Grand Hotel Abisso

Proseguendo nell’analisi critica dei pensatori moderni conservatori e reazionari, concludiamo l’analisi sul pensiero di Schopenhauer e sulla sua polemica contro l’ottimismo sociale


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Segue da “Il mondo come volontà e rappresentazione

Link al video della lezione dell’università popolare Antonio Gramsci su argomenti analoghi

La noia: la vita come pendolo fra dolore e noia con il fugace intervallo illusorio del piacere

Oltre il dolore e il piacere, la terza e ultima situazione esistenziale concepibile, dalla angusta concezione del mondo di Arthur Schopenhauer, sarebbe la noia che emergerebbe, necessariamente a suo avviso, quando viene meno lo stato di tensione, di desiderio che si scarica nel piacere, al quale subentra allora immediatamente la noia, se non vi è subito un nuovo desiderio e, dunque, una nuova e rinnovata fonte di sofferenza. Schopenhauer ne conclude, con il suo consueto pessimismo della volontà, che “la vita umana è un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando attraverso l’intervallo fugace e per di più illusorio del piacere e della gioia”.

La sofferenza universale e il darwinismo sociale

La volontà di vivere porterebbe, secondo la catastrofista concezione del mondo di Schopenhauer, al desiderio inappagato che si manifesterebbe in tutto il vivente. Desiderare non potrebbe esser altro che desiderare vivere che, però, comporterebbe immancabilmente il soffrire. Tutto sarebbe, quindi, destinato a soffrire, ma l’uomo – secondo la concezione radicalmente anti-umanista di Schopenhauer – non potrebbe che soffrire più di tutti, in quanto avrebbe la “disgrazia” di essere maggiormente consapevole, maggiormente cosciente rispetto a tutti gli altri esseri viventi. Da ciò se ne dovrebbe dedurre il pessimismo cosmico di Schopenhauer: il male non sarebbe solamente nel mondo, in questa spietata Weltanschauung, ma nel principio stesso da cui il mondo intero dipenderebbe, ovvero questa irrazionalistica volontà di vivere una vita che è, essenzialmente, sofferenza.

La posizione di Schopenhauer è apertamente anti-sociale: vi sarebbe un dolore cosmico dovuto alla lotta crudele di ogni vivente, tormentato e angosciato, che esisterebbe solo a patto di divorare continuamente l’altro da sé, al quale contende lo spazio e il tempo, secondo una concezione resa in seguito popolare dal darwinismo sociale. L’individuo, in tale vicenda irrazionale, appare a Schopenhauer un mero strumento della specie, l’unico fine della natura sembra essere quello di perpetuare la vita e con la vita il dolore che sarebbe a essa necessariamente connesso. In tal modo sarebbe negata a priori la possibilità stessa che le classi subalterne possano aspirare a una vita felice, lottando contro la loro condizione di oppressione. In tal modo i privilegi filistei, che consentono a Schopenhauer di condurre una vita da parassita sociale, sarebbero al sicuro.

La presunta illusione dell’amore

Anche l’amore, uno dei più forti stimoli all’esistenza, non sarebbe altro per Schopenhauer che lo strumento per perpetrare la vita della specie e, quindi, il suo dolore. Il fine dell’amore sarebbe dunque, secondo Schopenhauer, l’accoppiamento, al contrario di quanto avevano sostenuto Platone, Giordano Bruno, il romanticismo, etc. “L’individuo è lo zimbello della natura”, della volontà di vivere, perché riproducendosi la riprodurrebbe e sarebbe, quindi, responsabile del conseguente necessario soffrire. Perciò secondo Schopenhauer non esisterebbe amore senza sessualità, perciò quest’ultima sarebbe considerata come peccato e vergogna, in quanto costituirebbe il peggiore dei delitti: perpetuare la sofferenza, producendo altre creature destinate necessariamente a soffrire. Del resto Schopenhauer era decisamente misogino e non è mai riuscito a costruire un rapporto d’amore con una donna.

