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L’influenza del socialismo neokantiano sul revisionismo
Il revisionismo di Bernstein risente dell’influenza del socialismo neokantiano, una corrente culturale del socialismo tedesco caratterizzata dalla ricerca di una mediazione fra gli obiettivi sociali del movimento operaio e la concezione etica della societas, diffusasi innanzitutto nella scuola kantiana di Marburgo a opera di Hermann Cohen. Principale esponente del socialismo neokantiano è considerato Karl Vorländer (1860-1928), che ha mirato a distinguere la questione socialista dalle sue implicazioni politiche, per ripensarla sulla base di una universale concezione etica del mondo, che aveva nel Kant reinterpretato dalla scuola di Marburgo il suo fondamento teorico. Il revisionismo del socialismo neokantiano raggiungerà il suo apice durante la Prima guerra mondiale, quando Paul Natorp, uno dei suoi più noti esponenti, esalterà l’armonia sociale riconquistata mediante il nazionalismo, capace di unificare gli interessi di tutte le classi sociali.
Il revisionismo del materialismo storico
Dal socialismo neokantiano Bernstein riprende la concezione secondo la quale diverrebbe necessario far leva sulle istanze morali dei soggetti, considerate autonome dalla struttura socio-economica, per promuovere una riforma in senso democratico della società. Ciò diverrebbe possibile richiamandosi ai valori kantiani della dignità della persona umana, da trattare sempre come un fine in sé e mai come un mezzo. In tal modo Bernstein rivendicava l’autonomia delle idee e dei valori etici nei confronti della struttura economico-sociale, in evidente contrasto con un aspetto decisivo del materialismo storico.
Il riformismo socialdemocratico di contro alla dittatura del proletariato
Dal punto di vista politico, il revisionismo di Bernstein sostiene che, essendo mutato sostanzialmente il capitalismo rispetto a quello analizzato da Marx, anche le forme di lotta politica dei lavoratori dovevano modificarsi; perciò, non solo si doveva considerare oramai storicamente superata la prospettiva della conquista del potere, per sostituire alla dittatura del grande capitale la dittatura del proletariato, ma la stessa lotta di classe era da considerarsi oramai datata. Così Bernstein, estremizzando le posizioni espresse da Engels nella prefazione a La guerra civile in Francia, contrappone alla concezione marxista prevalente della conquista del potere per via rivoluzionaria, la trasformazione graduale e democratica del sistema capitalista. Bernstein considera, infatti, inseparabili socialismo e democrazia, essendo la seconda il mezzo necessario a conseguire il primo, dal momento che la realizzazione della democrazia comporterebbe la soppressione del dominio di classe. A tal proposito, sosteneva Bernstein: “la democrazia è al tempo stesso mezzo e scopo. Essa è il mezzo per imporre il socialismo, ed è la forma di realizzazione del socialismo”. Quindi i socialisti non potrebbero che operare sul terreno della democrazia e del suffragio universale per far sì che i lavoratori da strumenti dello sviluppo sociale divengano a tutti gli effetti cittadini. Dunque la lotta per una nuova società comunista, il fine stesso del marxismo, è ormai secondo Bernstein da considerarsi un’inutile utopia, dal momento che gli pare possibile risolvere le contraddizioni del capitalismo operando al suo interno mediante riforme sociali. Perciò quello che era lo scopo finale del marxismo perde agli occhi di Bernstein il suo valore, mentre il mezzo per raggiungerlo diviene essenziale. Proprio per questo le rivendicazioni dei lavoratori dovrebbero essere portate avanti in modo gradualista, mediante una politica di riforme volte ad ampliare progressivamente gli spazi di socialismo già presenti nella società borghese, come le cooperative o il controllo esercitato dai sindacati sulla produzione. Perciò, il programma dei socialisti non deve essere contrapposto a quello liberale, ma deve porsi come un suo naturale completamento, dal momento che il socialismo è erede del liberalismo, in quanto ne ricomprende il patrimonio ideale. A tale scopo diviene essenziale l’alleanza con i ceti medi e la piccola borghesia, per isolare grandi capitalisti e rentiers.
