Il colpo di scena è arrivato il 29 aprile con il Decreto Proroghe approvato dal Consiglio dei ministri. Il “Governo dei Migliori” ha stabilito che il lavoro agile nella pubblica amministrazione subirà una marcata riduzione. Niente più obbligo di un minimo del 50% del personale in smart working, mentre le procedure semplificate per adottarlo rimarranno in vigore solo fino alla fine dell'anno in corso. Ma soprattutto dal 1° gennaio del 2022 nei Piani organizzativi del lavoro agile (Pola) l'obbligo della quota minima di personale passerà dal 60 al 15% dei dipendenti di tutte le amministrazioni. Amen.
Finisce così ingloriosamente la rivoluzione digitale a suo tempo annunciata dall'ex ministro per la PA Fabiana Dadone e scritta sulle bandiere dei Cinque Stelle? È ancora un po' presto per dirlo, di certo è una sorpresa sulla quale bisogna riflettere. Eh sì, perché non era stato solo il precedente governo Conte bis a fare dell'espansione dello smart working nel comparto pubblico un fiore all'occhiello, come risposta all'emergenza sanitaria dovuta all'epidemia di Coronavirus (ma non solo); anche quello attuale non aveva affatto nascosto le intenzioni di farne uno strumento essenziale per la modernizzazione della PA: “Se pensiamo allo sviluppo del lavoro in smart working, vediamo come è cambiato il nostro modo di lavorare; nuove professionalità richiedono investimenti e nuove regole. Questo è il percorso che stiamo iniziando oggi”, aveva dichiarato il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso di “celebrazione” del Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale del 10 marzo scorso.
Lavoro agile nella PA: Brunetta il conservatore
A dire la verità l'attuale reggitore delle sorti della PA, Renato Brunetta, non è sembrato da tempo un convinto assertore della modernizzazione dell'apparato pubblico intorno al principio del lavoro a distanza, sebbene abbia reso “omaggio” all'esperienza effettuata negli uffici pubblici da un anno a questa parte nella nota diffusa a commento del Decreto Proroghe: “Facciamo tesoro della sperimentazione indotta dalla pandemia e del prezioso lavoro svolto dalla ministra Dadone per introdurre da un lato la flessibilità coerente con la fase di riavvio delle attività produttive e commerciali che stiamo vivendo e dall’altro lato la piena autonomia organizzativa degli uffici” ha detto il nostro.
Eppure, mentre la novità del ritorno in ufficio di centinaia di migliaia di dipendenti pubblici si diffondeva, iniziavano in contemporanea le trattative tra l'Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e i sindacati nel quadro di quanto stabilito dal Patto del 10 marzo.
Un governo schizofrenico dunque?
Non mancano a sinistra gli osservatori che pensano che la mossa voluta da Brunetta del ridimensionamento del lavoro agile, sia mirata allo scopo di porre i sindacati nella peggiore condizione possibile nella trattativa, inducendoli così a sottoscrivere un accordo che infine dia il via libera a retribuzioni legate alla produttività, costituendo lo smart working come un vero e proprio lavoro a cottimo anche nella PA. La supposizione potrebbe anche essere fondata, ma è tutt'al più da considerare come la ricerca di un effetto secondario. Non si fissano quote in un decreto legge che varrà in un arco temporale più o meno lungo per influenzare una trattativa sindacale, soprattutto con le organizzazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil che non paiono inclini a una marcata combattività.
No, la realtà è che lo schieramento politico che sostiene questo governo dei poteri forti si divide tra un'ala innovativa o “digitale”, si fa per dire ovviamente, (M5S, ma anche il PD) che vede nel lavoro a distanza uno strumento di modernizzazione del lavoro pubblico e un'ala conservatrice (Lega e Forza Italia) che non ama questo strumento e che al momento ha trovato molto utile dal punto di vista dei consensi gettare il mito dello smart working in pasto a una piccola borghesia di commercianti e ristoratori frustrati dalla crisi economica indotta dalla pandemia e rancorosi nei confronti di quelli che credono essere dei nullafacenti.
Il tramonto dello smart working pubblico tra le necessità del Recovery Plan e la presenza del Covid
Ma il motivo più sostanzioso per riportare i dipendenti pubblici negli uffici consiste nell'arrivo dei 235,6 miliardi di euro del Recovery Plan da spendere da qui al 2026. È evidente che con la necessità di progettare, rendicontare, autorizzare e verificare una massa tale di finanziamenti, Brunetta e soci ritengano necessario avere “sotto mano” nei posti di lavoro tradizionali i dipendenti della pubblica amministrazione e non saperli in giro per il mondo virtuale o a casa propria.
Da questo punto di vista, anche la novità della riduzione del lavoro agile contenuta nel Decreto Proroghe diventa più comprensibile. Anche se rimane in piedi la difficoltà per il governo di far trangugiare l'amara medicina a un mondo del lavoro pubblico che negli ultimi 12 mesi aveva molto apprezzato il lavoro agile per la sua innegabile natura di conciliatore dei tempi di vita e di lavoro, come dimostrava lo scorso anno in giugno una ricerca di Forum PA secondo la quale il 93,6% dei lavoratori pubblici avrebbe voluto proseguire a lavorare in questa modalità.
Tuttavia, quello che più colpisce nella scelta del governo Draghi è la volontà di operare un ritorno potenzialmente così massiccio in presenza dei lavoratori pubblici, nonostante la perdurante pandemia da Covid-19. Qui siamo anche un po' più in là del “rischio calcolato” di cui ha parlato il primo ministro-già banchiere per le riaperture di cinema e ristoranti. Si tratta di un vero e proprio azzardo, dato lo stato penoso in cui versano i trasporti pubblici. Ma anche in questo caso la necessità stringente di modellare al più presto una pubblica amministrazione a forma di Recovery fornisce una chiara spiegazione all'evento in questione. I lavoratori si adattino dunque.
I comunisti e lo smart working
Fin qui cosa vuole fare il governo del lavoro agile. Ma cosa vogliono farne i comunisti e la sinistra di classe? Beh, innanzitutto c'è da prendere atto che i lavoratori apprezzano questa modalità lavorativa. E come potrebbe essere altrimenti stretti come sono dalla necessità di recarsi al lavoro anche in tempi di pandemia e con mezzi pubblici inadeguati?
Ma c'è anche di più: è tutto l'assetto della società capitalistica che fa apprezzare maggiormente una tipologia di lavoro a distanza che consenta di dedicare più tempo alla cura dei propri cari, in assenza (di nuovo) di servizi come asili nido pubblici alla portata delle possibilità delle classi popolari.
Vi sono dei rischi ovvi connessi a una prestazione di lavoro che per natura divide i lavoratori l'uno dall'altro e si presta a legare la retribuzione in modo esclusivo alla produttività in una sorta di cottimo del XXI secolo. Ma a prescindere dal fatto che questa tipologia si può applicare solo a una frazione della classe lavoratrice (escludendo chi deve lavorare necessariamente in presenza come l'operaio di fabbrica) appare evidente la necessità di una lotta per determinare la forma del lavoro agile ovvero i diritti del lavoratore (retribuzione fissa, diritto alla disconnessione, ecc), in attesa che il superamento del modo di produzione capitalistico in una società socialista, renda anche il lavoro a distanza una delle possibilità di espressione della cooperazione umana.