Riceviamo e pubblichiamo questo articolo come contributo al dibattito con chi, a sinistra, si impegna nella lotta contro il capitalismo ma ancora continua a pensare che “europeismo” è sinonomo di “internazionalismo” (la redazione).
“Ad un’austerità autoritaria e violenta risponderemo con la democrazia, con calma e decisione”. Sembra ieri quando, il 27 giugno 2015, Alexis Tsipras, leader di Syriza e primo ministro durante la terribile crisi del debito pubblico greco, annunciava la convocazione di un referendum come reazione all’ennesimo glaciale ultimatum del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea. Sappiamo tutti come andò: il popolo greco votò con un’ampia maggioranza (61%) contro il piano lacrime e sangue dei creditori, ma Tsipras, entrando in urto con Yanis Varoufakis, accettò comunque la proposta. E di lì una nuova ondata di deregolamentazioni del mercato del lavoro, di tagli alle pensioni, di inasprimenti fiscali, di disoccupazione. Uno spettacolo di raccapricciante prassi neoliberista, un’orgia di miseria.
Il dramma greco rivelò (almeno) due verità non più aggirabili: l’integrazione europea si è arrestata da troppo tempo e l’Unione Europea, di conseguenza, è oggi poco più che una piattaforma di libero scambio dove mettere in atto i dogmi del capitalismo selvaggio e concretizzare quella che Canfora ha definito “utopia dell’egoismo”. Non v’è più traccia di solidarietà, non è rimasto quasi nulla dell’afflato cosmopolitico che animò Paul-Henri Spaak o Altiero Spinelli all’avvio del progetto europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
L’Unione è pressoché impotente di fronte ai dilemmi del XXI secolo – disuguaglianze, migrazioni, ambiente – e applica soluzioni antiquate (e spesso miopi) a problematiche nuove e complesse. Di qui, ad esempio, il turpe accordo del marzo 2016 con la Turchia di Erdoğan, col quale si sono ceduti miliardi al sultano di Ankara purché nell’Europa del grigiume e dell’indifferenza non affluissero migliaia di siriani in fuga dal conflitto. Perfino in mezzo alla tempesta del Covid-19, che toglie vite e mette a repentaglio il futuro dei lavoratori, ci tocca assistere a manifestazioni sconfortanti della putrefazione comunitaria: replicando a chi, giustamente, vorrebbe rivedere il Patto di Stabilità (fortunatamente sospeso) ed emettere “Eurobond” al fine evitare il dissesto finanziario dei paesi più a rischio, il ministro olandese Wopke Hoekstra ha proposto di mettere sotto indagine gli stati troppo indebitati per fronteggiare le ripercussioni economiche della pandemia. Davvero un europeista di ferro.
Questa Unione Europea, ormai un vecchio e anacronistico rottame, non può più andare avanti. A noi popoli europei la scelta: o tornare agli stati nazionali e rifeudalizzare il continente (la via sovranista) o portare a compimento l’integrazione interrotta e fondare un’Europa federale, democratica e socialista (la via europeista). Da una parte, il sistema internazionale dell’egoismo patriottico tanto caro a Salvini, Le Pen e Orbán; dall’altra, un’Unione Europea egualitaria, libera, pacifista ed ecologista. Non esiste una terza via: è ora che gli europeisti, quelli veri, se ne rendano conto. E agiscano di conseguenza.
Ma prima di pensare a come far ripartire l’integrazione europea, dobbiamo capire perché si è fermata. Semplificando il quadro, due sono stati dagli anni ’90 in poi gli ostacoli maggiori all’unificazione d’Europa: il persistere della logica, dei miti e dei quadri mentali nazionali e l’assetto neoliberista e perciò confederale dell’Unione.
Cominciamo dal primo problema. Che è un vero e proprio nodo gordiano: la nazione, benché “imagined community”, come avrebbe detto Benedict Anderson, rappresenta tutt’oggi per molti cittadini europei l’identità primaria o, in ogni caso, una componente irrinunciabile del proprio bagaglio culturale. E, soprattutto (o di riflesso?), le classi dirigenti dei paesi del continente, sovraniste e non, custodiscono gelosamente le prerogative attribuite per tradizione agli stati da Bodin in avanti (politica estera e di difesa in primis). L’interesse per antonomasia rimane per qualsiasi governante quello nazionale, a prescindere dalla più o meno sincera fede europeista (si pensi a Macron).
Questa la ragione per cui al più recente trattato europeo, quello di Lisbona, siglato nel 2007, si sono accompagnate decine e decine di dichiarazioni ufficiali tese a rivendicare il ruolo, i poteri e l’indipendenza degli stati membri. Il messaggio di presidenti e primi ministri è arrivato forte e chiaro all’opinione pubblica e alle istituzioni europee: la cooperazione intergovernativa è la benvenuta, a patto però che rispetti la sacralità della sovranità nazionale, confine ineliminabile ed invalicabile. L’Italia, al solito, è un caso a sé: nella politica nostrana, l’invocazione dell’Europa si fa corale solo quando c’è da strappare qualche concessione a Bruxelles. Ergo, quando ci conviene.