Conseguenze storico-politiche del revisionismo
Dal punto di vista storico, infine, le posizioni revisioniste di Bernstein lo porteranno con i suoi fautori a sostenere dapprima la politica coloniale dell’Impero germanico, in nome della presunta missione civilizzatrice della cultura occidentale e, in seguito, a sostenere il Reich nella prima guerra mondiale – nonostante le gravi responsabilità della Germania nello scoppio di questo spaventoso conflitto – in nome della presunta necessità di esportare nella Russia zarista la civiltà politica occidentale.
Le critiche di Kautsky al revisionismo
Le posizioni riformiste di Bernstein producono la dura reazione di Kautsky, che controbatte criticando a fondo il revisionismo in Bernstein e il programma socialdemocratico (1899), il primo di una serie di articoli poi raccolti nell’opera La via al potere del 1909. Kautsky si impegna, in primo luogo, a dimostrare l’attualità del materialismo storico, tuttavia, tenendo conto delle critiche rivolte da Bernstein al marxismo ortodosso, si sforza di attenuare la sua precedente interpretazione deterministica del rapporto fra strutture e sovrastrutture.
Inoltre, pur non negando l’evidente sviluppo dei ceti intermedi, Kautsky mostra che a tale fenomeno si accompagna la tendenza fondamentale alla concentrazione e centralizzazione della produzione prevista da Marx. Tanto più che, a parere di Kautsky, Bernstein aveva frainteso l’analisi economica di Marx, in quanto ciò che essa intende mettere in luce non è l’impoverimento in termini assoluti dei lavoratori salariati, ma il loro impoverimento relativo all’arricchimento dei ceti dominanti, che si misura sulla distribuzione sempre più diseguale del plusvalore complessivo a favore di profitti e rendite e a discapito dei salari. In altri termini, la porzione dell’accresciuta produzione che va ai lavoratori salariati è in percentuale di molto inferiore a quella di cui si appropriano profitti e rendite. Inoltre Kautsky nega che sia rinvenibile negli scritti marxiani la tesi di un inevitabile crollo del capitalismo, mentre rivendica, di contro a Bernstein, la validità della previsione di Marx secondo la quale le contraddizioni interne al sistema condurranno prima o poi il modo di produzione capitalista a crisi di sovrapproduzione dalle proporzioni sempre più ampie, tali da mettere in crisi la capacità del capitalismo di autoregolarsi. Dietro la riproduzione allargata e il conseguente accrescimento del capitale tedesco del tempo, che appariva a Bernstein inarrestabile, si annida in realtà una nuova grande crisi di sovrapproduzione, dal momento che la quantità sempre maggiore di merci gettate sul mercato non incontrerà un’adeguata domanda pagante, a causa della mancata crescita, in proporzione, del potere d’acquisto dei lavoratori salariati. Kautsky ne deduce che anche la nuova linea politica proposta da Bernstein sia inefficace e fondata su presupposti fallaci e, dunque, rivendica la prospettiva marxista “ortodossa” della presa del potere politico finalizzata all’abbattimento del modo di produzione capitalistico.
La fine dell’unità ideologica della seconda Internazionale
In un primo momento le posizioni di Kautsky trovano ampio consenso nella SPD e all’interno della Seconda Internazionale, tuttavia l’unità ideologica del movimento socialista sotto le bandiere del marxismo tende a dileguare nel confronto-scontro fra diverse posizioni ideologiche che vanno: dal marxismo ortodosso, al revisionismo riformista, dal massimalismo, al socialismo neokantiano, dal socialismo positivista, al materialismo rozzo. Tale disomogeneità favorisce l’eclettismo e lo scetticismo verso una soluzione teorica e astratta delle problematiche storiche concrete. Ciò a sua volta favorisce l’affermazione, nella maggior parte dei partiti socialisti, di una prassi politica che si muove progressivamente nella direzione indicata da Bernstein.
Dalla via insurrezionale alla via democratica al potere
Del resto lo stesso Kautsky, pur contestando le tesi revisioniste, non si oppone altrettanto risolutamente alla prassi sempre più gradualista della socialdemocrazia tedesca, anche quando ciò porta, per non rompere con i riformisti, a non contrastare in maniera risoluta il colonialismo e a votare i crediti necessari all’ingresso in guerra della Germania nel 1914. La contraddizione fra massimalismo teorico e prassi riformista sarà risolta progressivamente a favore di quest’ultima, tanto che Kautsky nel successivo sviluppo della sua riflessione sul marxismo, pur senza riconoscerlo apertamente, assumerà posizioni sempre meno distanti da quelle elaborate da Bernstein.
