Brecht Vs Wagner

Dalla critica all’opera wagneriana Brecht realizza la sua rivoluzione drammaturgica e teatrale dando vita al teatro epico e all’effetto di straniamento.


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L’intero sviluppo della forma d’arte drammatica, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, può essere interpretato come un progressivo venire meno dei canoni della drammaturgia tradizionale. Questa rivoluzione formale era stata preceduta e resa possibile dalla riflessione estetica che, a partire dalla fine del settecento – da Winckelmann a Lessing e Herder per intenderci – si era interrogata sulle condizioni di possibilità di un’arte moderna, che si era vista costretta a rompere sempre più con la tradizionale poetica dei generi per dare espressione alla multiforme complessità della nuova sostanza.

La concezione brechtiana del teatro epico può, quindi, essere considerata una lontana discendente della riflessione romantica; tuttavia “il povero Bertolt Brecht” era ancora sostanzialmente all’oscuro di questa complessa discussione teorica. Ciononostante era ben conscio che nell’epoca moderna le relazioni tra gli individui fossero divenute sempre più problematiche, che la libertà d’azione del singolo fosse sempre più sovradeterminata dall’ambito sociale, che la causalità assoluta dell’azione fosse definitivamente infranta, entrata in crisi e che, quindi, spazio e tempo avrebbero dovuto assumere una funzione del tutto nuova all’interno del dramma. Semplificando, Brecht avvertiva l’ingente necessità “di un nuovo teatro che corrisponda al ‘nuovo tipo di uomo’ oggi esistente”, [1] sorto dalla rivoluzione scientifica. Questo nuovo teatro doveva essere epico, ma lo stesso Brecht aveva più di un problema a definire cosa intendesse con questo termine, sebbene continuasse a nascondere questa difficoltà dietro la consueta spavalderia di questi anni giovanili.

Si apre, così, alla fine degli anni venti, una fase di intensa produttività sia teorica che drammatica. Tra il 1928 e il 1930, infatti, superando la precedente impasse produttiva, Brecht mise in scena L’opera da tre soldi e Ascesa e caduta Ascesa e caduta della città di Mahagonny, che avrebbero dovuto costituire i primi esempi di opere programmaticamente epiche. Entrambi questi lavori ottennero un notevole successo, ma ben pochi si resero conto di aver assistito a messe in scena epiche. 

Ciò spinse Brecht a scrivere, negli anni successivi, alcune annotazioni relative alle due opere messe in scena. Molto probabilmente Brecht stesso aveva avuto bisogno di un certo lasso di tempo per intendere appieno e poter chiarire tutto il valore che questi due esperimenti drammatici avevano avuto per la messa a punto del nuovo dramma epico. In queste note non solo è approfondito il valore “negativo” delle due opere, come critica all’opera tradizionale, ma è anche indicato il loro ruolo di modello formale per l’opera del futuro

Con esse, in effetti, si era cercato di portare il genere operistico allo stesso livello tecnico del teatro moderno, cioè del teatro epico, di cui Brecht fornisce in questi scritti una prima sistematica esposizione. La forma schematica di questa esposizione ha generato, però, più di una incomprensione. Per questo abbiamo preferito evitare di trattare isolatamente le indicazioni fornite da Brecht sulla forma epica del teatro, per ricercarne, invece, le possibili connessioni con gli altri temi presenti in questi scritti. Elemento chiave di queste annotazioni è la critica al genere operistico, mentre, al di là del famoso schema in cui è contrapposta alla forma epica, non si parla affatto di “forma drammatica del teatro”. Molte delle incomprensioni e delle critiche ricevute dallo schema brechtiano dipendono dalla difficoltà a intendere correttamente a cosa si riferisse lo scrittore con questa fantomatica espressione. A questo proposito, è possibile ipotizzare la derivazione di questa “forma drammatica del teatro” dalla forma dell’opera criticata in queste pagine. Bisogna però comprendere che tipo di opera avesse assunto Brecht a oggetto della propria critica.

