La semplice presenza della lotta di classe unita alla conoscenza della situazione economico-sociale non bastano da sole a garantire, per il giovane György Lukács, la giustezza della prassi. Se l’azione non può prescindere da questi presupposti che sono a essa necessari, il criterio della giusta tattica consiste nella conformità dell’agire al fine da raggiungere: “il vero criterio può essere esclusivamente lo stabilire se il modo dell’agire in un caso determinato serva a realizzare questo obiettivo, ossia il senso del movimento socialista, e così – poiché a questo obiettivo finale non servono mezzi qualitativamente indifferenziati, ma al contrario i mezzi già di per sé significano un avvicinamento all’obiettivo finale – devono essere dichiarati buoni tutti i mezzi mediante i quali questo processo di filosofia della storia è risvegliato alla coscienza e alla realtà, e cattivi invece tutti i mezzi che ottenebrano questa coscienza, come per esempio la coscienza della legalità e della continuità dell’evoluzione «storica» o addirittura degli interessi materiali del proletariato” [1].
La coscienza di classe – la nozione chiave dell’opera maggiore di Lukács degli anni venti – trova qui il luogo della sua genesi, e proprio in un contesto teorico in cui la sua preoccupazione sembra essere quella di mettere al riparo il marxismo da una ricaduta nell’economicismo e da una pratica politica che smarrisce il proprio senso nella gestione dei compiti immediati. Dipende da ciò il prevalere del lato soggettivo e l’accentuazione del momento della coscienza nel processo rivoluzionario, come elemento guida e garante della giustezza dell’azione politica [2].
L’unificazione di essere e dover essere si attua, infatti, mediante l’elevazione della coscienza proletaria, che accompagna la lotta di classe, ad autocoscienza consapevole delle proprie finalità storico-universali. Il giovane Lukács, piegando la teoria al momento della coscienza e concentrandosi sulla decisione pratica inerente al rapporto tra il movimento e lo scopo finale, rimane nei termini di una escatologia volontaristica, prescindendo dall’analisi dei rapporti materiali e dalla conoscenza delle contraddizioni tra i soggetti storici sorte sul terreno economico-sociale. Come rileva Arcangelo Leone de Castris: “la dialettica, in Lukács, è bensì forma della contraddizione, ma della contraddizione non già penetrata nella sua oggettività, sebbene ricomposta e trascesa nell’immediata autoposizione della soggettività. La datità del mondo empirico e sociale non risulta oggetto di comprensione critica, ma di eliminazione coscienziale” [3].
Nell’impianto teorico del Lukács neofita del marxismo – entro il quale è compresa anche Storia e coscienza di classe – ciò che fa difetto è la mediazione reale tra l’istante della coscienza e la classe, tra il movimento e la sua autocoscienza. Un errore di soggettivismo, dunque, forse inevitabile se viene debitamente storicizzato nel clima di attesa palingenetica di quegli anni [4]; ma un errore del quale Lukács, come vedremo, cercherà di emendarsi, dopo il ripiegamento rivoluzionario e il rafforzamento della reazione borghese.
Il modello a cui si ispira Lukács nella sua costruzione teorica è la Fenomenologia dello spirito hegeliana, con la decisiva correzione che l’autocoscienza da semplicemente teoretica e con lo sguardo rivolto al passato (la Erinnerung) diventa soggetto pratico operante nel presente, la cui azione è proiettata nel futuro. La mancanza dell’etica nella filosofia hegeliana – che, per questo Lukács, è il lato pericoloso dell’eredità hegeliana nel marxismo – fa da pendant al meccanicismo della II Internazionale e a una interpretazione di Marx in chiave puramente economica che, privilegiando nell’accadere sociale la categoria della necessità, si preclude l’apertura al possibile ed esclude l’intervento libero, cosciente e responsabile. Ma è, appunto, nello spazio del possibile che acquista valore la decisione etica individuale: “la scienza, la conoscenza possono solo indicare delle possibilità, e solamente nell’ambito del possibile è possibile un agire morale responsabile, un vero agire umano” [5].
Il singolo che fa propria la morale della responsabilità agisce come se dalla sua azione dovesse dipendere il destino del mondo e, nello stesso tempo, è consapevole che qualsiasi suo atto eticamente motivato non può sottrarsi a una colpa. È una ripresa del pathos tragico degli eroi dostojevskiani. Il tema del sacrificio di sé e della propria purezza morale – risuonante anche qui nelle parole della Giuditta di Hebbel: “E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi a esso?” [6] – che caratterizzava l’utopismo messianico dell’idea russa a Heidelberg e che era giustificato dalla finalità dell’incontro tra le anime, acquista, radicandosi nella dialettica storica, uno spessore di concretezza per il fatto che nella teoria marxiana cessa il dualismo tra l’obiettivo finale da perseguire e la realtà sociale.
Il divenire storico, finora mosso e dominato da forze cieche, può per la prima volta essere guidato consapevolmente soltanto trascendendo gli obiettivi e gli interessi immediati. La coscienza di classe significa essenzialmente “la coscienza della vocazione storico-universale della lotta di classe del proletariato”, ossia l’esecuzione testamentaria da parte del proletariato dell’eredità della filosofia classica tedesca: “nella coscienza di classe forgiata dal marxismo lo spirito, anzi il significato stesso dell’evoluzione sociale dell’umanità, è uscito dal suo stato d’incoscienza. Le leggi dell’evoluzione sociale cessarono così di essere forze cieche, catastrofiche e fatali: esse si ridestarono all’autoriflessione, alla coscienza. Se, come giustamente affermano gli storici della filosofia, il risultato fondamentale della filosofia classica tedesca è consistito nella conoscenza di una tale coscienza dello spirito, allora Engels poté affermare con ragione che il proletariato è l’unico legittimo erede di questa filosofia o, come noi aggiungiamo, il suo vero esecutore” [7].
Note:
[1] György Lukács, Tattica ed etica [1919], in Id., Scritti politici giovanili, traduz. di P. Manganaro e N. Merker, introduz. di P. Manganaro, Laterza, Bari 1972, p. 7.
[2] Richiamando autocriticamente questa impostazione, così si esprime Lukács nella Prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe: “ciò che dunque era in me un’intenzione soggettiva ed in Lenin invece il risultato di un’analisi autenticamente marxista di un movimento pratico all’interno della totalità della società, divenne nella mia esposizione un risultato puramente spirituale e quindi qualcosa di essenzialmente contemplativo. La conversione della coscienza «attribuita di diritto» in praxis rivoluzionaria, appare qui – considerata oggettivamente – come un puro e semplice miracolo” G. Lukács Storia e coscienza di classe, traduz. di G. Piana, introduz. di M. Spinella, Milano, SugarCo Edizioni 1967, p. XXXVII.
[3] Arcangelo Leone de Castris, Storicità di Lukács, in AA. VV., Letteratura, storia, coscienza di classe oggi, a cura di István Mészáros, Napoli, Liguori Editore 1977, p. 17.
[4] Per le vicende teoriche e politiche di Lukács nel periodo considerato rimandiamo alla puntuale e documentata ricostruzione di Laura Boella, Il giovane Lukács, Bari, De Donato 1977, pp. 103-237.
[5] György Lukács, Tattica ed etica [1919], in op. cit., p. 13.
[6] Ivi, p. 14.
[7] Ivi, p. 23.