Nella voce Europeismo della Treccani, datata 1977, Altiero Spinelli offrì una brillante lettura storica del cammino europeo: “la vita politica europea ha avuto proprio questo andamento paradossale e contraddittorio: da una parte restaurazione degli Stati-nazione, e perciò anche delle categorie politiche ed economiche nazionali, dei miti e tabù nazionali; dall’altra instaurazione di istituzioni e politiche comuni, quindi prospettive, responsabilità e solidarietà nuove”. Da decenni, nell’incessante dialettica di forze spinelliana la dimensione nazionale è in fase di espansione e forse prossima al trionfo, mentre quella sovranazionale ed europea quotidianamente arretra e si scolorisce, sotto il peso di un conglomerato ereditario, lo stato-nazione, che immobilizza, preserva, impedisce.
Commette un errore grossolano chiunque ritenga che le sinistre del continente abbiano tentato di opporsi al prevalere della logica nazionale. Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, infatti, la gran parte dei comunisti e dei socialisti hanno rinnegato non soltanto la causa dei lavoratori inchinandosi alla globalizzazione di stampo capitalistico e alla cultura egemonica statunitense, ma anche la propria storica vocazione internazionalista. Il Marx del Manifesto del Partito Comunista è stato cacciato, cedendo il posto a una schiera di “socialpatrioti” (l’espressione è di Trotsky) troppo impegnati a coltivare il proprio minuscolo orticello per occuparsi dei deboli appartenenti a culture estranee e lontane. Perfino un politico di spessore come il laburista Jeremy Corbyn, che pure si è presentato alle elezioni nel Regno Unito del 2019 con un programma condivisibile e audace, non ha saputo mostrarsi risolutamente europeista, pagando a caro prezzo l’ambiguità del suo friabile internazionalismo.
Ma veniamo al secondo e più grave ostacolo che soffoca gli impulsi all’unificazione europea, ovvero l’assetto neoliberista dell’Europa. Dobbiamo risalire al 1992, quando venne firmato dai paesi membri il Trattato di Maastricht. L’accordo scaturì da un contesto singolare: l’Unione Sovietica era appena crollata, ponendo fine alla Guerra Fredda; gli Stati Uniti di Bush senior, ormai privi di rivali temibili,avevano l’anno precedente sconfitto Saddam Hussein nella Prima Guerra del Golfo e tentato di imporre (senza successo) una pax americana nel Medio Oriente tramite la Conferenza di Madrid; Francis Fukuyama, infine, annunciava la “fine della storia”, identificata con l’Occidente liberale (The End of History and the Last Man, 1992).
Pur sull’onda della promettente intesa tra Mitterrand e Kohl, l’Europa si adattò con sorprendente celerità a questi sconvolgimenti politici, economici e culturali. O meglio: se ne lasciò trasportare acriticamente. Gli accordi di Maastricht, toccando soltanto in superficie la politica estera comune e la cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni, incisero più che altro sull’assetto economico dell’Unione, poiché sancirono l’istituzione della Banca Centrale Europea e l’adozione della moneta unica (attuata con l’euro nel 2002). Conquiste storiche? Avrebbero potuto esserlo, se solo non si fossero accompagnate all’imposizione di rigidi criteri quantitativi per mantenere la stabilità dei prezzi a tutti i costi, frenare l’indebitamento pubblico e prevenire politiche inflazionistiche. Non trovò invece spazio alcun parametro relativo alla crescita, con ciò precludendosi, per il futuro, l’implementazione della spesa sociale e del welfare, l’adozione di misure di stampo keynesiano, l’intervento pubblico in economia e la piena occupazione.
Il famigerato Patto di Stabilità, firmato nel 1997, non fu altro che il pesante corollario dei paletti di Maastricht, oltre che l’ennesima vittoria diplomatica di Germania e Olanda. In definitiva, e purtroppo, ad un’integrazione politica e attenta anche alla tutela del lavoro e alla redistribuzione si preferì il consolidamento di un mercato unico regolamentato secondo i paradigmi della cultura neoliberista dominante e retto mediante il soft power della cooperazione intergovernativa e confederale.
Qualcosa, da un punto di vista economico e istituzionale, è in seguito mutato, certo, ma ancora oggi i paesi più indebitati dell’area mediterranea, per non rischiare sanzioni, sono costretti a rincorrere il mito dell’austerità e della precarizzazione del lavoro e dell’esistenza. “There is no alternative”, ci ricorderebbe saccente la Thatcher. Ma un’alternativa deve pur esserci, perché quest’assenza di discorsi e di spazi genuinamente politici, questa adesione incondizionata e radicale a teorie economiche inique hanno scatenato conflitti tra regioni europee e arrestato brutalmente l’integrazione. Del resto, la piaga del sovranismo è anche figlia dell’agonia comunitaria e del naufragio di quell’armonioso equilibrio continentale tra unità e pluralità lodato da David Hume nel 1742.