Diversi critici hanno interpretato le due opere come una ripresa parodistica di temi wagneriani. Del resto il valore musicale delle due opere consisteva essenzialmente in un ritorno all’opera wagneriana, che non mirava però alla stabilizzazione dei risultati ivi raggiunti, ma che intendeva palesare, al contrario, il carattere demoniaco insito persino negli accordi più comuni. Nelle intenzioni dei due autori, Brecht e Kurt Weill, anche gli accordi perfetti sarebbero dovuti apparire falsi. Lo scopo cui miravano era lo smascheramento della funzione “culinaria” della melodia infinita della musica tentacolare wagneriana

Dunque, al di là della parodia, attraverso le opere e gli scritti relativi a L’opera da tre soldi e Mahagonny, Brecht si era riproposto di mettere in questione lo stesso elemento centrale dell’opera wagneriana: l’opera d’arte totale. La totalità conquistata dall’opera wagneriana era considerata da Brecht non solo artificiosa, ma anche mistificatoria. Essa, per riottenere l’immediata unità dell’opera classica, soffocava le diverse arti sulle quali si fondava. Tale opera d’insieme finiva per degradare a semplici mezzi i diversi elementi di cui si serviva e trasportava il pubblico in una mistica unione, dove andava perduta necessariamente ogni possibilità di assumere un atteggiamento critico. All’impeto neoromantico di Wagner, che portava le singole arti a perdersi nell’unità superiore e mistica della musica, Brecht opponeva lo scetticismo epistemologico dell’epoca scientifica cui sentiva di appartenere.

Perciò Brecht pretendeva continuamente che si mettesse in evidenza in ogni cosa il suo lato contraddittorio, che fossero rese percepibili come tali le parti, i punti di appoggio, i punti di rottura, che il song fosse presentato come song per mezzo di cambiamenti di illuminazione, di emblemi, di particolari modi di recitare, di arrangiamenti. “Le arti d’appoggio [Hilfskünste] dovevano divenire arti sorelle [Schwesterkünste] e dovevano svolgere insieme con l’arte scenica un compito comune”. [2]

Per comprendere la genesi della teoria del dramma epico, nella forma peculiare che essa ha assunto nell’opera di Brecht, è necessario, quindi, tenere presente la critica da lui rivolta al Gesamtkunstwerk e alla funzione mistificante della “tentacolare” musica wagneriana. Queste critiche rivolte da Brecht a Wagner hanno, probabilmente, un modesto valore da un punto di vista strettamente musicale, tuttavia costituiscono un momento fondamentale di chiarificazione nello sviluppo della teoria del teatro epico. Occorre, d’altra parte, chiarire che l’oggetto della critica brechtiana è stato – prima ancora dell’opera di Wagner in sé – ciò che essa ha rappresentato nella coscienza culturale del primo novecento

L’opera di Wagner è apparsa a molti autori del ventesimo secolo in grado di riassumere in sé e portare a compimento gli sforzi compiuti durante tutto il secolo precedente per superare, con una nuova concezione dell’arte totale, il lento deperire, l’agonia della produzione artistica nella prosaicità del mondo moderno. Tuttavia, a parere di Brecht, essa è riuscita a preservare l’imprescindibile tensione dell’opera a organizzarsi in una totalità di senso solo all’inaccettabile prezzo di ridurre l’aspirazione, la vitale tensione alla totalità a una “cattiva infinità”, a una morta unità, costretta necessariamente a sacrificare al suo manifestarsi concreto, alla sua annichilente presenza, la ricchezza delle differenze. [3]  La totalità dell’opera wagneriana era ritenuta da Brecht mistificante, dal momento che per ricostruire l’immediata unità dell’opera classica, non aveva esitato a soffocare le diverse arti sulle quali si strutturava. 

