Organizzare la ribellione

Ricostruire il partito per riorganizzare la riscossa, quella vera. Le riflessioni dello storico Fulvio Lorefice nel suo primo libro “Ribellarsi non basta. I subalterni e l’organizzazione necessaria”.


Organizzare la ribellione Credits: bordeauxedizioni.it

“Per tutti i diavoli, vedo bene la divina pazienza della nostra gente, ma la loro divina furia, dov’è?” A questa domanda attualissima del Galileo brechtiano, prova a rispondere Fulvio Lorefice con Ribellarsi non basta. I subalterni e l’organizzazione necessaria, Bordeaux, 2017 pag. 100, 12 euro.

In questo suo primo libro lo storico catanese dell’età contemporanea, autore di pregevoli saggi sulla storia degli Stati Uniti e della formazione del melting pot, dimostra come l’assenza di ribellione in questa fase che segue la sconfitta dell’esperienza comunista novecentesca, deriva principalmente dalla mancanza di organizzazione dei subalterni, più precisamente della sua forma più efficace: il partito politico.

Ribellarsi è giusto, ma non basta. Ed è quasi impossibile senza l’organizzazione.

Nonostante argomenti teorici robusti non manchino per giungere a questa conclusione, il giovane studioso che è anche dirigente e militante, preferisce analizzare alcune esperienze recenti, valutandone limiti e potenzialità.

Lo fa selezionando ed esplicitando nel primo capitolo e nelle numerose note che costituiscono una robusta e coerente bibliografia, una lente di lettura gramsciana della politica e della società. Non casuale è la scelta della categoria dei subalterni che rimanda per l’appunto al complesso della lotta per l’egemonia, la densità non solo politica, sociale, economica della lotta di classe, ma anche quella antropologica (persino demologica). Cultura dominante (egemonica) e cultura subalterna con la sua autonomia, assolutamente diversa, altra, alternativa almeno fino all’avvento del neocapitalismo consumistico.

Proprio questa nuova fase, dopo la mutazione antropologica denunciata da Pasolini a cui non seppe reagire il Pci, rende più stringente la necessità della ragione contro l’emozione, della parola (le parole a cui va restituito il senso) contro il dominio dell’immagine, del ragionamento contro l’insulto plebeistico, dell’organizzazione contro lo spontaneismo, della formazione contro il primitivismo, della collettività democratica contro il leaderismo, insomma il ritorno togliattiano alla priorità della politica per contrastare la formidabile capacità egemonica dell’apparato ideologico dominante.

Dopo una sintetica ma efficace ricostruzione della vicenda del partito in Italia, Lorefice analizza la vicenda di SYriza e di Podemos, formazioni politiche i cui dirigenti esplicitamente rivendicavano di ispirarsi al comunismo italiano (Gramsci e Berlinguer), cogliendo in entrambe le esperienze il limite dello scarso radicamento sociale e quindi la difficoltà, evidente nel caso greco col governo Tsipras, di poter cambiare lo stato delle cose col solo risultato elettorale. Significativo, e mostra dello scrupolo dello studioso, aver anticipato l’evoluzione di Podemos e il dibattito che ha diviso il partito spagnolo nell’ultimo congresso.

Dopo aver denunciato l’attacco deliberato al partito politico che ha una lunga storia nel caso italiano e ha subito una accelerazione dopo la cosiddetta vicenda tangentopoli - appaltopoli secondo l’autore visto che era chi prendeva l’appalto che faceva il vero affare e determinava le scelte - nell’ultimo capitolo vengono studiate due esperienze di innovazione che riguardano il Pd e Rifondazione comunista.

Nel primo caso, i “Luoghi Idea(li) promossi da Fabrizio Barca: si tratta di un esperimento di rigenerazione del Pd a cui ha partecipato l’autore che doviziosamente ne illustra i fondamentali teorici e puntigliosamente ne resoconta gli esiti. A parere di chi scrive, la prova del nove della irriformabilità di quel partito e del fatto che miracolosamente persino lì rimangono brave persone ancora disposte a un impegno politico disinteressato. Insomma l’eccezione che conferma la regola.

Più significativa e rilevante sul piano quantitativo e qualitativo la vicenda del partito sociale in Rifondazione Comunista a cui l’autore ha partecipato direttamente nella esperienza dei gap.

