Fare i conti con l’oste della Storia

La vicenda dello stalinismo tra ragioni e mitomania è la parabola di un fallimento


Fare i conti con l’oste della Storia

L’oste della storia è un tipo esigente: non fa mai sconti… tutt’al più accetta dilazioni, ma le fa pagare assai care in termini di interessi.

La nostra storia, la storia dei comunisti è in questo caso emblematica: da anni ci si dilania tra noi sui suoi punti più controversi e su questi si viene contemporaneamente inchiodati (tutti e di ogni tendenza) dalla borghesia e dai suoi corifei teorici che pretendono da noi il pentimento per il peccato di aver pensato e agito in vista di un'altra società.

In questo senso la recensione che il nostro compagno Renato Caputo fa di un libro di Ruggero Giacomini (“Il processo Stalin” edito da Castelvecchi) è assai preziosa e utile: lo è perché infrange il tabù del silenzio che spesso vige tra i comunisti sui lati più divisivi e dolorosi del nostro percorso storico. Un silenzio che forse è anch’esso annoverabile al fenomeno dell’autofobia di cui parlava Domenico Losurdo.

Il buco nero dello stalinismo

Stalin e lo stalinismo rappresentano certamente il “cuore” del problema nell’impresa di costruire una memoria condivisa del passato tra i comunisti e non solo. Perché poi, in fondo, la parabola della Rivoluzione d’Ottobre, le sue conquiste e la sua sconfitta interpellano in generale la coscienza di tutti i rivoluzionari e degli anticapitalisti, compresi quelli che hanno già bella e pronta una loro risposta (negativa) come gli anarchici.

Dalla lettura della recensione, Stalin sarebbe vittima di una demonizzazione che ha un solo precedente nella storia come si legge nel titolo: quella di un Papa nel medioevo! La causa di questa distorsione nell’elaborazione di un giudizio più equilibrato sul grande protagonista della storia del secolo scorso, sarebbe Nikita Kruscev con le sue rivelazioni nel corso del XX congresso del Pcus.

Kruscev si palesa in tutta la sua fragile contraddittorietà: accusatore di Stalin, ma coprotagonista dei massacri e delle stragi imputate al Capo. Per fare qualche numero, più di 786 mila persone sarebbero state condannate a morte con l’accusa di controrivoluzione nel “periodo aureo” dello stalinismo dal 1931 al 1953 come si evince da dati emersi dagli archivi della NKVD. Cifre corrette? Mah! Stando a quanto appare nella recensione del libro di Giacomini sulle vittime imputabili al solo Kruscev (che dal ’34 era nel comitato centrale del Pcus) la cifra potrebbe essere realistica o forse anche inferiore alla realtà. Leggiamo infatti che: “Secondo le risultanze di una commissione di epoca gorbacioviana delle ‘pratiche anti-costituzionali’, egli aveva infatti ‘responsabilità dirette… nella repressione di 55.741 comunisti di Mosca, e di 167.565 comunisti ucraini.’ Esiste anche un documento del luglio 1937 in cui Kruscev chiede a Stalin l’arresto di 33.000 persone e la fucilazione di 6.500”.

Bene dunque: Kruscev non è credibile come paladino dell’antistalinismo. Ciò è sufficiente ad assolvere Stalin in sede di giudizio storico da un punto di vista comunista? Non pare proprio.

La retorica stalinista o neostalinista ha sempre concesso un luogo centrale nella sua costruzione ideologica alla congiura che avrebbe portato al potere Kruscev e la sua cricca dopo la morte dell’“eroe” della costruzione del socialismo in un paese solo. Da quel momento secondo costoro partirebbe la controrivoluzione che ha poi portato al crollo dell’Urss. Ma per ovvi motivi questo schema ideologico (nel senso di “falsa coscienza”) non ha nulla a che vedere con una ricostruzione storica marxista che dovrebbe partire dalla individuazione delle classi sociali che avrebbero dato vita e sostenuto la svolta di Kruscev e portato al suo esito finale. Ma la difficoltà di questi epigoni dell’uomo d’acciaio è evidente: come si può spiegare l’avvento dello stesso Kruscev (e quindi poi di tutti gli altri sino a Gorbacev) senza coinvolgere il “santino” di Stalin?

In effetti, non si può porre seriamente la questione da un punto di vista di analisi di classe senza mettere anche lo stalinismo sotto la lente di ingrandimento e di conseguenza chiedendogli cortesemente di accomodarsi sul banco degli imputati. Quel “buco nero” esercita una sua inesauribile forza di gravità su tutto ciò che ne è scaturito.

La non sovrapponibilità delle accuse borghesi e delle critiche marxiste allo stalinismo

C’è poi da dire che le accuse lanciate contro Iosif Vissarionovic Dzugasvili dagli storici e dagli intellettuali borghesi non corrispondono a quelle che al medesimo sono state avanzate da altri esponenti marxisti. Così nella “demonologia” di parte liberal-democratica troviamo la questione della collettivizzazione delle terre e dell’enorme costo in vite umane che la contraddistinse. Certo, quei milioni di morti pesano moltissimo in sede di giudizio storico, ma nessuna delle “anime belle” del liberalismo si sofferma sulla natura di quella collettivizzazione che tale poi non fu, lasciando spazio a quella che Bordiga chiamava “la gestione familiare minuta”. Nei kolchoz che nacquero dalla battaglia di Stalin contro i contadini ricchi o kulaki, ogni famiglia aveva in godimento personale un piccolo pezzo di terra con tanto di bestiame e attrezzi di lavoro i cui proventi si aggiungevano a quelli derivanti dal lavoro sulla terra posseduta in comune dal kolchoz.