La polemica di Schopenhauer contro l’ottimismo cosmico

Schopenhauer polemizza aspramente contro l’ottimismo cosmico, che costituirebbe lo schema di pensiero dominante in occidente, che considererebbe il mondo come un organismo perfetto governato da una divinità o da una ragione immanente, come nella filosofia hegeliana. Dal punto di vista di Schopenhauer non sarebbe altro che una visione consolatrice, ma certamente falsa. Schopenhauer afferma a tal proposito: il nostro mondo “non è il migliore dei mondi possibili, il regno della logica, ma è un mondo irrazionale, dove dominano illogicità e sopraffazione”, in cui regnerebbe incontrastata la legge della giungla, in cui il più forte si imporrebbe con la violenza sul più debole. In un tale mondo non ci deve essere, nella prospettiva classista di Schopenhauer, la speranza di una redenzione per gli umiliati e offesi nemmeno attraverso la credenze in dio. Al punto che Schopenhauer sostiene: “se dio ha creato questo mondo, non vorrei essere dio, perché l’estrema miseria del mondo mi spezzerebbe il cuore”. Tanto da domandarsi: “donde ha appreso la materia del suo inferno Dante, se non dal mondo reale?”, scrive Schopenhauer appropriandosi di un aforisma di Pietro Verri, da cui riprende, senza mai citare la fonte, buona parte della sua teoria del dolore. Naturalmente rovesciando il senso progressista che aveva tanto in Verri, quanto in Giacomo Leopardi, illuministi intenti a contrastare la visione del mondo consolatoria e passivizzante della religione, quale instrumentum regni e oppio per il popolo, come la definirà Karl Marx.

La polemica contro l’ottimismo sociale

Schopenhauer, al contrario di Jean-Jacques Rousseau, rigetta la tesi della bontà naturale e socievolezza dell’uomo. I rapporti fra gli uomini sarebbero, al contrario, essenzialmente improntati al conflitto e alla sopraffazione, secondo la ormai consueta robinsonata degli apologeti del capitalismo che considerano naturale il terribile individualismo concorrenziale che lo anima. Riprendendo così la concezione distorta di Hobbes, già ampiamente contestata da Rousseau e Fichte, Schopenhauer afferma: “vi è nel cuore di ogni uomo una belva”. Per cui la cattiveria sarebbe connaturata nell’uomo, come l’istinto egoistico, il piacere per le disgrazie altrui. In tal modo, Schopenhauer mira a giustificare, naturalizzandola, la condizione che gli è cara di parassita sociale, che vive nell’ozio grazie al selvaggio sfruttamento di buona parte del genere umano. Sempre riprendendo Hobbes, il teorico dell’assolutismo, Schopenhauer sostiene che gli uomini vivono insieme non per una naturale simpatia che proverebbero per i loro simili, ma unicamente per scopi utilitaristi, individualistici ed egoistici, ossia unicamente per bisogno.

LE VIE DI LIBERAZIONE DAL DOLORE

Se la vita è destinata a essere caratterizzata dal dolore, come sostiene Schopenhauer, perderebbe di senso tutta la millenaria lotta per l’emancipazione e il miglioramento delle condizioni di vita del genere umano. Tanto più che per Schopenhauer non solo non si deve utilizzare la vita per contribuire al processo di liberazione dell’umanità, ma si dovrebbe addirittura imparare a non volerla. D’altra parte Schopenhauer è contrario al suicidio in quanto in primo luogo il suicida non nega la volontà ma la afferma; il suicida vuole la vita, ma è scontento della propria. In tal modo, non nega la volontà di vivere, ma una vita particolare. In secondo luogo il suicidio sopprime un individuo, che sarebbe solo una manifestazione della volontà di vivere, la quale invece non muore.

L’arte ci sottrarrebbe al desiderio e, quindi, al dolore

L’unica risposta al dolore consisterebbe nella liberazione dalla volontà di vivere che si articola, secondo Schopenhauer, in tre momenti: in primis abbiamo l’arte: intesa come conoscenza libera e disinteressata che si rivolge alle idee, siamo agli antipodi della concezione di Platone. Il soggetto contempla l’universale e non il particolare e non è più l’individuo naturale soggetto alla volontà, ma puro soggetto del conoscere che si sottrae alla catena dei bisogni e dei desideri e, quindi si sottrae al dolore. Più che vivere, sostiene Schopenhauer, nell’esperienza estetica si contemplerebbe la vita. Tra le varie arti spicca la tragedia, che sarebbe un’autorappresentazione del dramma della vita. Un posto a sé fra le arti occuperebbe, secondo Schopenhauer, la musica che sarebbe l’immediata rivelazione della volontà a se stessa e porrebbe l’uomo in contatto con le radici della vita e dell’essere.

