Marxismo o “comunismo ermeneutico”? Ancora su Vattimo-Zabala e non solo

A proposito del libro di Vattimo e Zabala scrivo così nel terzo capitolo di "Democrazia Cercasi" (pp. 262-268). Sono riflessioni che possono essere applicate anche a altre proposte che alimentano oggi il dibattito filosofico


Marxismo o “comunismo ermeneutico”? Ancora su Vattimo-Zabala e non solo

La vicinanza tra Marx e Heidegger propugnata dai filosofi del “pensiero debole” comporta una confusione su ciò che deve essere contestato: “si tratta della società capitalistica e dello sfruttamento che inevitabilmente questa associa ai fenomeni progressivi? O si tratta della modernità in quanto tale, accusata di essere in se stessa un ambito di alienazione? Si tratta di operare una negazione determinata oppure di auspicare una indefinita palingenesi? Si contesta l’unilateralità della ragione strumentale oppure il logos in quanto tale e la produzione sociale e lo sviluppo delle forze produttive, in quanto inevitabili conseguenze del primato della ragione e del lavoro?” 

di Stefano G. Azzarà 

A proposito del libro di Vattimo e Zabala scrivo così nel terzo capitolo di "Democrazia Cercasi" (pp. 262-268). Sono riflessioni che possono essere applicate anche a altre proposte che alimentano oggi il dibattito filosofico [SGA]: 

"... Nonostante le provocazioni, non è il caso a mio avviso, per il Vattimo intenzionato a fare del pensiero debole un «pensiero dei deboli» al servizio del conflitto sociale, di chiamare in causa addirittura «il comunismo», se con questo termine si vuole intendere non una generica aspirazione utopistica ma un concreto insieme di riflessioni teoriche e di fenomeni storici [...] il “comunismo” o “cattocomunismo” di Vattimo è soprattutto una ribellione morale contro lo stato di cose esistenti, suscettibile di assumere di volta in volta i nomi più diversi: comunismo, anarchia, democrazia ma anche «autentico liberalismo» [...] Si tratta in sostanza, di suscitare contro le «strutture economiche e politiche della nostra società» una serie di «fiammate di rivolta»; di dar vita a una «azione politica che fonda senza essere a sua volta fondata».
Siamo di fronte, come si può vedere, a un appello all’engagement che chiama alla «alterazione e distruzione dell’ordine stabilito» e che presenta forti accenti fichtiani o sartriani (e dunque attivistici, soggettivistici e persino individualistici) ed è molto lontano dalla linea hegelo-marxiana. E nel quale il richiamo alla tradizione comunista e quello al conservatorismo rivoluzionario di Heidegger diventano, paradossalmente, fonti equivalenti. 

Vattimo parla a più riprese della «vicinanza di Heidegger a Marx» o della necessità di un di Marx e Heidegger». Riconduce il fallimento del marxismo al suo essere stato «inquadrato all’interno della tradizione metafisica» e alla pretesa di fondare il processo rivoluzionario su «basi scientifiche e razionali». Al suo essere stato «scientifico» piuttosto che «utopistico», «rivolto alla conoscenza» piuttosto che «romantico» [...] Ma proprio la sconfitta del progetto comunista storico, la «perdita del potere effettivo», determina oggi e finalmente anche il venir meno delle sue «pretese metafisiche», prima fra tutte «l’ideale dello sviluppo». Ed ecco che a questo punto si può parlare di un «progetto di emancipazione dalla metafisica» condiviso da Marx e da Heidegger [...] E proprio «come Heidegger» noi dovremmo prendere posizione e combattere, a partire dalla distruzione della «storia “continua”» (HC 40-2 e 55) e «statica» (il progresso entro e del medesimo ordine), da sostituire con l’idea di una storia «discontinua» e cioè «avviluppata in interruzioni, emergenze e alterazioni» [...]. 

Questa idea secondo la quale la rivolta emancipatrice contro il reale (e cioè contro ciò che è meramente esistente) [...] possa essere assimilabile alle motivazioni più profonde della filosofia di Heidegger [...] è del tutto fuorviante e confusionaria sul piano politico, perché Heidegger contestava sì l’oggettivismo metafisico, che è certamente il correlato paradigmatico dell’industrializzazione e del capitalismo, ma lo faceva dal punto di vista della Rivoluzione conservatrice. E aveva dunque orrore del ruolo autonomo delle masse in politica, credeva in una funzione spirituale della guerra, affermava l’esistenza di precise gerarchie sociali e tra i popoli, etc. etc. Il marxismo dell’epoca, così come più tardi il francofortismo, contestavano invece l’organizzazione totale e l’alienazione (e niente affatto l’oggettivismo o l’oggettivazione del soggetto tramite il lavoro) per motivi del tutto diversi, a partire soprattutto dalla condanna radicale della guerra e della carica di violenza e mobilitazione totale che essa – certo anche grazie alla diffusione della scienze e della tecnica – comportava. Oppure per il dispotismo che la società capitalistica esercitava a partire dal controllo dell’oggetto del lavoro. E proponevano, inoltre, percorsi e soluzioni del tutto diverse, che certamente sono state realizzate male ma che contrastavano già in linea di principio con le posizioni di chi, come Heidegger, contestava a monte l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini ed era molto scettico (per usare un eufemismo) sull’emancipazione del lavoro. 

Confondere questi due atteggiamenti in un concetto formalistico di rivolta o di rivoluzione significa che c’è una più profonda confusione su ciò che deve essere contestato: si tratta della società capitalistica e dello sfruttamento che inevitabilmente questa associa ai fenomeni progressivi? O si tratta della modernità in quanto tale, accusata di essere in se stessa un ambito di alienazione? Si tratta di operare una negazione determinata oppure di auspicare una indefinita palingenesi? Si contesta l’unilateralità della ragione strumentale oppure il logos in quanto tale e la produzione sociale e lo sviluppo delle forze produttive, in quanto inevitabili conseguenze del primato della ragione e del lavoro?..." [1]. 

 Vattimo è risoluto nella sua pretesa: «L’ermeneutica è la sola filosofia che rifletta il pluralismo delle società postmoderne, il quale, a un livello politico, è espresso nelle democrazie comuniste progressive» (HC 79), intendendo come tali gli esperimenti politici – tra l’altro forse troppo frettolosamente assimilati gli uni agli altri e ricondotti a un unico principio – dell’America Latina. Ma da quanto ho esposto prima dovrebbe essere chiaro che, se di comunismo si vuole parlare, saremmo qui di fronte a un comunismo postmoderno, appunto. E cioè “detournato”, per dirla alla Debord. Un «comunismo indebolito» (HC 7 e 80) e mutato dalla «essenza vitalistica» dell’ermeneutica, un’essenza che già per Vattimo stesso ha una inconfondibile «vena anarchica».

Note: 

[1] brano tratto da S .G. Azzarà, Democrazia cercasi, Imprimatur, 2014, pp. 262-268

24/04/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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