capace di suonare corde che noi non avremmo osato, o saputo, toccare; perché l'establishment giornalistico e politico (La Repubblica in primo luogo), il grande capitale lo abbia spesso osteggiato e non abbia mai potuto tuttavia evitare di tesserne il pubblico elogio; perché la politica “per bene” lo considerava un rompiballe, ma anche l'unico volto dignitoso, pulito, idealista quando si doveva parlare di legalità, di stato di diritto.
Per compiere un’analisi compiuta e dare una risposta seria a questi interrogativi, occorre impegno e bisognerà tornarci, poiché si tratta di riconsiderare sessant’anni di storia politica italiana. Qui possiamo dare solo alcuni spunti per un dibattito che potrebbe aprirsi.
È bene, intanto, partire da una considerazione che ci aiuta a riflettere anche sulla nostra storia di militanti comunisti: è un dato di fatto che Pannella ha capito meglio e prima dei dirigenti del movimento operaio italiano l’importanza di battaglie essenziali per lo svecchiamento della struttura politica italiana, agitando le bandiere della laicità e dell’anticlericalismo, dell’antimilitarismo e dell’antiproibizionismo, della critica della morale familiare e sessuale tradizionali, della lotta contro i reati d’opinione e contro la legislazione penale fascista ancora in vigore, delle battaglie contro la pena di morte, per l’abolizione dell’ergastolo e per i diritti dei detenuti, fino alle più recenti iniziative sui nuovi diritti di cura e di buona morte (cellule staminali, Coscioni, Welby).
Su questi terreni i radicali, già negli anni ’60 e ‘70 si sono dimostrati più avanzati rispetto ai gruppi dirigenti della sinistra storica e della nuova sinistra, non solo nella consapevolezza, ma anche nella capacità di promuovere iniziative, provocazioni, denunce che scuotevano il buonsenso comune dominante. Così come si rivelava corrosiva e in buona parte fondata la critica del compromesso storico berlingueriano come manovra politicista e di incontro tra i vertici istituzionalizzati delle rispettive burocrazie partitiche.
Tutto questo caratterizzava i radicali come movimento di sinistra, e anche di estrema sinistra, e questo può aver abbagliato gran parte dello stesso “popolo comunista” in mancanza (perché questa è l’altra faccia della medaglia) di una dirigenza capace di inserire queste sacrosante battaglie in un orizzonte socialmente connotato.
Infatti, non è forse mai stato sufficientemente sottolineato che Pannella e i suoi radicali hanno sempre proposto e condotto le loro battaglie in stretta coerenza con la loro appartenenza sociale ed ideologica alla classe borghese e quindi senza mai farne un elemento di critica della struttura sociale esistente nella quale non hanno mai smesso di identificarsi, pretendendo soltanto di migliorarla emendandola da quelle che riconoscevano come sue storture.
Un conto quindi doveva essere, per noi, il sostegno a battaglie di per sé certamente condivisibili, un altro conto accettarne l’impostazione, il metodo e lo sbocco. Doveva essere nostro compito inserire quelle battaglie in un progetto di trasformazione sociale, anzichè limitarci a sostenerle senza imprimere loro una direzione rivoluzionaria.
Resta quindi molto forte il dubbio che il merito di importanti conquiste come le stesse leggi sul divorzio e sull'aborto venga unanimemente assegnato a Pannella soltanto perché la Sinistra politica (vecchia e nuova) non fu in grado di capire i fermenti che ormai impregnavano la società, di legare i diritti di libertà individuale alle lotte nelle fabbriche e nei quartieri, di tessere insieme lotta di classe e lotta all'autoritarismo clericofascista ancora così presente nel nostro paese.
La scarsa incisività della rappresentanza politica del movimento operaio italiano ha lasciato quindi che Pannella e i suoi radicali mantenessero la più ampia credibilità per le loro posizioni anticonformiste e innovatrici, di cui al tempo stesso non veniva mai messo in luce il carattere di classe. In questo contesto si collocano le fascinazioni esercitate non solo sul “popolo di sinistra” ma anche su intellettuali di grande spessore come Jean-Paul Sartre o Pier Paolo Pasolini, per quanto paradossali possano sembrarci oggi (dopo aver visto tutte le stagioni del pannellismo, dalla convinta adesione al craxismo anti-sindacale all’incessante sostegno alla politica israeliana, dall’intesa organica con Berlusconi all’approvazione delle “guerre umanitarie” in barba alle tante teorie della nonviolenza, ma anche la denuncia delle responsabilità di Bush figlio e di Tony Blair nello scoppio della seconda guerra contro l'Iraq nell'ambito della campagna radicale "Iraq libero").
Pannella è stato comunque, consapevolmente, uno dei principali promotori dell'americanizzazione della politica italiana e dell'esaltazione dell'individualismo politico fino al punto estremo di disarticolare il suo stesso partito e di promuovere liste denominate direttamente con il suo cognome (primo politico in Italia a far questo); nessun partito dell’Italia post-fascista ha mai raggiunto lo zero totale di democrazia politica interna come il partito radicale, monarchia assolutamente assoluta intorno alla figura del leader totale.
Cosa poteva entrarci con tutto questo l'intellettuale friulano che denunciava il neocapitalismo consumista per la corrosione che provocava nei valori delle civiltà precedenti come quella contadina, dando impulso a un enorme vuoto morale e a un incipiente degrado ambientale? Pannella più tardi fu anche il cantore del liberismo “puro” in tutte le sue articolazioni. Eppure Pasolini alla vigilia della sua morte manda al congresso del PR un messaggio di questo tenore:
« Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali […] voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare » (Pier Paolo Pasolini, Lettera al Congresso del Partito Radicale del 2 novembre)
E poi ancora l'esaltazione del modello americano, anche come modello economico-sociale, come si abbinava nel leader radicale al pauperismo di Ghandi, di cui tante volte si è dichiarato seguace?
Forse la cifra dell'enigma Pannella è nella sua identità di liberale puro. Per ogni liberale la borghesia è classe universale, nel senso di concentrare nelle sue virtù più o meno ideali o più o meno concrete il meglio della natura umana. Pannella pretendeva dalla borghesia, in primis quella italiana, di uniformarsi al suo idealtipo umano: una classe innovativa, aperta alle conquiste scientifiche e grazie ad esse padrona della sua vita (e della sua morte) individuale. Ascetica nei consumi, ma generosa nella capacità di investire economicamente e umanamente nel futuro. E qui si rintraccia l'orma di uno dei maestri di Pannella, l'Ernesto Rossi economista liberista e teorico anticlericale.
Forse per questo in Pannella la borghesia italiana e i suoi intellettuali hanno sempre visto la propria giovinezza, quello che avrebbero dovuto essere e non sono mai divenuti.
Di sicuro noi non abbiamo visto a sufficienza in lui un avversario vero, dal quale, come da tutti gli avversari, bisogna imparare ma per combatterli meglio, non certo per farsene incantare.