Il regime fascista

La costruzione dello Stato totalitario fascista, i suoi limiti innanzitutto dal punto di vista economico, i patti lateranensi, l’antifascismo e il successo internazionale del movimento fascista.


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Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi

Segue da La presa del potere da parte del fascismo

I limiti dell’economia fascista

Il regime mussoliniano, sebbene si atteggiasse addirittura a rivoluzionario, non appare in grado nemmeno di mettere seriamente in questione le classi dominanti all’interno del vecchio blocco storico al potere dall’Unità d’Italia, ovvero un’industria ultra-protetta – che il fascismo favorisce ulteriormente in nome dell’anacronistico, antieconomico e distopico mito dell’autarchia – sempre più monopolistica e localizzata nelle regioni settentrionali, cui corrisponde nel sud un’agricoltura in generale arretrata in quanto incentrata sul latifondo di origine medievale, cui si aggiunge la consueta pratica liberale dei lavori pubblici semplicemente propagandata più di prima, per finanziare con le tasse pubbliche i privati in grado di accaparrarsi gli appalti pubblici grazie alla consueta corruzione delle autorità politiche. Con lavori che non finiscono mai, quanto meno nei tempi previsti, e i cui costi tendono inevitabilmente a lievitare rispetto a quanto pattuito.

Per un bilancio storico dell’economia fascista

In complesso nel fascismo vengono creati strumenti più moderni di direzione economica e si accentua l’intervento statale in campo economico, essenzialmente per socializzare le perdite dei privati, in tempi di crisi economica, mediante le nazionalizzazioni. L’intervento dello Stato in campo sociale si limita a una politica assistenzialista – rivolta a cercare di conquistarsi l’egemonia sui lavoratori e a indottrinarne i figli fin da piccoli – in sostituzione degli istituti cooperativi e autogestiti dai lavoratori devastati dallo squadrismo fascista. Da questo punto di vista si può parlare di una rivoluzione passiva o di una rivoluzione senza rivoluzione, in quanto alcune parole d’ordine del precedente movimento rivoluzionario – per affossarlo ulteriormente dopo averlo massacrato militarmente – come le nazionalizzazioni e lo sviluppo del sedicente Stato sociale sono realizzate dall’altro, per cercare di egemonizzare anche i lavoratori, i principali oppositori, anche se spesso più potenziali che reali, ma facendo nella realtà gli interessi del grande capitale.

Il salario indiretto garantito con le misure “sociali” dello Stato totalitario fascista non compensano le riduzioni del salario diretto, grazie all’eliminazione di ogni forma di organizzazione autonoma dei lavoratori. Infine, la tanto osannata riforma corporativa della società – che avrebbe dovuto rappresentare l’elemento davvero rivoluzionario dal punto di vista strutturale, ossia economico e sociale, si rivela un’altra tipica misura della Rivoluzione passiva, per cui lo Stato fascista dopo aver eliminato violentemente ogni forma di organizzazione della classe lavoratrice, esattamente come il mafioso o il gangsterismo sindacale statunitense, si propone come presunto mediatore neutrale in grado di ricomporre in nome dell’interesse generale nazionale le potenzialmente contrapposte rivendicazioni dei salariati e dei loro sfruttatori.

Anche il costantemente assicurato e propagandato potenziamento economico del paese non è mai conseguito, nonostante l’enorme investimento pubblico nell’apparato militar-industriale per rilanciare con il keynesismo militare la domanda. Quest’ultimo costa crescenti sacrifici ai cittadini, ma non solo non produce i risultati sperati nell’immediato, ma porta, nel medio periodo, necessariamente a una spaventosa guerra, che avrà un esito catastrofico per il nostro paese. Inoltre la compressione politica, sociale e culturale delle classi lavoratrici favorisce il più netto predominio economico-sociale dei ceti privilegiati, che rimarranno i principali sostenitori del regime, mentre il proletariato industriale moderno resterà il più significativo, quanto meno in forma potenziale, oppositore. Così l’Italia anche durante il ventennio fascista rimane un paese arretrato dal punto di vista economico, sociale e culturale nel contesto europeo. Il boom economico che farà dell’Italia un paese economicamente avanzato avverrà solo alla fine degli anni cinquanta.