I limiti della liberazione dal dolore dell’esperienza estetica

Ogni arte è liberatrice, ma la liberazione dal dolore da parte dell’arte è solo temporanea e parziale. Non è, a parere di Schopenhauer, una via per liberarsi definitivamente dal dolore, ma è solo un conforto alla vita.

L’etica della pietà

A differenza dell’arte, che sarebbe un estraniarsi dal mondo, la morale implica un impegno nel mondo: un tentativo di superare l’egoismo innato fra gli uomini, una delle maggiori fonti di dolore. La morale sgorga da un sentimento di pietà attraverso cui avvertiamo come nostre le sofferenze degli altri. Compatiamo, cioè sentiamo insieme, ci identifichiamo con il loro tormento. La morale si concretizza, nella concezione di Schopenhauer, in primo luogo nella giustizia – la sua componente negativa – che ingiungendo di non fare del male agli altri imporrebbe un primo freno all’egoismo. La carità sarebbe la parte positiva dell’etica, in quanto sarebbe disinteressata e comporterebbe il fare propria la sofferenza degli altri. Tale apologetica della carità è volta a contrastare la politica progressista che vuole eliminare le cause della sofferenza, è come l’elemosina dei cattolici che sono contro i comunisti perché vogliono eliminare la povertà, che consente ai benestanti di fare delle buone azioni. Anche se la morale implica una vittoria sull’egoismo, rimane comunque all’interno della vita. Perciò, la liberazione totale dalla volontà di vivere sarebbe da ricercare nell’ascesi.

L’ascesi e il nirvana

L’ascesi sarebbe l’esperienza attraverso la quale l’individuo, cessando di volere la vita e il volere, estirperebbe il desiderio di esistere, di godere, di volere e, quindi, di soffrire. Si tratta della mera ripresa della seconda categoria dell’opinione della introduzione alla Scienza della logica di Hegel: il puro nulla, categoria affermatasi nell’antico oriente pre-scientifico e filosofico, che corrisponde al nirvana del buddismo.

Il primo momento della vita ascetica, di cui Schopenhauer ci offre un’acritica apologia, è costituito dalla castità, che libererebbe l’uomo, nella prospettiva nichilista schopenhaueriana, dall’impulso di procreazione della specie. La castità comporta la rinuncia ai piaceri, l’umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio. Siamo ancora agli antipodi della lotta per l’emancipazione dalla miseria del marxismo, Schopenhauer sostiene beati i proletari perché poveri, perché vivono da asceti. I poveri, infatti, tenderebbero secondo Schopenhauer, allo stesso scopo degli asceti ossia a vincere la volontà di vivere. La soppressione della volontà di vivere si ha proprio con l’ascesi. Sarebbe l’unico atto di libertà possibile per l’uomo che, in quanto anello della catena causale, sarebbe, sostiene Schopenhauer, sempre determinato. Ci si potrebbe sottrarre a tale catena esclusivamente mediante l’ascesi. L’uomo entrerebbe così nello stato di grazia che non si conclude come nei mistici cristiani con l’estasi, l’unione con dio, ma con il nirvana buddista che è l’esperienza del nulla. Il nulla, sostiene Schopenhauer non è il niente, ma il nulla relativo al mondo, la negazione del mondo stesso che è un nulla per chi è ancora pieno di volontà, ma per l’asceta è un tutto, un oceano di pace e serenità in cui si dissolverebbe la nozione stessa di Io e di soggetto.

Due critiche alla soluzione ascetica di Schopenhauer

L’ascesi contrasta con l’ideale etico della pietà verso il prossimo, perché comporta una chiusura individualista dell’Io. Leopardi nella Ginestra – sostenendo la solidarietà umana al di là del pessimismo – dà un esito opposto e impegnato al pessimismo. Inoltre, se è davvero l’unica via di liberazione, non ci si può non domandare come mai Schopenhauer non ha seguito la strada dell’ascesi. L’apologia dell’ascesi rischia di essere ipocrita, in quanto è una ricetta che vale essenzialmente per i poveri.

10/05/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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