Lo sciopero dei docenti universitari e i veri problemi dell’università

Un’azione politica molto debole e poco incisiva sia per gli obiettivi che per i metodi impiegati.


Lo sciopero dei docenti universitari e i veri problemi dell’università Credits: http://www.universityequipe.com/sciopero-docenti-esami-novita

Sostanzialmente dalle proteste contro la famigerata Legge Gelmini (2010) il corpo accademico era rimasto silente, a parte qualche forma limitata di agitazione che non l’ha mai coinvolto nella totalità. Ora invece sembra che i docenti universitari si siano risvegliati da questo sonno acquiescente e certamente anche complice, anche se i protestatari sembrano essere sinora circa solo 5.500 su 49.000. Il Manifesto ci informa di questo evento con un articolo intitolato Università, sciopero degli esami a settembre, in cui viene intervistato Francesco Sinopoli, segretario della FLC-CGIL (1 settembre 2007) e in cui si paventa che la sessione d’esami di settembre non si farà. Ma andiamo a vedere come stanno effettivamente le cose.

Prima di tutto, mi preme ricordare che, durante il dibattito sulla Legge Gelmini, molte facoltà si rifiutarono di scioperare e alcune misero in piedi iniziative di carattere simbolico, per essere in sintonia con la società dell’immagine e dello spettacolo, come per esempio le lezioni all’aperto, gli esami notturni, il raduno sui tetti per protestare, la partecipazione alle sedute di laurea senza toga. La maggioranza dei docenti considera lo sciopero dannoso agli studenti e quindi ritiene scorretto non adempiere alla sua missione educatrice. Nessuno pensa che il degrado delle università, sia materiale che culturale, sia più dannoso della perdita di qualche lezione o esame facilmente recuperabili, come d’altra parte prevedono le modalità dello sciopero appena proclamato.

Ai tempi della Gelmini erano soprattutto i ricercatori a mobilitarsi, perché la tanto deprecata Legge 240/2010 metteva quelli in ruolo ad esaurimento e decretava che i nuovi assunti al livello iniziale della carriera non avrebbero più avuto un posto stabile. Insomma, si sarebbero aggiunti alla marea di precari che già affollavano le istituzioni accademiche e della ricerca (come il CNR). Mi ricordo anche che alcuni uomini politici, come l’ondeggiante Bersani, ci fecero visita mentre stavano protestando sul tetto della Facoltà di Architettura nel centro di Roma, per dare nuovo smalto alla loro immagine sempre più sbiadita.

Ma quali sono le ragioni che hanno spinto i docenti universitari a “scendere in campo”, pur senza partecipare a manifestazioni coinvolgenti anche gli studenti, come sta avvenendo per esempio in Cile ed Argentina e che sono state represse in maniera violenta dalla polizia?

Le ragioni per scioperare ci sono tutte, il problema a mio parere – come dice anche Sinopoli – che i docenti ne hanno scelta una sola: quella del blocco degli scatti stipendiali stabilito nel 2010 da un Decreto legge e applicato a tutti i dipendenti statali.

Andiamo a vedere il comunicato di sciopero dei docenti universitari, appartenenti al Movimento per la Dignità della Docenza universitaria, fondato da Carlo Ferraro del Politecnico di Torino, nel quale si legge che 5444 Professori e Ricercatori Universitari e i Ricercatori di 79 Università ed Enti di ricerca italiani proclamano l’astensione dagli esami di profitto nella prossima sessione autunnale, ossia dal 28 agosto al 31 ottobre 2017. Lo sciopero ha lo scopo di ottenere un provvedimento di legge nel quale “le classi e gli scatti stipendiali dei Professori e dei Ricercatori universitari e dei Ricercatori degli Enti di ricerca italiani, aventi pari stato giuridico, bloccati nel quinquennio 2011-2015, vengano sbloccati a partire dal 1 gennaio 2015, anziché come è attualmente, a partire dal 1 gennaio 2016”. Essi richiedono anche che il quadriennio 2011-2014 sia riconosciuto ai fini giuridici, con conseguenti scatti economici solo a partire dallo sblocco delle classi e degli scatti dal 1 gennaio 2015. Insomma, per farla breve i richiedenti lo sciopero sono disposti a rinunciare a un bel gruzzoletto relativo agli scatti non percepiti durante ben 4 anni e ciò per dare una mano alla crisi in cui il paese versa da qualche decennio. Tale rinuncia in cambio di un parziale riconoscimento degli scatti, che permetterebbe agli stipendi di crescere e non decurterebbe le future pensioni.

Prima di andare a vedere le modalità dello sciopero, soffermiamoci brevemente sugli altri problemi dell’università, il cui impatto si riverbera sul personale amministrativo e soprattutto sugli studenti, perché gli atenei non sono fatti di soli professori. E riversandosi sull’intera comunità universitaria condiziona l’intero paese e in particolare le giovani generazioni, che rappresentano senza retorica il nostro futuro.