Bernstein e Kautsky finiscono con il ritrovarsi uniti nella critica a Lenin e alla Rivoluzione di Ottobre
La Rivoluzione di ottobre viene condannata – in quanto considerata come un colpo di mano dei bolscevichi, che vanamente si sarebbero illusi di poter forzare soggettivisticamente il processo necessario dello sviluppo storico – tanto dalla componente riformista dei partiti socialisti, che avevano sostenuto la guerra, quanto dalla componente centrista, che aveva come punto di riferimento teorico Kautsky. Questa presunta forzatura soggettivistica del corso del mondo, non solo avrebbe reso necessaria una rottura violenta dell’ordine costituito, ma tale rivoluzione sarebbe necessariamente degenerata in una dittatura antidemocratica, dal momento che il potere dei bolscevichi sarebbe stato privo di basi reali.
Così non solo Bernstein, ma lo stesso Kautsky conducono una polemica sempre più dura contro le posizioni di Lenin – per il suo tentativo di riorganizzare su basi rivoluzionarie il socialismo – e contro la Rivoluzione di Ottobre e i suoi sviluppi. Per quanto riguarda la polemica teorica con Lenin e la critica politica alla Repubblica dei soviet, particolarmente significativo è lo scritto di Kautsky La dittatura del proletariato (1918), volto a smentire che Marx avrebbe realmente sostenuto tale prospettiva. Tanto più che, secondo Kautsky, la via democratica al socialismo sarebbe l’unica garanzia di un superamento reale della società capitalista. Inoltre, a suo parere, la dittatura operaia non solo non comporterebbe l’abolizione della democrazia, ma il suo progressivo compimento. A parere di Kautsky, in effetti, il socialismo senza la democrazia non si realizzerebbe, ovvero non sarebbe realmente tale senza conservare al proprio interno alcune delle principali istituzioni introdotte nel corso dello sviluppo dei più avanzati Stati borghesi quali: il multipartitismo, l’eguaglianza giuridica e politica dei cittadini indipendentemente dalle classi di appartenenza, la salvaguardia delle minoranze politiche, etc. Tanto più che, anche precedentemente, Kautsky non aveva mai dato rilievo alle riflessioni di Marx ed Engels sulla necessità del progressivo estinguersi dello Stato nella transizione dal socialismo a una compiuta società comunista.
La via parlamentare al potere politico vs la via rivoluzionaria
Così alla via rivoluzionaria al potere politico, considerata da Marx la più realistica in quasi tutti i contesti, Kautsky contrappone, in aperta polemica con la Rivoluzione russa, la via parlamentare, volta ad ampliare gli spazi di democrazia borghese. A suo parere, infatti, la progressiva concentrazione monopolistica del capitale avrebbe reso sempre più superflua la violenza rivoluzionaria e sarebbe stato sufficiente conquistare il consenso all’interno di una società progressivamente polarizzata per andare al governo e inaugurare una serie di riforme sociali strutturali in grado di trasformare la società democratica borghese in senso socialista. La violenza resterebbe necessaria in ultima istanza, solo nel momento in cui la minoranza sempre più ristretta di grandi capitalisti non accettasse le decisioni “democratiche” della grande maggioranza della popolazione, oramai legittimata dal suo essere al governo del paese.
A tali posizioni si opposero generalmente le stesse componenti che avevano contrastato sino all’ultimo la guerra e che mireranno a riprodurre l’esperienza della rottura rivoluzionaria russa nei propri paesi. Mirando a rompere con i riformisti, non appena ve ne fossero state le condizioni, tali componenti daranno vita a organizzazioni rivoluzionarie, che si doteranno, a partire dal 1919, di una struttura centralizzata: la Terza Internazionale, cui si opporrà una ricostituita Seconda Internazionale che, per distinguersi dal comunismo cui mirava la prima, si definirà socialista.
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