The Front Runner - Il vizio del potere [aggiunta italiana al titolo originale del tutto fuorviante] (Usa 2018) di Jason Reitman, è un buon film di denuncia sul condizionamento dei media e della CIA sulla politica statunitense e sulle drammatiche conseguenze dell’egemonia del puritanesimo più ipocrita. Si tratta della vera storia del primo candidato favorito alle più importanti elezioni del mondo, le presidenziali degli Usa, costretto ad abbandonare la politica a causa di una scappatella extra-coniugale. Il ritiro di Gary Hart, il favorito candidato del partito democratico alle presidenziali del 1988, porterà al terzo successo consecutivo della destra repubblicana. Così l’ex direttore della Cia, con una montagna di scheletri negli armadi, George H. W. Bush potrà portare a compimento la politica neoliberale inaugurata dal suo predecessore Ronald Reagan. Inoltre il nuovo presidente inaugurerà la nuova stagione delle guerre calde post guerra fredda, volte a incoronare gli Stati uniti unica superpotenza mondiale, con l’aggressione imperialista prima a Panama e poi all’Iraq, governati da presidenti fino a poco tempo prima stretti alleati degli Stati uniti, proprio grazie al lavoro sporco condotto dalla Cia.
La storia è significativa in quanto mostra la netta sterzata a destra dei mezzi di comunicazione di massa negli Stati Uniti – presto al solito seguiti dai media dell’intero mondo occidentale – che hanno abbandonato qualsiasi ambizione a far conoscere verità e realtà ai propri lettori pur di vendere un numero maggiore di copie e dimostrarsi del tutto allineati all’ideologia dominante. Così i giornali invece di fare inchiesta sul candidato repubblicano, che aveva presieduto la più potente e criminosa agenzIa di intelligence del mondo, sguinzaglia i propri reporter a cercare qualche macchia nella apparentemente esemplare vita privata del candidato democratico. Così facendo ha dato un primo importante contributo al fatto che nelle campagne elettorali non siano più al centro dell’attenzione e del dibattito i programmi politici. Così facendo si è oggettivamente favorita la destra, dal momento che, in un confronto politico sui programmi, la sovranità popolare avrebbe certamente – nonostante tutte le trappole della Cia, mai così apertamente coinvolta in un campagna elettorale – finito con il premiare il candidato democratico, piuttosto che il rappresentante repubblicano dell’oligarchia.
Anzi, paradossalmente, è proprio la rigorosa scelta del candidato democratico di contrastare l’estetizzazione della politica – come sottolineava già Walter Benjamin tipica dei fascismi – per riportare l’opinione pubblica a sviluppare il proprio spirito critico confrontando i programmi dei diversi candidati, a far saltare i nervi ai giornalisti e a fargli braccare l’uomo privato fino a riuscire a documentare una scappatella extra-coniugale. In tal modo il candidato democratico, che mirava ancora a separare nel modo più netto la funzione pubblica e storica, dalla prospettiva del cameriere tutta concentrata sull’inessenziale vita privata, è costretto ad abbandonare la vita politica. Ciò dimostra come nel giro di pochi anni i rapporti di forza fra forze progressiste e reazionarie, nella guerra di posizione per conquistare le casematte della società civile e guadagnarsi il consenso dell’opinione pubblica, si fossero completamente rovesciati. I mezzi di comunicazione – che appena pochi anni prima si erano distinti nel denunciare le bugie dell’amministrazione statunitense sull’aggressione imperialista in Indocina, che avevano denunciato la potentissima curia di Boston, facendo emergere lo scandalo di una chiesa che copre sistematicamente i propri membri rei di pedofilia e che aveva, infine. fatto emergere come il presidente repubblicano Nixon con l’appoggio della Cia facesse spiare i propri avversari democratici, per trovare mezzi di ricatto e farli perdere le elezioni – ora si lancia come un sol uomo per affossare il solo candidato che poteva evitare il vero scandalo, ossia l’elezione del capo dei servizi segreti, ovvero della Cia a presidente degli Stati Uniti.
Evidentemente, come emerge fra le righe nel film, tutto ciò è stato possibile per la capacità che ha avuto la classe dominante di riprendere l’egemonia sulla società civile, che aveva seriamente rischiato di perdere negli anni precedenti. In tal modo sono di nuovo le forze della reazione, le forze che si battono per la dis-emancipazione del genere umano ad avere la meglio con il loro sfacciatamente ipocrita puritanesimo. Per cui il capo dell’agenzia di spionaggio – che si era macchiata di un numero infinito di violazioni dei diritti umani e che fino a quel momento aveva coperto le sue illegalissime azioni di guerra sporca facendo spiare e compilare dossier su tutti i politici che potevano ricoprire incarichi di potere in grado di metterle i bastoni fra le ruote – può ora, senza suscitare nessuno scandalo, conquistare la carica di presidente, mentre il principale concorrente è costretto al ritiro per la spaventosa violazione della privacy cui è costretta la sua intera famiglia, a causa di una scappatella extra-coniugale. Siamo veramente all’assurdo filisteismo, denunciato già nella Bibbia, proprio di chi si mette a denunciare la pagliuzza nell’occhio del prossimo, senza curarsi della trave che ha una trave nel proprio.
Si arriva così all’assurdo – giustamente evidenziato dal film – che solo pochi anni prima il candidato presidente democratico Lyndon Johnson si doveva raccomandare ai giornalisti di denunciare le sue scappatelle extra-coniugali come avevano fatto con John F. Kennedy, contribuendo così ad affermare in suo mito in un’epoca di rivoluzione sessuale proprio contro l’ipocrita puritanesimo così profondamente legato alla storia degli Stati uniti d’America.