Ho già parlato di questi aspetti, perciò sarò molto breve rimandando ad un articolo precedente intitolato Quali sono i risultati delle “riforme” dell’Università? In questo articolo riportavo le intelligenti osservazioni fatte da un ricercatore precario alla fine del Convegno organizzato dalla Associazione Treelle alla Sapienza di Roma, che ha utilizzato i dati forniti da quest’ultima legata alla Confindustria, per mostrare che la situazione degli atenei è drammatica e che c’è poco da stare allegri come Gianni Toniolo, che tra i suoi prestigiosi incarichi ha anche quello di insegnare Storia economica alla LUISS. Infatti, scrive che l’università attuale gli pare addirittura migliore di quella della sua gioventù grazie soprattutto all’autonomia degli atenei e al lavoro dell’Agenzia nazionale per la valutazione di Università e Ricerca. Dal suo punto di vista ci sarebbero più ricercatori di livello internazionale, maggiore attenzione agli studenti e, quello che forse gli preme di più, “prove di collaborazione strutturata con la ricerca applicata delle imprese”. Non si interroga sui ricercatori emigrati né ha probabilmente intervistato gli studenti delle università pubbliche.

Il ricercatore precario di cui si diceva sopra ha rimarcato che i fondi universitari dal 2008 sono diminuiti del 20 %, si sono perduti circa 12.000 docenti e gli studenti sono calati del 10%, nonostante le tante chiacchiere sull’incidenza delle “riforme” sul futuro aumento dei laureati. Ha anche aggiunto che dei 40.000 precari (probabilmente sono di più) attualmente presenti nel mondo universitario e della ricerca il 93% verrà espulso, rendendo vane le risorse impiegate per la loro preparazione. Ha fatto anche presente che in questi ultimi anni già 12.000 giovani sono andati a lavorare nelle università e nei centri di ricerca stranieri. Ciò significa che la nostra classe politica ignora che le scienze, comprese quelle umane, costituiscono un elemento propulsore del miglioramento delle condizioni di vita e dello sviluppo di un paese e della sua popolazione, se usate intelligentemente dal punto di vista politico. Non comprendendo questo importante aspetto essa predispone per noi e per i nostri figli un declino costante sia materiale che culturale, il cui risultato sarà il nostro sempre più forte imbarbarimento e la desertificazione dei nostri territori, già afflitti da rilevanti fenomeni di spopolamento e di dissolvimento delle istituzioni culturali.

Come si vede, dunque, lo sciopero si pone un obiettivo alquanto limitato e si potrebbe senz’altro dire corporativo, mettendo nel dimenticatoio tutti gli altri problemi, che stanno portando alla disintegrazione del sistema universitario italiano e alla dissoluzione della sua funzione politica e sociale.

Passiamo ora ad analizzare le modalità dello sciopero per cercare di capire se esse si concretano in un’azione incisiva. Dopo aver invitato i docenti a sottrarsi alla presentazione delle loro pubblicazioni al processo di valutazione – cosa che alcuni di noi hanno fatto con la speranza che i docenti protestatari si facessero più numerosi e sviluppassero un discorso critico più ampio e complessivo –, oggi ci viene proposto di scioperare al primo appello della sessione autunnale per la durata massima di 24 ore, rimandando gli esami al secondo appello. Nel caso in cui non sia previsto un secondo appello, sarà fissato un appello straordinario esclusivamente per i laureandi, per non ostacolare la chiusura del loro percorso formativo.

Come si vede, si tratta nel complesso di un’azione politica molto debole sia per gli obiettivi che si propone di raggiungere, sia per i metodi impiegati (lo stesso Ferraro definisce molto blando lo sciopero), i quali consistono essenzialmente nel rinvio degli esami.

Potremmo a questo punto chiederci come mai il corpo accademico e i ricercatori degli Enti italiani siano riusciti a partorire un tal mostriciattolo, esangue e incapace di combattere. Naturalmente il discorso sarebbe lungo e verterebbe sulla scarsa sindacalizzazione di questi settori, sull’abitudine a un lavoro individualistico e che talvolta garantisce una certa gratificazione e un certo prestigio, di cui molti sembrano appagarsi. Ma non c’è forse anche la paura dei funzionari dello Stato di essere troppo ribelli nei confronti dei poteri superiori, ai quali alla fin fine finiscono con l’auto-assoggettarsi, limitandosi a qualche smorfia di protesta?


Note

[1] Prima della politica dei tagli e del blocco del ricambio generazionale i docenti universitari erano circa 60.000, un numero già significativamente inferiore a quello di Francia e Germania.

[2] Questo mi sembra bizzarro, oltre che poco significativo, perché in più di 40 anni di servizio presso la Sapienza di Roma non mi è mai capitato di vedere qualcuno che indossasse la toga. Ho solo sentito dire che a Giurisprudenza i docenti lo facevano.

[3] Confrontandomi con un centinaio di studenti, ho avuto modo di ricostruire il percorso lavorativo di questi giovani, in certi casi anche quarantenni, che se non sostenuti dalla famiglia alternano periodi di borse universitarie, di contratti temporanei ai lavoretti più svariati come il cameriere, il barman, la dog-sitter in luoghi assai diversi in Italia e all’estero.

[4] Nel 2012 una sentenza della Consulta toglieva il blocco agli stipendi dei magistrati, perché considerato incostituzionale.

09/09/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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