Sahra Wagenknecht è certamente il volto pubblico più rappresentativo della sinistra di classe tedesca. Presidente del gruppo parlamentare di Die Linke presso il Parlamento federale, il suo volto è identificato nella Germania contemporanea con il radicalismo di quei settori che, nel Partito del Socialismo Democratico (PDS) nato dalle ceneri della SED tedesco-orientale prima, nel nuovo partito della sinistra fondato in seguito alla fusione con gli ex socialdemocratici di Oscar Lafontaine (che della Wagenknecht è compagno di vita) poi, non hanno mai rinnegato l’esperienza socialista della Repubblica Democratica Tedesca e hanno mantenuto ferma l’adesione alla prospettiva della costruzione della società socialista nelle nuove condizioni della Germania unificata.
Un percorso, quello di Sahra Wagenknecht, certamente irto di contraddizioni, spesso apertamente conflittuale con la direzione dei due partiti in cui si è svolta la gran parte della sua militanza, altre volte caratterizzato da concessioni al senso comune e da piccole o grandi reticenze rispetto tanto all’eredità del passato da tutelare contro il revisionismo e la calunnia, quanto rispetto al futuro della lotta di classe in Germania da costruire e organizzare. Si può tuttavia affermare che, nella realtà della lotta politica tedesca contemporanea, le vada riconosciuto il merito di avere occupato un posto in prima fila nella difesa e nella popolarizzazione di tematiche e questioni fondamentali nella battaglia per una nuova società che senza di lei avrebbero un’eco assai più ridotta e che grazie a lei, viceversa, possono beneficiare di un punto di riferimento e di un elemento coagulante. Non c’è questione fondamentale su cui Sahra Wagenknecht non si sia segnalata per le sue prese di posizione chiare e d’avanguardia: dal sostegno internazionalista alle esperienze rivoluzionarie latinoamericane alla crisi seguita al colpo di Stato del 2014 in Ucraina, dalla solidarietà con il popolo palestinese alla tenace opposizione contro le manifestazioni della rapacità e ferocia dell’imperialismo tedesco nell’ambito dell’Unione Europea.
Alla prima fase della lotta politica della Wagenknecht, giovane esponente di spicco della Piattaforma Comunista della PDS negli anni ’90, appartiene il primo saggio pubblicato, “Strategie antisocialiste all’epoca della contrapposizione dei sistemi”, edito in Germania nel 1995 e proposto in traduzione italiana dall’Associazione Editrice Concetto Marchesi nel 2009. Il testo si propone di analizzare le differenti fasi della strategia posta in essere dal blocco atlantico a partire dagli anni ’40 per determinare il collasso dei sistemi socialisti dell’Europa orientale. In particolare, l’attenzione dell’autrice si concentra sul passaggio, concretizzatosi a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, dalla strategia dell’embargo e della minaccia alla cosiddetta “strategia indiretta”, finalizzata a indebolire le basi egemoniche del socialismo nelle popolazioni dei paesi dell’est europeo attraverso l’incentivazione di una graduale erosione della base ideologica dei partiti comunisti in favore di sempre più marcate concessioni all’opportunismo politico.
Il primo concetto che emerge dallo scritto e che vale la pena di sottolineare, perché fondante l’intero impianto analitico, è quello di “strategia di classe unitaria”. L’autrice prende in considerazione tanto le posizioni politiche dei dirigenti e intellettuali organici dell’imperialismo quanto quelle via via sviluppatesi nel campo socialista, con la finalità di evincere un primo, essenziale elemento di valutazione: la capacità delle direzioni politiche di determinare – al di là della competizione interimperialista da un lato della cortina di ferro e dall’altro delle specificità nazionali – una strategia di classe unitaria capace di determinare un salto qualitativo nella contrapposizione insanabile tra i due sistemi, capitalismo e socialismo reale, nei quali durante tutto il corso della Guerra Fredda si è incarnata la proiezione su scala internazionale della lotta di classe. Questo terreno, ossia quello della capacità di corrispondere in chiave strategica alle esigenze della congiuntura internazionale, viene indicato come quello decisivo sul quale l’intero conflitto dei sistemi si è incardinato e che ne ha determinato l’esito. Così la Wagenknecht:
Fin dal primo momento il braccio di ferro tra socialismo e imperialismo fu strettamente legato a una domanda ben precisa, quella riguardante quale sistema sarebbe riuscito a realizzare due obiettivi: 1. elaborare una strategia politica che permettesse al sistema stesso di realizzare i suoi obiettivi di classe a lungo termine e di unificare internazionalmente il proprio blocco basandosi sui suoi principi; 2. intaccare la solidarietà di classe all’interno del blocco avversario e impedire che progredisse nell’organizzazione della sua strategia. (Pag. 13)
Siamo qui in presenza di una scelta di campo teorica dal valore determinante: l’autrice colloca la propria analisi nel solco del materialismo storico, facendo suo il compito di depurarla da ogni elemento d’ideologia borghese per restituire allo scontro tra i sistemi della seconda metà del XX secolo la sua più autentica dimensione, quella della battaglia decisiva tra la vecchia storia della dominazione classista e la nuova storia della liberazione umana apertasi con la Rivoluzione d’Ottobre. Ed in effetti l’intero testo rappresenta innanzitutto un esercizio di traduzione: l’autrice prende in considerazione gli scritti dei teorici della geopolitica imperialista e dei dirigenti politici occidentali, da Kennedy a De Gaulle, da Brzezinski a Kissinger, e ne smaschera il contenuto di classe, sottoponendolo a un rigoroso lavoro di trasposizione dal frasario ideologico borghese alle categorie dell’analisi marxista. Una lezione, questa, d’importanza fondamentale in un’epoca in cui, come oggi, assistiamo alla penetrazione ideologica borghese tanto in profondità all’interno dello stesso movimento comunista da dar luogo a ogni sorta di campismo, semplificazione filistea o equivoco. La scelta del testo in esame è diametralmente opposta: riconosciuta la lotta di classe come motore della storia, esso ne analizza con lucidità e precisione un passaggio determinante, chiarendo che cosa abbia significato, nella storia del secolo scorso, la capacità della teoria politica di agire come forza materiale nel flusso degli eventi.
