A Roma il 27 ottobre, nel silenzio generale anche della stampa di “sinistra”, si è tenuta una manifestazione nazionale indetta dal SI COBAS. Notevole la partecipazione della parte più combattiva del proletariato immigrato, quella che lavora nella logistica, organizzata da questo sindacato. Era presente anche ciò che resta del movimento degli immigrati a Roma, una parte del movimento per il diritto alla casa, degli studenti, qualche componente delle numerose organizzazioni comuniste e i compagni che si richiamano all'autonomia di classe. Almeno cinquemila persone reali hanno dato luogo ad un corteo da piazza della Repubblica ai Fori Imperiali.
Gli slogan più urlati sono stati gli insulti al vicepremier e ministro dell'interno Salvini. Delle parole d’ordine che non denotano un’elevata coscienza di classe, ma che senz'altro sono indice del clima fortemente repressivo vissuto da questo settore di classe operaia. Non che non siano mancate parole d’ordine più coscienti, ma la mancanza di un soggetto che interpreta e organizza tale coscienza di classe si fa sentire e non poco. I lavoratori della logistica sono a tutti gli effetti un settore di classe operaia, perché come ben analizzava Marx la catena del valore, la trasformazione D-M-D' si realizza anche grazie al trasporto della merce dal luogo di produzione a quello di vendita.
La giornata di mobilitazione, in completamento allo sciopero generale del 26 ottobre del sindacalismo di base, era stata indetta per contrapporsi al cosiddetto Decreto Salvini, che prevede una stretta repressiva contro gli immigrati. Nei codicilli vari del decreto è disciplinato all’articolo 25 un inasprimento della pena per i blocchi stradali, pratica spesso usata dai lavoratori della logistica. Con questo decreto un lavoratore che userà questa pratica nella propria vertenza commetterà un reato penale e non più amministrativo. Se tale lavoratore sarà straniero, e giudicato colpevole in primo grado, sarà revocata la eventuale protezione internazionale e passibile di espulsione verso il proprio paese di provenienza.
Una legge pensata bene con il duplice fine di alimentare la compagna di odio verso lo straniero e di reprimere i lavoratori immigrati che osano alzare la testa. Il fine non è infatti quello dichiarato di rimandarli al loro paese, ma quello di renderli più sfruttabili e docili, per comprimere ulteriormente i salari di bianchi e neri. Le maestranze britanniche avevano ben chiaro che i lavoratori stranieri dovevano ricevere lo stesso salario e avere gli stessi diritti dei proletari inglesi, solo così si poteva mantenere l'unità di classe. Solo lavorando alle stesse condizioni era consentito lavorare, altrimenti si sarebbe innescata una spirale al ribasso, alimentata dai fautori dell'odio legati alla classe dominante con il fine di mettere i segmenti del proletariato gli uni contro gli altri. Questo ragionamento è ben chiaro ai manifestanti di sabato, ma non è patrimonio della maggioranza della classe lavoratrice italiana.
Potere al Popolo ha perso una buona occasione per essere presente a fianco di chi lotta per difendere il proprio salario e il proprio diritto ad organizzarsi autonomamente. Ha ignorato un segmento di classe combattivo, protagonista, abdicando alla propria funzione storica di far comprendere l’importanza di una prospettiva politica per il cambiamento della società. Ovvero di rendere chiara l’esigenza di organizzarsi politicamente in elemento cosciente, e non solo mediante lo spontaneismo di classe. Non che non siano mancati soggetti politici che sono intervenuti nella manifestazione con tale fine, ma tali soggetti sono ad oggi inadeguati. Se Potere al Popolo potrà assolvere a questo ruolo dipenderà molto da come proseguirà nel proprio cammino.
Oggi, con una classe che tende a delegare perché non vede prospettive chiare e reali di cambiamento nelle lotta, rilanciare il protagonismo dei lavoratori è ancora più necessario. Lo strumento sindacale è indubbiamente la prima forma di organizzazione che la classe si da per difendere e migliorare le proprie condizioni di lavoro e vita. Il sindacato ha quindi la sua importanza, se non inteso come forma di delega a cui demandare la risoluzione dei propri problemi. Il proletariato immigrato, che lavora nelle catene della distribuzione delle merci, ha mostrato di aver ben inteso che solo la lotta paga. Che sia organizzato con il SI COBAS, piuttosto che con altri sindacati, da un punto di vista dei comunisti non ha nessuna rilevanza.
Il sindacato per quando combattivo è per propria natura un elemento riformista, che mira a rendere d’oro le catene, ma non a spezzarle, perché non mette in discussione i rapporti di produzione. Se non si è sposata una filosofia anarcosindacalista e ci dichiariamo leninisti, bisognerebbe averlo ben chiaro nella propria testa. Proprio per questo motivo abbiamo spesso fatto riferimento alla necessità dei lavoratori di organizzarsi in consigli, in riferimento alle più alte esperienze storiche realizzate nel nostro paese dal punto di vista della coscienza di classe e delle conseguenti lotte messe in campo. Lotte che non miravano solo al miglioramento delle condizioni di lavoro, ma che mettevano in discussione i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione. I padroni e i governi, temendo la possibilità del successo di tale chiaro obiettivo, acconsentirono alle riforme. Oggi questi rapporti di forza sono assenti, e di conseguenza non c’è alcuna necessità di concessioni in favore di coloro che sono divisi e deboli. Il cane che affoga è bastonato.
Da un punto di vista politico è miope ignorare questa lotta. La pratica di selezionare il conflitto, di legarsi solo a certi sindacati, avrà effetti negativi sulla crescita politica di Potere al Popolo. Una volta era il sindacato ad essere la cinghia di trasmissione del partito, ora la realtà sembra capovolta. Coloro che dovrebbero essere l’avanguardia del movimento di classe dimostrano invece tutta la propria inadeguatezza. Non ci si può limitare a far crescere molecolarmente gli orticelli per quanto significativi, ma bisogna osservare la prateria incolta che è lasciata a se stessa e che invece può essere conquistata alle nostre ragioni. Far finta di nulla e girarsi dall’altra parte non ci aiuterà a essere interpreti di quel riscatto sociale che in molti cercano, in modo frammentato, e che è compito di Potere al Popolo unire.
Il clima che si respira nel nostro paese è molto pesante, la repressione si sviluppa a partire dai luoghi di lavoro, l’estensione del codice di fedeltà è diventata una vera e propria limitazione del pensiero e della libertà di parola dei lavoratori. Quando i luoghi di produzione e di lavoro diventano una galera, allora è tutta la società a virare in modo autoritario. Difendere i propri orticelli invece di avere una visione generale che miri ad un miglioramento collettivo porterà la sinistra di classe in questo paese alla totale irrilevanza.
Un soggetto politico che dovrebbe riunire ciò che è disperso rischia di contribuire alla ulteriore divisione. Allora sarà un soggetto del tutto inutile perché avrà perso il proprio ruolo storico e sarà solo una delle tante “parrocchiette” presenti nel nostro paese. Un ennesimo soggetto di cui la classe lavoratrice non ha nessun bisogno. Al contrario, è necessaria l'unità di quelle avanguardie di lotta per portarsi dietro anche la retroguardia in un conflitto per la trasformazione della società. Conflitto che non può che partire dai bisogni immediati, da un chiaro programma minimo che metta al centro le reali esigenze della classe lavoratrice che questo sistema economico palesa con evidenza di non essere in grado di soddisfare. Mi auguro che Potere al Popolo possa imboccare questa strada.