Volendo ribaltare l’immediata fusione degli elementi dell’opera wagneriana, che portava le espressioni artistiche a perdersi nell’unità superiore e mistica della melodia infinita della musica, Brecht ha teorizzato l’esigenza della loro analitica separazione. Egli ha inteso in questo modo opporsi a quella cattiva totalità in cui i diversi elementi sono ridotti a semplici “spunti” l’uno dell’altro, a morti strumenti del sogno wagneriano di ricondurre a unità la disparata molteplicità degli spettatori, rapendoli in una mistica unione in cui va perduta per essi la stessa opportunità di assumere un’attitudine critica.

Il dramma epico, al contrario, non avrebbe più dovuto fondarsi su un’aspirazione “sentimentale” alla totalità, ma su una nuova razionalità in grado di cogliere, al tempo stesso, il tutto e le sue differenze. Come abbiamo visto, infatti, l’unità tematica dell’opera doveva realizzarsi strutturalmente attraverso “un gioco di passaggi contrappuntistici” da una forma artistica all’altra. Il tema fondamentale dell’opera si dispiegava così non solo nei tratti peculiari delle diverse arti, ma anche nel disegno della struttura generale del tutto. Ogni distinta arte doveva favorire la comprensione della totalità dell’opera, che a sua volta consente di cogliere ogni singola manifestazione artistica nel suo nesso coerente che la lega al tutto

Sul piano drammaturgico quest’esigenza ha spinto Brecht a contrapporre al corso lineare dell’azione dell’opera tradizionale, in cui ogni scena dipende strettamente dalla seguente, un procedimento a “curve”, a “salti”, in cui ogni scena sta per sé e partecipa al tutto solo attraverso il montaggio, in modo da preservare la ricchezza delle differenze.

Il teatro epico rimette in discussione la tradizionale dicotomia tra il genere drammatico, in cui è centrale l’azione, e il genere epico in cui centrale è la narrazione. Nella concezione brechtiana del teatro, infatti, la netta separazione della poetica classica tra il rapsodo che narra al passato e il mimo che recita al presente ha perso, così, il suo valore normativo. L’attore epico deve mantenere, infatti, un atteggiamento distaccato dal gioco scenico, in quanto è pienamente cosciente sin dall’inizio dello svolgimento dell’azione. Benché debba rappresentare scenicamente il suo personaggio, ne deve al tempo stesso narrare le gesta. Egli non deve nascondere allo spettatore la maggiore coscienza che ha del corso dell’azione rispetto a quella del personaggio che rappresenta. L’attore epico quindi, indipendentemente dalla continuità spazio-temporale dell’azione, può finalizzare gli avvenimenti e le situazioni a ciò che intende dimostrare e, così, può svelare allo spettatore anche le più nascoste connessioni tra gli avvenimenti scenici. Egli può mostrare la simultaneità degli avvenimenti, ripetere l’azione per esaminarla da un altro punto di vista e, infine, infrangere il corso lineare dell’azione per lasciare spazio al suo commento. Nella sua libertà di fronte alla sostanza, nella sua disponibilità accresciuta al commento e alla considerazione razionale, la drammaturgia epica era particolarmente indicata a mediare al suo spettatore una visione del mondo.

Note:

[1] F. Ewen, Bertolt Brecht - La Vita, l’opera i tempi [1967], tr.it. di A. D’anna, 2 ed. Feltrinelli, Milano 1980, p. 139.

[2] B. Reich, “Hegel und das Thater Bertolt Brechts” in Theater der Zeit n.5, Berlino 1970, p. 61.

[3] Brecht, come Nietzsche, doveva aver ammirato il tentativo wagneriano di rompere con l’idea classica di opera, ma allo stesso modo non poteva esimersi dal condannare il suo aver ceduto, infine, ad una concezione consolatoria dell’arte, figlia di Schopenhauer e del suo pessimismo “decadente”.

14/11/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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