Anche i modesti progressi fatti grazie al keynesismo militare e alla compressione del salario sociale saranno ben poca cosa rispetto alle distruzioni provocate dalla guerra. Del resto l’accentuato protezionismo non spingerà le imprese a innovare e a modernizzarsi per diventare realmente competitive sul piano internazionale. Certo, le pesanti devastazioni prodotte dalla guerra rimetteranno in moto l’accumulazione capitalistica, con la necessità di ricostruire, ma provocheranno il progressivo indebitamento dello Stato e il conseguente assoggettamento sul piano politico, militare, economico e culturale agli Stati uniti. Inoltre l’accumulazione partirà comunque da un livello molto basso, non solo per il disastro bellico, ma in quanto i costi sociali della precedente crisi sono toccati in parte significativa all’Italia, proprio per la sua sostanziale debolezza sul piano internazionale.

I patti lateranensi

La sedicente rivoluzione fascista obbiettivamente tradita da Mussolini e i vertici del fascismo, che sono divenuti classe dirigente, solo facendosi nel breve-medio periodo i più affidabili cani da guardia dei profitti del grande capitale – sempre più a discapito del resto della società – non possono che produrre una crescente insoddisfazione nella base sociale del fascismo. Tale insoddisfazione della base di massa del regime, costituita principalmente da piccola borghesia e ceti medi, si accentua ulteriormente a seguito della nefasta crisi del 1929, i cui effetti negativi i paesi a capitalismo avanzato scaricano sui paesi arretrati come l’Italia in cui (grazie al governo fascista) la classe dominante riesce a sua volta a scaricarne i costi sul resto della società.

D’altra parte, Mussolini riesce da una parte ad attenuarne nell’immediato i colpi della crisi con una politica keynesiana (per diversi aspetti simile al New Deal roosveltiano), con la sua decisiva componente militare, dall’altra riesce a riconquistare il consenso perso mediante la realizzazione della conciliazione fra Stato e chiesa mediante i patti lateranensi del febbraio 1929. Risultato di indubbio rilievo, considerato che non era riuscito a nessun governo liberale precedente. In tal modo Mussolini rafforza decisamente il suo Stato totalitario e il suo consenso fra conservatori e reazionari, accentuando il malcontento del “fascismo di sinistra” e dei liberali “radicali”.

Con questi patti, sostanzialmente tutt’ora vigenti, La Città del Vaticano, sede del papato, riconquista la sua indipendenza statuale, anche se su una porzione molto ristretta dei precedenti territori dello Stato della chiese e gli è corrisposta una considerevole indennità per gli espropri di beni e territori subiti dopo l’unificazione. Gli ingenti costi di questa spregiudicata operazione, condotta in prima persona da un fervente anticlericale, ricadono ancora sulla fiscalità generale, alla lunga facendo montare il dissenso verso il regime. Lo Stato liberal-fascista riconosce la validità civile del matrimonio religioso, l’insegnamento religioso nelle scuole italiane gestito direttamente dalla Stato del Vaticano, la negazione dei pieni diritti civili ai sacerdoti considerati eretici o spretati, in cambio Mussolini ottiene che il Vaticano riconosca per la prima volta lo Stato italiano e si riconcili con esso solo sotto la direzione del fascismo, cui lascia campo libero nella sua propensione a realizzare uno Stato totalitario dal punto di vista politico, vietando ai gruppi cattolici qualsiasi intervento in tale ambito, se non all’interno delle organizzazione porte in essere dal fascismo. D’altra parte alcuni cattolici democratici non condivisero l’entusiasmo delle gerarchie ecclesiastiche per Mussolini e la sua “provvidenziale” dittatura, che sembrava aver inferto un colpo mortale al pericolo di una rivoluzione socialista (che rendesse progressivamente superfluo l’oppio per il popolo), e che contrastava in modo reazionario diversi aspetti della modernità complessivamente invisa ai vertici della chiesa. I dissidenti cattolici finirono per sostenere l’opposizione antifascista condannata ancora più all’illegalità dai patti lateranensi.