“Giusta la Costituzione del 1936, e giusto lo statuto-tipo dell’artel ossia del kolchoz, sono questi i diritti della famiglia rurale, affiliatasi al kolchoz, e sia pure spontaneamente. La spontaneità è del tutto deterministicamente spiegata. Si tratta di andare a spartirsi la pelle del proletariato rivoluzionario dell’industria. Si tratta della miserabile risorsa di cui tutte le infelici e imbelli classi medie del mondo moderno si sono ridotte a vivere: la elemosina dello Stato capitalista nelle strette di emergenza” [1].

Sta di fatto che l’agricoltura sovietica non si riprese mai del tutto da quel trauma e che negli anni ’80 l’Urss era costretta a importare grano dal Canada. Lo scarso rendimento delle campagne fu uno dei punti deboli che determinarono il crollo finale dell’Unione Sovietica nel ’91.

La questione dei processi e delle purghe nell’Armata Rossa

Il libro di Giacomini (e la recensione su di esso) ci dice che lo stesso grande terrore “va inquadrato nel contesto di un ferocissimo conflitto politico interno al partito comunista”. In cui le opposizioni alla maggioranza staliniana, sebbene sensibilmente differenti fra di loro, “in determinate circostanze si erano dimostrate capaci di coordinarsi e di prefigurare una sorta di contropotere. Un potere occulto dotato di una propria organizzazione all’interno della Russia e con capillari connessioni con gli espatriati”. E come testimone imparziale della bontà dei processi di Mosca si cita un emissario dell’amministrazione Roosevelt, arrivando a sostenere che l’opposizione allo stalinismo avrebbe costituito “un potere occulto dotato di una propria organizzazione all’interno della Russia e con capillari connessioni con gli espatriati”. Ecco queste affermazioni, in realtà, non suffragate da particolari fatti storici (a meno che non si voglia individuare nel potere occulto la fragilissima organizzazione trotskista che in quegli anni non riusciva nemmeno a trovare uno stabile rifugio per il suo leader girovagante per il mondo dalla Turchia, alla Francia, alla Norvegia e al Messico) determinano il paradossale risultato di screditare l’Ottobre: quale quadro ci dovremmo fare di una rivoluzione che a poco più di dieci anni dal suo avvento vede dalla parte del tradimento gran parte del suo gruppo dirigente: Bucharin, Trotzky, Kamenev, Zinovev, Tomskij, Radek, Pjatakov e tanti altri?

No, cari compagni. Quella non fu una difesa contro un tentativo di destabilizzare l’Urss, ma fu una feroce vendetta che doveva tagliare il nodo di una contraddizione interna al partito, decapitando uno o più termini della contraddizione stessa. Prima lo si riconoscerà, prima ci si avvierà a raggiungere un giudizio storico equilibrato.

Contestualmente, non si deve dimenticare che l’effetto delle cosiddette purghe nell’ambito militare portò l’Armata Rossa a una scarsa reattività e all’impreparazione al momento dell’invasione nazista a causa delle profonde ferite impartire da Stalin al suo quadro di comando. Tre marescialli dell’Urss uccisi nelle epurazioni: Tuchačevskij nel 1937, Egorov nel ’39, Bljucher nel ’38, ma soprattutto 30 mila ufficiali fucilati, destituiti o deportati.  

Ragioni e natura dello stalinismo

Si dirà (e nella recensione si cita appunto un passo del libro) al tirare delle somme, tuttavia, lo stalinismo ha tratto il grande paese dal medioevo dello zarismo fino a renderlo una grande potenza industriale. E in effetti, lo stalinismo ha avuto le sue ragioni storiche: in assenza della rivoluzione in Occidente, una teoria che asserisca la possibilità e la necessità della costruzione del socialismo in un paese solo ha degli enormi vantaggi. In un paese arretrato e assediato, il controllo della burocrazia e il suo rafforzamento attraverso il reclutamento di tutti gli elementi antibolscevichi (da chi aveva servito lo Zar ai menscevichi) ha dato il potere e la possibilità di durare al georgiano e infine in modo sanguinoso e caotico di modernizzare l’industria, armare l’esercito, placare momentaneamente l’antagonismo tra città e campagna (a scapito della città secondo Bordiga).

Ma qual era il fine? Fare della Russia un paese moderno oppure appunto la costruzione del socialismo? Perché se così è, allora è bene che a 29 anni dall’ammainamento della bandiera rossa dalle mura del Cremlino si prenda infine coscienza che si tratta della storia di un fallimento.

Le caratteristiche che hanno determinato il successo dello stalinismo sono anche quelle che hanno prodotto la fine del socialismo in quel paese e la crisi mondiale del movimento. Il miscuglio di autoritarismo, di disprezzo per la democrazia operaia e per ogni controllo dal basso, l’onnipotenza della burocrazia hanno potuto spezzare l’assedio dei paesi imperialisti, vincere una guerra (forse con il rischio di perderla), ma infine hanno costruito non la dittatura del proletariato, ma una forma di dittatura sul proletariato le cui forme hanno reso più difficile la conquista delle masse operaie occidentali alla causa del comunismo.

Si riparta da questo dato di realtà, per favore, per un bilancio non distorto della nostra storia. In fondo, l’autofobia è solo uno dei volti della nostra sconfitta, l’altro è quello della mitomania. La borghesia per difendere la propria causa non ha bisogno di negare i crimini del colonialismo. Non facciamolo noi con gli aspetti più bui della nostra vicenda. Non ci rafforzerà davanti ai proletari e non servirà ad ammansire l’oste della storia.


Note:

[1] Amadeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni LOTTA COMUNISTA, 2009, p. 484

28/07/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Stefano Paterna

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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