La gabbia della nazione e la struttura neoliberista dell’Unione stanno spazzando via quanto rimane del progetto europeo. Ma la soluzione non è né potrà mai essere il ripristino dell’antico sistema di stati sovrani del continente: le guerre mondiali hanno definitivamente polverizzato quel sistema, con buona pace della Meloni di turno. I popoli europei, allora, dovrebbero comprendere che unicamente un’Europa più solida e coesa potrà guarire i mali che li affliggono, a cominciare dall’incremento delle disparità economico-sociali e dal “capitalismo della sorveglianza” magistralmente descritto da Shoshana Zuboff (ma, molto prima, da Michel Foucault). Problemi sovranazionali impongono rimedi sovranazionali.
Giunti a questo punto, è naturale domandarsi: dato che un’Unione Europea più forte rappresenta la meta d’arrivo auspicabile, come pervenire, in concreto, ad una maggiore integrazione? Come riprendere il percorso interrotto da decenni? Non certo coll’accentuare il carattere confederale delle istituzioni europee: come si è visto, il modulo intergovernativo, che già De Gaulle promosse con tenacia e che ancora oggi primeggia, costituisce il riflesso politico-istituzionale del permanere di vedute strettamente nazionali e del laissez-faire di Maastricht. Proseguendo per quella strada, l’Unione finirà per schiantarsi.
Recentemente, Giuliano Amato ha suggerito la ripresa del gradualismo proprio del metodo funzionalista di Jean Monnet: a suo avviso, occorre convincere l’opinione pubblica, settore per settore, questione per questione del carattere vantaggioso del trasferimento di funzioni agli organi europei e accrescere così, gradualmente, i compiti dell’Unione. Un approccio apparentemente pragmatico e concreto, ma che nell’Europa del XXI secolo ha ben poche potenzialità. Il funzionalismo, infatti, pecca di scarsa politicità e di eccessivo tecnicismo e può risultare vincente soltanto nel conciliare interessi nazionali divergenti in relazione a specifici ambiti, generalmente piuttosto ristretti: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951 ne è la prova. All’Unione manca la vitalità della dimensione politica e della partecipazione democratica, non l’efficienza amministrativa. Il modulo funzionalista, purtroppo, potrà forse migliorare la seconda, ma non stimolerà mai la prima.
Scartate le ipotesi confederali e funzionaliste, non ne resta che una, che è anche la più appetibile: quella di un’Europa federale, democratica e socialista. Se fosse una federazione, e disponesse quindi di un budget considerevole e di autonomia in politica estera, militare, ambientale, economica, fiscale e migratoria, l’Unione potrebbe uscire dall’impotenza dovuta all’attuale impronta neoliberista e rispondere finalmente alle reali esigenze dei popoli e dei governi europei della nostra epoca. Ma il trasferimento di tanti poteri all’Europa nell’ottica di una svolta in senso federale non potrebbe avvenire senza la partecipazione popolare e senza una radicale democratizzazione delle istituzioni europee. Il fuoco dell’agone politico, cioè, dovrebbe giocoforza passare dalla sfera nazionale, comunque non annichilita, a quella comunitaria. E non per puro utopismo da filosofi velleitari, bensì per convenienza, per solidarietà e, non ultimo, per coscienza di un passato e di un presente condivisi.
Volendo citare un caso virtuoso, DiEM25 (Democracy in Europe Movement 2025) lotta dal 2016 per un’Europa democratica, trasparente, partecipata, federale. Il movimento, giustamente, invoca una rivoluzione politica continentale e dal basso, in nome di un’Unione abbastanza solida e inclusiva da difendere i diritti dei lavoratori europei, istituire un sistema di welfare comune, investire capitali e risorse nelle infrastrutture e nel verde, garantire un salario minimo, arginare le disuguaglianze e avviare la transizione verso un’economia post-capitalista.
Cionondimeno, disponiamo di una bussola finanche più autorevole per impostare la rotta verso l’Europa federale dei molti e non dei pochi. E questa è il Manifesto di Ventotene, pamphlet dell’agosto 1941 nato dalla collaborazione di antifascisti del calibro di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann. Per molti politici, è ormai diventata quasi un’abitudine invocarlo, badando bene – è ovvio – a smussarne gli angoli ed a passarne sotto silenzio la portata dirompente e rivoluzionaria. Il Manifesto, tuttavia, rimane un progetto visionario e, per certi versi, tradito. È da lì, da quelle pagine profonde e ponderate in cui la causa europeista viene sapientemente coniugata con quella dell’uguaglianza, che tutte le sinistre d’Europa dovrebbero trarre spunto per le battaglie dell’avvenire: “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita”.