Rodari: Gelsomino nel paese dei bugiardi

Una storia che racconta la storia, ma anche il mondo attuale.


Rodari: Gelsomino nel paese dei bugiardi Credits: https://www.teatrocolla.org/repertorio/gelsomino-nel-paese-dei-bugiardi

Credevo, mormorò tristemente Bananito, credevo di essere un pittore.
Ma sarà meglio che cambi mestiere.
E sceglierò un mestiere col quale i colori c'entrino il meno possibile.
Per esempio, farò il becchino, e avrò a che fare solo con il nero.
Anche nei cimiteri ci sono i fiori, osservò Gelsomino.
Su questa terra, di nero proprio nero e soltanto nero non c'è niente.
Il carbone, disse Zoppino.
Ma a dargli fuoco diventa rosso, bianco, azzurro.
L'inchiostro nero è nero e basta.
Ma con l'inchiostro nero si possono scrivere storie colorate e allegre.

Recensire un libro di Gianni Rodari è qualcosa di veramente impegnativo, soprattutto senza una preparazione specifica e dopo averlo letto in maniera irregolare, di sera, sdraiati insieme ai bambini che lentamente si addormentano e tu che provi a resistere un minuto in più di loro per rialzarti e provare a metterti a studiare, o a scrivere. Non si tratta, infatti, di un’opera per la quale è semplice svelarne la trama – una “storia” che si rivelerebbe davvero tale, maestra di vita, se non fosse terribilmente attuale, niente affatto passata – o la morale, fine ultimo di qualunque racconto per bambini.

Il Paese dei bugiardi, infatti, non è semplicemente un regno governato da Giacomone, un ex pirata pelato che ama fare discorsi da un balcone che dopo aver portato il proprio paese in guerra viene cacciato da una rivolta popolare grazie all’opera di uno straniero, Gelsomino – un ragazzino dotato di una voce così possente da far crollare gli edifici – e di alcuni autoctoni, un gatto di gesso rosso con tre zampe (Zoppino), un pittore fallito (Bananito), una vecchia gattara (zia Pannocchia) e sua nipote (Romoletta) che diffondono il bacillo della verità. In altre parole, non siamo di fronte ad un libro che si limita a narrare ai bambini degli anni sessanta un pezzo di storia recente del nostro paese, l’epoca di Mussolini e del fascismo, della resistenza e della forza del verbo comunista.

Il regno immaginato da Rodari, infatti, è terribilmente attuale, per certi versi molto più del celebre capolavoro di G. Orwell, 1984, anch’esso incentrato sul binomio verità-menzogna. Il paese di Giacomone, infatti, non è un regno del terrore ma della tristezza, molto più rappresentativo dell’attuale società di quanto non lo sia Oceania. Non che manchino spioni, poliziotti o il manicomio – dove viene rinchiuso chi dice la verità – ma la loro rappresentazione risponde ad una pedagogia che non vuole incutere paura nei giovani lettori (o anche uditori, visto che il libro è godibilissimo già ai 6 anni, quando 156 pagine non sono digeribili autonomamente).

Giacomone stesso, a differenza dei tanti cattivi che popolano le storie soprattutto moderne, non possiede quel lato oscuro contro cui l’eroe, normalmente giovane-e-bello, si scontra e che proprio per questo tanto affascina i bambini malgrado l’inevitabile sconfitta. Giacomone è un pelato che si vergogna della sua calvizie e per questo porta sempre, all’insaputa di tutti, una parrucca arancione. Una pelata che alla fine lo salverà, permettendogli di scappare irriconosciuto tra la folla che circonda il palazzo mentre ministri, consiglieri e cortigiani, tutti ex pirati della sua ciurma, rimettono i vecchi abiti a lungo dismessi ma sempre un po’ segretamente rimpianti e trovano rifugio nelle fogne.

Il nemico va sconfitto, dunque, ma non distrutto – il palazzo di Giacomone, dopo essere stato ridotto in macerie, con suo rimpianto, dalla possente voce di Gelsomino, viene ricostruito con tanto di balcone – affinché ne rimanga traccia e non possa ritornare. E, soprattutto, l’autorità non va temuta né odiata. Piuttosto deve essere smitizzata e riportata alla categoria dell’umano dal soprannaturale nel quale troppo spesso la si innalza (Marchionne docet). A combatterla poi, non c’è un’altra autorità uguale e contraria ma il popolo e coloro che, per fortuna o per talento, potremmo definire le sue avanguardie. Il Paese dei bugiardi, dunque, è anche la storia di un eroe collettivo fatto di personaggi che si devono integrare mutuamente per riuscire in quella che inizialmente è l’organizzazione della propria resistenza e solo alla fine, quando le condizioni sono mature, si delinea inevitabilmente come la cacciata Giacomone.

Ma l’opera è forse, soprattutto, un piccolo capolavoro di dialettica. Zoppino col proprio irrefrenabile impulso di scrivere sui muri; Gelsomino con la sua ingovernabile voce; Benvenuto che invecchia stando seduto, e tanti momenti lungo il racconto ci mostrano come la trasformazione, sociale e personale, nasca dallo scontro tra opposte tendenze di cui ciascuno è portatore. E che per crescere davvero è indispensabile saper trovare il buono anche in ciò che sembra non averlo.

18/08/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://www.teatrocolla.org/repertorio/gelsomino-nel-paese-dei-bugiardi

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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