Nella caravaggesca, molte luci e molte ombre, vicenda di Rifondazione si è tentato dopo ogni scissione significativa di reagire all’inevitabile indebolimento di quella che rimane la più significativa esperienza politica dopo lo scioglimento del Pci, con una innovazione. Dopo la scissione di Cossutta nel 1997 vi fu il tentativo di usare l’inchiesta come metodo di funzionamento e riorganizzazione del partito che però non riuscì mai a permeare il corpo del partito, ma consentì comunque di accumulare non indifferenti esperienze e risultati parziali. Dopo la scissione di Chianciano nel 2008 venne lanciato il partito sociale, che al netto di un dibattito interno che ne strumentalizzava per altri fini il compito, è risultato nelle esperienze concrete dei compagni e nella riflessione teorica dei promotori, un’esperienza sicuramente positiva, utile e che ancora ha molto da insegnare. Lorefice ne illustra i campi d’azione più significativi, i gap, le brigate di solidarietà, e individua nella difficoltà a fare un salto di qualità, di scala, uno dei limiti maggiori.

A questo punto molte delle domande che ci poniamo sulla inefficacia della nostra azione politica cominciano a trovare risposte, una su tutte: l’assenza di un partito dei subalterni ha fatto degenerare tutto il quadro politico, culturale e sindacale. A fronte del più micidiale attacco alle condizioni di vita dei lavoratori, il sindacato maggioritario diviene sempre più inverosimilmente complice. A fronte di una estensione della guerra e del rischio di una catastrofe nucleare e nonostante un papa sensibile a questi temi nessun movimento di massa si muove per la pace e il disarmo. A fronte di un impoverimento materiale spaventoso e del fallimento delle politiche liberiste e delle privatizzazioni, l’arroganza dei padroni nell’esibire e vantare la loro immorale e vomitevole ricchezza, cantata da pennivendoli che scrivono parole di merda con la penna ficcata nel culo, non ha ancora determinato una reazione di sacrosanta vendetta sociale. Questi assassini girano impunemente per strada preparandosi a farsi scortare dai fascisti con le loro solite idiozie pericolose.

Hanno scelto di non fare prigionieri, questo però li rovinerà: se non possiamo arrenderci, saremo costretti a combattere.

Il libro si chiude con un richiamo all’ottimismo della volontà e al pessimismo della ragione preceduto da una lunga citazione di Giuseppe Ugo Rescigno, tra i protagonisti della vittoria referendaria del 4 dicembre in difesa della Costituzione, che ci riporta ai fondamentali morali della lotta politica, ricordandoci come attraverso un uso razionale delle risorse e una equa divisione del lavoro tutta l’umanità avrebbe oggi la possibilità di vivere una vita dignitosa. “La produttività è tale che se tutti gli uomini abili lavorassero, il tempo medio individuale di lavoro si potrebbe ridurre ad una parte assolutamente secondaria...e tutti potrebbero dedicarsi ad attività umane di ordine superiore (il ciclismo, le arti, le scienze, l’amore, ecc).

Il lavoro: that’s the question! Mai così svalorizzato e incompreso. Poco compreso anche dai comunisti. Se infatti Marx è lo studioso del funzionamento del capitalismo, Lenin della Rivoluzione, Gramsci dello Stato, solo marginalmente, pur con indubbia capacità analitica, si è studiata concretamente la condizione materiale delle lavoratrici e dei lavoratori. Insomma Marx ha scritto il Capitale, chi scriverà Il Lavoro?

Nella vicenda novecentesca il rapporto sindacato partito garantiva almeno una circolazione di informazioni e di saperi che si manifestavano in forma avanzata nel conflitto sociale. Oggi questo circuito virtuoso, questa spirale positiva sembra spezzata. Da lì si dovrà ripartire per ritrovare forza e organizzazione. A questo dovrà servire l’intellettuale collettivo, da costruire prima che la barbarie del turbo capitalismo e dell’iperfordismo ci sotterrino sotto le macerie del massacro sociale, della guerra e dell’incombente rischio di una catastrofe nucleare.

Questo libro ci conforta nel sapere che giovani talpe stanno continuando a scavare e a cercare una via d’uscita. Perché mentre sembra che la paura e la rassegnazione ci stanno paralizzando tutti, un terremoto sociale si va preparando. Sembra tutto fermo. Eppur si muove!

15/07/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: bordeauxedizioni.it

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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