Al centro dell’analisi condotta dalla Wagenknecht si colloca un momento specifico: il passaggio, contrastato e non privo di difficoltà, dell’imperialismo dalla strategia dell’embargo e della minaccia, attuata grazie alla netta superiorità economica dell’occidente nei primi anni del dopoguerra e dal monopolio nucleare statunitense, alla strategia indiretta, ovvero una politica mirante a introdurre graduali trasformazioni tra i paesi socialisti favorendo l’erosione della loro ispirazione ideologica marxista-leninista. I tre obiettivi immediati della strategia indiretta vengono così sintetizzati:
1. Disintegrazione del sistema socialista mondiale; 2. dissolvimento della coscienza marxista nei partiti comunisti; 3. ristabilimento dell’egemonia ideologica borghese sulle popolazioni dei paesi socialisti. (Pag. 63)
La cooperazione economica, sottoposta a condizioni, dell’occidente con i singoli paesi socialisti, l’intensificazione degli scambi culturali e scientifici, la retorica sull’eliminazione delle “restrizioni alle libertà” nelle società socialiste divenivano altrettante armi in una guerra di trincea mirante a un’erosione lenta ma inesorabile della natura ideologica delle democrazie popolari. L’illusoria accettazione da parte di USA e alleati dello status quo europeo, altro non significava che il passaggio a una visione prospettica di lunga durata centrata sul passaggio dal tentativo di un abbattimento controrivoluzionario delle strutture socialiste a un loro dissolvimento per svuotamento, i cui attori avrebbero dovuto essere gli stessi partiti comunisti chiamati alla direzione di quelle società. Il tutto reso possibile da un profondo rinnovamento ideologico dello stesso imperialismo:
Il passaggio alla strategia indiretta richiese mutamenti radicali nella gestione della guerra ideologica. [...] Non era più la caduta del socialismo ad essere auspicata, bensì l’introduzione di “riforme” al suo interno. La dottrina del totalitarismo lasciò il posto alla dottrina della convergenza. Non ci si mosse più in lotta aperta contro l’ideologia socialista; si annunciò invece l’irrilevanza di qualsiasi ideologia, e così via. D’ora in poi, la propaganda imperialista seguì quel modello di argomentazione, per definire il quale Lukacs aveva coniato il concetto di “apologetica indiretta” [...]: la visione del mondo marxista-leninista non doveva più essere confutata come una forma di falsa coscienza, bensì si doveva mettere in dubbio la possibilità di una coscienza vera in assoluto, cioè del riconoscimento razionale della realtà. La dottrina del pluralismo divenne così lo strumento principale delle forze borghesi nella lotta di classe ideologica. (Pag. 60, grassetti nostri)
Siamo qui in presenza dell’atto etimologico della nostra contemporaneità, dominata da quel paradigma post-moderno che è la vera e propria ideologia ufficiale dei nostri tempi e che ha avuto la capacità di reinterpretare il paradigma individualista del liberalismo classico nelle condizioni nuove dell’accesso delle masse a livelli crescenti di protagonismo politico, sociale e culturale: alla negazione delle ideologie in generale, finalizzata al dissolvimento della coscienza dell’antinomia oggettiva e di classe rappresentata, durante tutta la Guerra Fredda, dall’opposizione Est-Ovest, fa riscontro la scomposizione delle formazioni collettive in seno alle stesse società occidentali, indotta ideologicamente come diretto riscontro dello smembramento della produzione e della scomparsa delle grandi concentrazioni operaie. A tutti i livelli, l’imperialismo vince la lotta di classe occultando il carattere di classe del proprio dominio sull’Umanità.