Naturalmente non c’è fondo al male e l’aver sostenuto da parte dei mezzi di comunicazione e di una parte significativa dell’opinione pubblica le forze della reazione ha prodotto, in primo luogo negli Stati uniti, uno spaventoso processo di de-emancipazione del genere umano. Tanto che continuando a precipitare sempre più lungo il piano inclinato apertosi con il caso al centro di questo film, si è finito con il successivo presidente democratico, per altro appartenente all’oligarchia, che rischierà la destituzione non per i gravissimi crimini contro l’umanità di cui si era macchiato, in primo luogo sul piano della politica internazionale, ma per una scappatella extraconiugale presto divenuta un caso internazionale. Mentre appena qualche anno dopo veniva eletto presidente, proprio con l’appoggio decisivo di tutti i bigotti, puritani e fondamentalisti d’America Donald Trump, apertamente ultra-maschilista, che non solo ha tradito in tutti i modi la moglie, anche con attrici porno, ma si è vantato di aver compiuto ripetuti atti di violenza sessuale sulle donne. Mentre al contrario una vera e propria tempesta ha travolto i suoi oppositori nel mondo del cinema, per dei comportamenti certo censurabili, ma decisamente meno gravi.
Siamo così giunti all’assurdo per cui quando è un membro dell’oligarchia ad avere comportamenti sistematicamente contrari alla morale, all’eticità e alla religione viene, perciò, esaltato dai suoi bigotti sostenitori, mentre quando è un progressista a violarli, in misura decisamente meno grave, sistematica e vistosa viene subito messo alla gogna pubblica da un’opinione pubblica sempre più bigotta e ipocritamente puritana, ridotta in queste incivili condizioni dalla ultra-reazionaria campagna portata avanti dagli strumenti atti a mantenere l’egemonia della classe dominante sulla società civile.
Tutti pazzi a Tel Aviv di Sameh Zoabi (Lussemburgo, Francia, Belgio e Israele 2018) è una godibile e intelligente commedia, che lascia alquanto da pensare allo spettatore su di una questione decisamente sostanziale come l’occupazione della Palestina. D’altra parte, come ricordavano in un recente articolo P. Vecchiarelli e L. Cienfuegos il filosofo tedesco Theodor Adorno sosteneva che “la commedia, come la satira, ha stretto […] alleanza coi più forti, e solo in tempi più recenti è passata, di tanto in tanto, dalla parte degli oppressi, specialmente quando, in realtà, essi non erano già più tali. A differenza della tragedia, essa non è mai in grado di sollevarsi sui principi e sui valori presupposti come ovvi dall’ideologia dominante”. Purtroppo, anche la commedia in questione non pare in grado di mettere in questione tali principi e valori. Il film nonostante sia a tratti brillante e dotato di una significativa ironica capacità di rimettere in questione alcuni pregiudizi consolidati, tuttavia non mette mai realmente in discussione la questione sostanziale, ovvero l’occupazione della Palestina, che certo non può essere considerata una commedia, trattandosi piuttosto una spaventosa tragedia, una delle più significative della nostra epoca storica. Così, per quanto il film possa apparire scontatamente contro l’occupazione, anche perché realizzato da un regista palestinese e narrato principalmente dal punto di vista degli oppressi, piuttosto che degli oppressori, decisamente denunciati come tali, il film resta nonostante tutto alquanto ambiguo. Al punto da essere finanziato non solo da paesi imperialisti europei, ma dallo stesso Israele. Il tratto ambiguo che il film non riesce a sciogliere dipende essenzialmente dalla sua impostazione più naturalista che realista. In tal modo, piuttosto che denunciare come apparirebbe scontato che dovesse fare la tragedia in atto, finisce, descrivendola sotto forma di commedia, per naturalizzarla.
In tal modo le spaventose e assurde situazioni di oppressione che sono costretti a vivere i palestinesi nella loro stessa terra, a opera degli occupanti, non solo vengono presentate in modo comico, più che tragico o al massimo tragicomico, ma il personaggio principale, con cui il pubblico tende a impersonarsi, considera a tal punto l’occupazione un tragico destino naturale con cui bisogna imparare a convivere, da cercar di sfruttare per le proprie piccole ambizioni, ovvero i propri obiettivi individualistici la tragica condizione di vivere sotto occupazione nella sua stessa terra.
Certo, si potrebbe obiettare, il film proprio per essere realistico mostra come purtroppo, in particolare gli arabi israeliani delle giovani generazioni, sono così abituati a essere considerati cittadini di serie C, da aver perduto lo stesso principio speranza di poter vivere in un paese dove tutti hanno gli stessi diritti. D’altra parte si potrebbe anche obiettare che il film mostra altrettanto realisticamente tutti i limiti delle forme di lotta della passata generazione, che non può accettare di naturalizzare l’occupazione, ma è incapace di trovare altre strade di emancipazione al di là del beau geste del “muoia Sansone con tutti i Filistei”, ossia di un terrorismo kamikaze individuale i cui effetti sono quanto meno contraddittori, se non decisamente controproducenti. D’altra parte, se a queste posizioni entrambe incapaci di opporsi realmente all’occupazione, non se ne prospetta nemmeno un’altra sensata, l’impressione che resta è che non ci sia sostanzialmente nulla da fare, se non cercare molecolarmente una possibile via di fuga all’estero. In altri termini Tutti pazzi a Tel Aviv, per poter andare al di là dei limiti del genere commedia, indicati dal citato Adorno, ovvero per riuscire a “sollevarsi sui principi e sui valori presupposti come ovvi dall’ideologia dominante”, avrebbe dovuto aprire una prospettiva di superamento storico di possibile catarsi della tragedia in atto, per evitare il rischio di una sua naturalizzazione.