L’opposizione legale di Benedetto Croce

Fra le pochissime voci parzialmente critiche tollerate dal regime totalitario, per la loro moderazione e il prestigio di cui godevano a livello internazionale, occorre ricordare quella del grande filosofo borghese e ideologo liberale Benedetto Croce. Quest’ultimo, da essere stato un sostenitore del fascismo quale efficace strumento per eliminare con la violenza le sinistre, era in seguito passato all’opposizione, quando dopo la rivendicazione del delitto Matteotti, comprese che Mussolini era talmente compromesso che non avrebbe restituito la funzione di classe dirigente alla classe politica liberale di cui era parte. Ciò portò Croce a denunciare la rottura delle istituzioni liberali portata avanti dal progetto totalitario del fascismo, denunciando in particolare la limitazione della libertà di coscienza e la violazione della separazione fra Stato e chiesa, che aveva finito con il fare del cattolicesimo una religione di Stato.

Il successo internazionale del modello fascista

Occorre, avviandoci alle conclusioni, ricordare che i liberali conservatori come l’altro grande filosofo borghese Giovanni Gentile, a differenza del suo precedente sodale Croce, avevano dato il loro pieno sostegno al regime fascista proprio in quanto liberali. Gentile aveva dichiarato, richiamandosi all’eredità della destra storica, che a suo avviso i giolittiani, passando all’opposizione ne tradivano lo spirito. Del resto, in quanto liberale, per Gentile non si poteva che sostenere il fascismo in quanto più efficace baluardo contro sindacalismo, socialismo e comunismo.

Tanto più che, in generale, i liberali conservatori furono in massima parte aperti sostenitori del regime mussoliniano, quale baluardo contro il bolscevismo. Sono tra gli altri da annoverare fra gli ammiratori di Mussolini gli esponenti del Partito conservatore inglese e lo stesso Winston Churchill. Tanto più che il modello fascista conosceva una notevole capacità di espansione a livello europeo e poi mondiale. In primo luogo, il regime mussoliniano divenne un modello per il regime ultra reazionario che si impose in Ungheria dopo la violenta repressione della Repubblica dei Consigli. Dopo aver portato a termine la solita spietata e smisurata caccia al rosso, mediante il terrore bianco, si impose in Ungheria un governo clerical-fascista di estrema destra guidato da Horthy e rappresentante gli interessi dell’aristocrazia dei grandi proprietari e dell’alto clero. Anche la Polonia, sotto il maresciallo Pilsudski, nemico giurato dell’Urss, imitò diversi aspetti del regime fascista, senza che per altro ciò la preservasse dall’invasione fascista nel 1939, come del resto era avvenuto all’Austria nel 1936, dove pochi anni prima si era affermato, dopo il massacro delle forze della sinistra, un regime filofascista. Anche il regno di Jugoslavia, la Romania, la Grecia e la Bulgaria – con il prevalere di regimi ultraconservatori e reazionari – si ispirarono in modo più o meno aperto al fascismo italiano. Anche in Spagna la dittatura di Miguel Primo de Rivera, dal 1923 al 1930, assunse tratti assimilabili al fascismo, ma si rivelò ben presto fallimentare. Anche se un regime filofascista si riaffermerà in Spagna a seguito del golpe militare ordito dal generale fellone Francisco Franco, con il decisivo apporto di Hitler e Mussolini. Anche in Portogallo si era nel frattempo imposto un regime clerical-fascista sotto la guida dell’economista ultraliberista Salazar, che fu il regime di estrema destra più longevo, durando sino alla Rivoluzione socialista e antimperialista detta dei garofani, che lo rovescerà nel 1974. Infine anche il nazionalsocialismo si ispirò a notevoli aspetti del regime mussoliniano, dallo squadrismo delle camicie grigie, al saluto romano allo stesso termine di Führer, traduzione del termine Duce fatto proprio da Mussolini, per limitarci ad alcuni aspetti più immediati e appariscenti. Per altro, come è noto, in questo caso l’allievo riuscì a “superare” in molti aspetti il maestro, a partire dalla realizzazione di uno Stato ancora più compiutamente totalitario e da una persecuzione ben più sistematica e brutale degli ebrei, fino alla ignobile soluzione finale.

05/10/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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