La filosofia classica tedesca ha unificato in una prospettiva metafisica i diritti umani, da poco promulgati in Francia, “come realizzazione della libertà”, in quanto quest’ultima costituisce “il diritto originario” [1], come ha osservato a ragione Bernard Bourgeois, nel suo decisivo studio Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx a cui faremo costantemente riferimento nella prima parte di questo articolo.
L’unificazione in una prospettiva metafisica dei diritti umani è stata conseguita sostituendo alla mescolanza ancora empirica dell’affermazione rivoluzionaria della libertà a opera della Ragion pratica e della felicità, necessariamente empirica, “la fondazione razionale di tutti i diritti proclamati nel 1789-1791 su uno di essi, in tal modo elevato a diritto originario, e che non è nient’altro che la libertà” (13), alla realizzazione della quale mira l’intero diritto. Inoltre, dal momento che la libertà altro non è che il “titolo ad avere dei diritti” – come recita l’articolo primo della Dichiarazione: “gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti” – questa concezione della libertà viene “giustapposta a l’uguaglianza” dello stesso titolo a godere di diritti, messo in relazione “con l’interesse (‘le distinzioni sociali non possono che venir fondate che sull’utilità comune’)”. In tal modo i diritti umani “sono fondati sia sulla libertà sia sull’utilità (la socialità)” (13).
Le origini dei diritti umani sono da ricercare nel giusnaturalismo moderno che fonda il diritto “sul soggetto umano e le sue esigenze (diritto soggettivo), e non, come affermava il diritto naturale antico-classico, sulla sua oggettiva implicazione nella finalità cosmica naturale” (13). In tal modo “la libertà non è il principio, ma un contenuto del diritto”, nel senso che il soggetto ha la possibilità di “essere reso libero” e, dunque, “il diritto – compresa la libertà – può venir concesso” (13).
Perciò, contrariamente a quanto generalmente si crede, lo stato di diritto non si è affermato con la Rivoluzione francese, ma con l’assolutismo che ha concesso le libertà personali e civili. D’altra parte “la storia della monarchia prerivoluzionaria ha mostrato, allo stesso tempo, che la semplice concessione di diritti significava la precarietà del loro esercizio” (14). L’uomo ha realmente dei diritti solo se è in grado di conquistarseli. In effetti, il “diritto non è che autoaffermazione della libertà” (14) e, perciò, si afferma unicamente nella libera proclamazione di se stesso. “È l’atto della dichiarazione dei diritti dell’uomo – in quanto atto che dà senso alla costituzione statale fondata su di esso – che erige nei fatti in principio del diritto, ovvero la libertà” (14). Allo stesso modo la filosofia classica tedesca, quale “filosofia dei diritti dell’uomo, è precisamente l’elevamento al concetto dell’atto della loro dichiarazione” (14). Il diritto, quale realizzazione della libertà umana, è il fondamento della seconda natura, dell’antropizzazione del mondo, è lo spirito dell’umanità che diviene oggettivo. Quest’ultimo era maggiormente affine agli interessi di Marx rispetto allo spirito assoluto, tanto da considerare la riflessione hegeliana sul diritto l’unica opera tedesca in grado di tenere il passo col “moderno presente ufficiale”.