Ma non è tutto. È in questa fase che assume la sua fisionomia definitiva quella particolare forma di europeismo che, tuttora viva, l’imperialismo immaginava come alternativa ideale all’immaginario socialista. Annientata la coscienza del carattere di classe dello scontro internazionale in atto, l’imperialismo scelse di servirsi della retorica europeista come corollario della menzogna della “distensione”: un passaggio cominciato nella Francia di De Gaulle con coloriture antiamericane, che gli ideologi della strategia indiretta a stelle e strisce seppero far proprio e interpretare, restituendo parte del protagonismo perduto agli imperialismi europei, proprio nella prospettiva del ricompattamento del fronte unitario antisocialista minacciato dagli interessi particolari degli imperialismi occidentali concorrenti:
L’assimilazione dell’ideologia europeista nella comune strategia di classe imperialista dunque portava con sé immediatamente due vantaggi. In primo luogo un progetto ideologico, che in origine non era altro che l’espressione delle sempre più numerose divergenze interne all’imperialismo, si trasformava in un efficace elemento di coesione, che ricomponeva su nuove basi il frantumato blocco imperialista. E, al tempo stesso, con l’ideologia europea si era ritrovato un programma ideologico popolare adatto ai rapporti di forza internazionali, necessario come sovrastruttura della strategia indiretta. (Pag. 97)
Una circostanza, questa, meritevole di attenta analisi nel quadro attuale di scontro multipolare: ai contrasti interimperialisti le classi dominanti possono sempre rispondere formulando quadri strategici e teorici in grado di ricompattarle sulla base dei comuni interessi di classe. Nulla è deterministicamente prestabilito. Ancora una volta la chiave interpretativa marxista si dimostra fondata: la possibilità delle formazioni umane organizzate d’imporre un corso agli eventi storici è ben presente nell’approccio degli intellettuali organici del capitale monopolistico e tocca invece paradossalmente a noi di riscoprirla.
Non andremo oltre nella disamina dei contenuti del libro. Al lettore interessato spetterà scoprire dalla lettura diretta i tempi e i modi di affermazione di un progetto strategico destinato con il suo successo ad aprire le porte alla fase d’imbarbarimento delle relazioni sociali in cui, con l’attuale crisi del capitalismo, siamo oggi più che mai sprofondati. Una strategia delineata negli anni ’60 e portata a compimento negli anni ’70, che non avrebbe tuttavia avuto alcuna speranza di affermarsi se non avesse saputo correttamente interpretare e direzionare tendenze degenerative già in atto nell’Europa dell’est – dove il risorgere di tensioni nazionali via via andava eclissando l’orizzonte di classe unitario – ma soprattutto in Unione Sovietica, dove i costanti cedimenti della dirigenza del PCUS hanno giocato un ruolo determinante nella penetrazione occidentale. Fu proprio la dirigenza gorbacioviana dell’URSS, in nome della costruzione della "Casa comune europea", ad agire infine attivamente per la definitiva liquidazione del socialismo in tutto quello che fu il Patto di Varsavia.
Certamente, conclude Sahra Wagenknecht, molte concessioni alle pretese occidentali furono motivate da circostanze oggettive (le difficoltà economiche, i costi della corsa agli armamenti, la rottura con la Cina, ecc). Quale fu, dunque, l’errore essenziale?
A quanto pare il direttivo sovietico partiva dall’ipotesi che una deideologizzazione (Entideologisierung) della vita sociale [...]non presentasse pericoli d’importanza vitale nemmeno per il socialismo. Questa supposizione perdeva di vista tuttavia il fatto che la relazione fra ideologia e politica nel socialismo è ben diversa che nell’imperialismo. Il capitalismo monopolistico si riproduce naturalmente; il meccanismo di funzionamento capitalista, per funzionare, non richiede alcuna espressa approvazione da parte di coloro che ne sono coinvolti, è sufficiente che essi non lo neghino o combattano esplicitamente. Il socialismo al contrario non si riproduce naturalmente. È necessario che venga gestito da un processo razionale e di conseguenza presuppone un orientamento continuo della sua concezione del mondo, almeno fra coloro che hanno la responsabilità di gestirlo. La Entideologisierung della vita sociale, l’assimilazione di tesi revisioniste nell’ideologia ufficiale, non avrebbe scalzato solo l’egemonia ideologica dei partiti comunisti fra la popolazione dei loro paesi; presto o tardi avrebbe anche deformato questi partiti sul piano ideologico. E in questo modo a lungo andare veniva minacciata l’esistenza stessa del potere socialista. (Pag.185)
Una lezione storica che noi, eredi di quella sconfitta epocale, immersi nell’ambiente ideologico determinato dal trionfo egemonico dell’ideologia post-moderna, impegnati nella ricostruzione delle condizioni organizzative per tornare a contendere alla barbarie l’avvenire dell’umanità, abbiamo il dovere rivoluzionario di apprendere e declinare nella nostra opera quotidiana.