A partire dal diritto fondamentale nella concezione liberista, il diritto alla proprietà, “tutti i diritti sono delle condizioni della realizzazione della libertà” (15). Così nella filosofia classica tedesca è proprio il diritto di proprietà a costituire la realizzazione immediata della libertà. Allo stesso modo, il terzo diritto naturale enunciato dalla Dichiarazione del 1789, il diritto alla sicurezza corrisponde al “diritto che hanno gli individui di costituire una comunità statuale la sola capace di assicurare la realtà fisica della proprietà e la realtà metafisica della libertà” (15). Perciò, “affermarsi liberi nel mondo, affermare il proprio diritto o i propri diritti, significa affermarsi (…) come un soggetto (…) metafisico”. La proclamazione dell’universalità dei diritti umani ha, dunque, una fondazione metafisica, nel senso di indipendente dal mondo empirico. D’altra parte proprio per questo, “il diritto dell’uomo, la libertà, non implica che tutti gli uomini abbiano gli stessi diritti, perché il diritto dell’uomo non è un dato empirico, ma, piuttosto, richiede che gli uomini possano – giuridicamente – avere gli stessi diritti” (17). In altri termini, ciò comporta soltanto che ogni cittadino portatore passivo di diritti “deve avere la possibilità legale di divenire cittadino attivo” (17). Allo stesso modo anche nella filosofia classica tedesca “l’attualizzazione individuale del diritto universale alla proprietà” è formale come tutti i restanti diritti dell’uomo e, anzi, tale formalismo “è il prezzo della loro affermazione universale assoluta” (17).
Dal momento che la filosofia classica tedesca riconosce dei diritti all’uomo solo in quanto portatore della libera volontà, “tali diritti si estendono secondo l’intensificazione del legame tra la libertà e la natura […]. Vi è così, da Kant a Hegel, una concretizzazione crescente dei diritti dell’uomo” [17], ossia il progressivo passaggio dai diritti negativi ai diritti positivi. Per altro in Hegel la società civile moderna, ovvero il modo di produzione capitalistico, sviluppa al proprio interno una contraddizione che non può essere risolta al suo livello. Anzi, tale contraddizione “si compie in una crisi che l’universalizzazione del commercio fra gli uomini rende totale e definitiva” (29).
Inoltre Hegel, al contrario dei liberali, non riconosce un valore in sé all’individuo e al mondo economico, in quanto il loro essere sociale si realizza solo nella riconciliazione al livello superiore del mondo politico fra individuo e universalità. Il mondo politico si afferma, dunque, attraverso lo sviluppo della contraddizione interna alla società civile che la porta al suo auto-negarsi per superarsi dialetticamente nella sfera etica dello Stato. D’altra parte “il primato politico dell’identità sulla differenza” caratteristica della sfera economica della società civile, “fa sì che il cittadino, come tale, ha soprattutto dei doveri”; ciò esige che l’uomo possa soddisfare liberalmente la sua tendenza naturale alla felicità attraverso la relativa libertà e autonomia della sfera dei bisogni, in cui la differenza resta predominante. Perciò per Hegel lo Stato politico dovrà necessariamente, per potersi affermare su di un livello superiore rispetto al mondo economico, “proteggere e promuovere (…) i diritti dell’uomo come membro della società civile” (30). Perciò, per quanto secondo Hegel “i diritti dell’uomo non sono reali che nel e mediante lo Stato”, quest’ultimo ha la sua potestà solo attraverso l’assicurazione che offre, attraverso la sua vigilanza, alla “esistenza dell’uomo nel cittadino, mediante” (30) la relativa indipendenza del mondo economico della società civile, all’intero dello Stato come totalità.
Tornando alla proclamazione dei diritti umani nella Rivoluzione francese occorre osservare che, almeno nelle intenzioni dei loro promulgatori, essi non dovevano rimanere degli astratti precetti morali, abbandonati al sostanzialmente impotente dover essere degli individui, ma intendevano incarnare lo spirito di un popolo in cammino verso la sua liberazione e, perciò, aspiravano a divenire il fondamento di una nuova vita etica, basata sulla libertà. D’altra parte, come mostra Marx, prodotto della rivoluzione politica, che ha come prototipo la Rivoluzione francese – anche al di là degli scopi dei suoi differenti protagonisti – non è altro che la rivoluzione borghese, il cui risultato sancisce i rapporti fondamentali dominanti all’interno della società civile quali leggi dello Stato. Così la distinzione in classi diviene un fattore determinante del nuovo Stato, che istituzionalizza così le differenze di classe, che costituiscono un principio fondamentale della società borghese. Così, per quanto velata dagli effetti omogeneizzanti del linguaggio giuridico, in tutti i casi in cui si arrivi a un conflitto fra diritti – ad esempio fra il diritto all’eguaglianza, che porterebbe a espropriare senza indennizzo i grandi mezzi di produzione proprietà delle multinazionali, violando il loro diritto di sicurezza e proprietà privata – emerge chiaramente la presenza di una profonda asimmetria all’interno dei diritti umani. Un tale esproprio, per quanto sia assolutamente indispensabile per rendere reale il diritto all’eguaglianza fra gli uomini, nelle società borghesi – affermatesi con la Rivoluzione francese – non può che apparire come uno sconvolgimento radicale dell’ordine giuridico, una rottura della legalità. In tal modo, appare evidente la gerarchia, sottesa alla dichiarazione dei diritti dell’uomo, per cui i diritti negativi, i “diritti-libertà”, sono considerati del tutto superiori ai diritti positivi, i cosiddetti “diritti-credito”, sebbene sia facile constatare – come fa notare a ragione Eustache Kouvélakis – che i primi “non possono che degenerare in pure formalità senza il sostegno” [2] dei secondi.
Questa è la ragione fondamentale della critica marxiana ai diritti umani. Per cui, pur riconoscendone il valore storico, ovvero “l’ispirazione rivoluzionaria”, e il portato storico, per cui tutte le costituzioni successive, per quanto moderate, “devono essere più o meno modellate sull’esempio francese” [3] che ha il suo fondamento proprio nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, Marx non si stanca di denunciare lo scarto fra i diritti umani “quali figurano sulla carta” e la “misera forma in cui nella realtà si concretano”, che dovrebbe portare “alla piena consapevolezza della singolare contraddizione che sussiste fra idealismo e realismo, fra teoria e pratica”. Per cui i tratti salienti, realmente rivoluzionari della Dichiarazione sono nei fatti rimasti delle mere “chiacchere” [4]. Inoltre, la stessa libertà, posta a fondamento dei diritti umani, ha, dal punto di vista di marxiano, un limite interno, in quanto la sua espansione è vincolata al patrimonio privato di cui il singolo dispone. Gli interessi degli individui nella società borghese sono considerati naturalmente contrapposti e fondati su un fine meramente utilitarista. Secondo tale concezione meramente negativa della libertà, lo Stato non deve in alcun modo intervenire nel caso in cui anche i bisogni primari dell’individuo siano limitati dalla scarsezza delle risorse di cui dispone, a meno che ciò non sia dovuta all’intervento intenzionale di un altro individuo, che ne ha limitato la potestà illimitata sul suo patrimonio, violando la legge. La libertà meramente negativa, dunque, può abbandonare la sua veste negativa unicamente se vi saranno delle condizioni sociali in grado di favorire il suo pieno dispiegamento. Perciò, dal punto di vista di Marx, l’uomo non può realizzare il proprio concetto nella società politica-borghese, ma solo in un assetto sociale che sia in grado di superarne il contraddittorio dualismo fra eguali diritti formali e reali differenze socio-economiche. Dunque l’astratto cittadino libero, della Dichiarazione, non corrisponde alla reale condizione della libertà umana nella società capitalista. Si tratta, perciò, dal punto di vista di Marx di risolvere il dualismo fra società reale, in cui gli uomini sono effettivamente diversi, e piano astratto dello Stato in cui, come cittadini, sono formalmente uguali. Tale soluzione non potrà che comportare il togliersi di entrambi gli opposti, ossia il superamento della contraddizione fra società economica e Stato politico.
Note:
[1] Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, PUF (Presses universitaires de France), Parigi 1990, p. 13. D’ora in poi citeremo direttamente nel testo quest’opera indicando fra parentesi tonde il numero della pagina.
[2] Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, pp. 72-73.
[3] K. Marx - F. Engels, Opere complete agosto 1858- febbraio 1860, tr. it. L. Formigari, vol. XVI, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 79.
[4] Ivi, p. 79.